TRA FEDELTÀ E RICERCA: DOMENICO ROSATI RACCONTA IN UN LIBRO IL "LAICO ESPERIMENTO" DELLE ACLI CHE FURONO
33621. ROMA-ADISTA. "Non sono il presidente
di un'associazione. Sono il presidente di un problema". Diceva così
Domenico Rosati ai tempi in cui (1976-1987) era alla guida delle Acli. Intendeva
in questo modo sottolineare la situazione del tutto particolare che
caratterizzava l'associazione tra gli anni ‘70 e ‘80: da una parte, la
scelta - assunta dall'XI Congresso di Torino nel 1969 - di rompere l'unità dei
cattolici in politica, rivendicando per il laicato cattolico il primato della
coscienza su quello dell'appartenenza. Dall'altra, la preoccupazione, ovvia per
una grande organizzazione dei lavoratori cattolici nata dentro la Chiesa, di non
portare il livello di attrito con la gerarchia ad un punto di non ritorno. Per
una Chiesa ancora legata a doppio filo alla Democrazia Cristiana, infatti, la
rivendicazione del voto libero e la scelta fatta da Livio Labor con l'esperienza
dell'Mpl (cui le Acli, come tali, non aderirono, pur venendo ugualmente accusate
di aver "sponsorizzato" l'operazione) era un pericoloso precedente,
un'eresia da contenere affinché non contagiasse altre realtà del cattolicesimo
istituzionale. Paolo VI era così corso ai ripari: dopo che a Vallombrosa, nel
1970, l'allora presidente delle Acli Emilio Gabaglio espresse l'auspicio di un
cambiamento in senso socialista della società (portando a compimento sul piano
politico il percorso intrapreso nel Congresso dell'anno precedente con la
cosiddetta "scelta socialista") il papa espresse la sua
"deplorazione" e volle che la Cei interrompesse il rapporto organico
con l'associazione, revocando l'assistente ecclesiastico.
Pur non avendo più l'esplicito riconoscimento ecclesiastico, le Acli furono
inoltre poste sotto speciale sorveglianza affinché la loro ispirazione
cristiana restasse coerente con il Magistero pontificio. In questa particolare
temperie, che dentro le Acli vedeva scontrarsi le componenti più radicali con
settori moderati del movimento - ansiosi di una piena riappacificazione con le
gerarchie - Rosati cercò, negli anni della sua presidenza, di contemperare la
forte esigenza di autonomia associativa con la necessità di mantenere la
comunione ecclesiale.
Undici anni che Rosati ricostruisce oggi in un libro, che ha intitolato Il
laico esperimento. Lavoratori cristiani tra fedeltà e ricerca (Edup 2006, pp.
267, € 15). Un titolo che racconta il tentativo di
tenere insieme il progetto di un'organizzazione dei lavoratori autonoma dalla
gerarchia, ma cristianamente ispirata, con un ordinamento interno democratico e
pluralista, slegato quindi dalle appartenenze partitiche, ma che teneva fermo lo
sforzo per la promozione umana e civile dei lavoratori. Autonomia quindi, ma
nella fedeltà al Magistero: questa la "strettoia" attraverso la quale
le Acli di Rosati cercarono di "serpeggiare". Una strategia che fu
allora aspramente criticata a sinistra (e di cui ampia documentazione diede la
nostra agenzia), non tanto per la sua impronta "moderata", ma perché
quella linea poteva, seppure involontariamente, contribuire al processo di
normalizzazione postconciliare. La gestione ruiniana della Chiesa italiana ha
poi compiutamente realizzato quello che allora sembrava solo uno dei possibili
esiti di quella stagione ecclesiale.
Ma rileggere la storia recente delle Acli è utile anche oggi, in tempi in cui
l'unica autonomia concessa ai laici cattolici è quella di scegliere se aderire
o meno alla linea elaborata dal presidente della Cei: può servire a contrastare
il processo di rimozione storica che diversi settori del laicato cattolico hanno
operato nei confronti dei periodi più "scabrosi" e contraddittori
della loro storia (che sono però - a ben guardare - anche quelli più vivaci e
creativi); ma, soprattutto, serve per tornare a guardare la luna e non soltanto
il dito che la indica. Ne abbiamo parlato con Domenico Rosati nell'intervista
che segue. (valerio gigante)
D: All'inizio del libro, tra le motivazioni che ti hanno spinto a raccontare la
storia di quella stagione delle Acli, accenni alla necessità di salvare
dall'"Alzheimer politico" parte della memoria di quella che - scrivi -
ritieni "essere stato uno dei più originali esperimenti cattolici del
‘900 in Italia". Come mai la memoria storica, ed in particolare del
cattolicesimo politico, è stata rimossa anche e soprattutto nei suoi risvolti
recenti, come è in fondo quello degli anni oggetto del suo libro?
R: Credo che il problema della "rimozione" storica del cattolicesimo
politico sia inserito dentro un più ampio contesto. C'è stato un cambiamento
complessivo dei parametri di interpretazione della realtà concomitante con
l'indebolirsi del conflitto storico di classe che aveva portato, anche in campo
cattolico, a prendere coscienza della necessità di essere presenti anche nel
mondo del lavoro. Questa esigenza nacque per la verità con due motivazioni tra
loro contraddittorie: la coerenza con il principio evangelico della lotta per la
giustizia; e l'altro, certamente più strumentale, di non lasciare campo libero
alle correnti marxiste, comuniste e socialiste. Ma era un legame divenuto
comunque forte e fecondo. Al contrario, oggi, in molti sostengono che la classe
operaia stia evaporando. Ed è normale pensare alla tematica sindacale come
subalterna all'economia quando, ancora non molto tempo fa, gli veniva
pacificamente riconosciuta piena autonomia…
D: C'è una responsabilità anche dei gruppi dirigenti del laicato cattolico in
questo "Alzheimer politico"? Mi riferisco ad esempio, al passaggio del
tuo libro in cui racconti delle celebrazioni per il 50.mo anniversario delle
Acli (2004), facendo un rilievo che anche noi - al tempo - facemmo sulle pagine
di Adista, ossia che all'ampio spazio concesso alla ricostruzione
dell'ispi-razione originaria che diede impulso alla nascita delle Acli e a come
le Acli attuali incarnino l'intuizione di Pio XII e di figure come quella di
Grandi, ci fu un "sostanziale oscuramento dei passaggi critici e degli
attriti che pure hanno segnato, a volte anche clamorosamente, la vicenda del
movimento dei lavoratori cristiani in Italia". Questo "oscuramento dei
passaggi critici", che riguarda per la verità la storia di diverse altre
associazioni e movimenti cattolici, non è una rimozione senza elaborazione, o
peggio, non è una rimozione funzionale a presentare un laicato cattolico in
sintonia totale e continua con la gerarchia?
R: Entriamo in un campo che esula dal perimetro del mio libro - che si ferma al
1987, al termine della mia presidenza - perché coinvolge questioni che hanno
caratterizzato soprattutto gli anni più recenti. Da parte mia, ho sempre avuto
delle Acli una visione problematica. Dico spesso di essere stato presidente non
di un'associazione, ma di un "problema", nel senso che il fermento che
caratterizzava in quegli anni il movimento era assai difficile da gestire, per
noi ma anche per la Chiesa. Eppure, per me questa "vivacità" è stata
per le Acli la ragione stessa del suo esistere, come una bicicletta, che sta in
piedi solo finché c'è movimento. È stata questa convinzione che mi ha portato
a rifiutare più volte - dopo la grande crisi degli anni '70, la presa di
distanza della Cei, la "deplorazione" di Paolo VI e la presidenza
Carboni che aveva ricucito alcuni strappi - di ricevere dalla gerarchia e dal
papa nuove "investiture" o nuovi "mandati". Perché
mantenere il movimento in una zona franca, in questa specie di "terra di
nessuno", ci dava un'agibilità che diversamente non avremmo mai avuto.
Nella mia relazione al congresso di Bologna del 1978, sostengo con chiarezza che
dal momento in cui il papa ci aveva tolto l'assistente, non eravamo quindi più
un'organizzazione riconosciuta - d'altra parte noi non abbiamo mai ritenuto di
essere opera di Chiesa - eravamo tenuti a mantenere la nostra coerenza anche in
questa nuova posizione: del resto, eravamo e siamo un'organizzazione
"profana", perché ci occupiamo di cose del mondo e lo facciamo con i
nostri strumenti, con le nostre capacità di ricerca e a nostro rischio e
pericolo. Se la gerarchia ritiene che tra le cose che facciamo (ossia,
sostanzialmente, la formazione dei lavoratori) c'è qualcosa che può essere
d'interesse per la comunità cristiana, noi siamo ben disponibili ad offrirlo,
ma fuori da vincoli di mandato.
Ciò che è oggettivamente accaduto negli anni recenti, si spiega in buona
misura con il desiderio – che era larghissimo dentro il movimento – di
ristabilire un collegamento più pieno con la gerarchia. Desiderio che si è
tradotto - soprattutto a partire dalla grande udienza del 1991, quella che Livio
Labor definì "la festa del perdono" e a cui non volle partecipare
lasciando la sua sedia vuota - in una sorta di nuova investitura delle Acli che
assunsero un impianto molto più rigido e molto più intraecclesiale rispetto al
passato. Così, nell'ultima fase della vita delle Acli come di tutto il laicato
cattolico c'è stato quello che io - parafrasando il titolo del mio libro
"il laico esperimento" - potrei definire il "sacro
allineamento", che ha prodotto una apparente omogeneità di tutte le
organizzazioni cattoliche e un loro allineamento alla Cei. E le Acli non sono
sfuggite a questo processo. Dal punto di vista della gerarchia questo è stato
un risultato positivo. Ma per la ricchezza della società italiana e dello
stesso mondo cattolico ha rappresentato invece l'indebolimento di una risorsa
importante.
D: Ad un certo punto del libro scrivi del tuo incontro a Milano con il card.
Colombo. Era il 1976 e tu - appena eletto alla presidenza delle Acli – sei
stato sottoposto ad una specie di interrogatorio che definisci di "collaudo
ecclesiastico". "In ultima analisi - ti chiesero tra l'altro - chi
decide? La coscienza o il Magistero?". Rispondesti: "Decide il
Magistero… che però mi dice che non posso mai andare contro coscienza".
Una chiave di lettura interessante, che però il laicato cattolico sembra aver
perso di vista se, a venti anni di distanza dal Convegno di Loreto, siamo ancora
impantanati sulla scelta tra "presenza" e "mediazione". Che
futuro vedi per un laicato che rivendica quella sovranità della coscienza che
lei sommessamente ricordava al card. Colombo?
R: Beh, mica tanto sommessamente… ricordo infatti che in quella circostanza
quella risposta mi apparve quella di un candidato all'esame di maturità: ero
stato infatti ricevuto dal cardinale - peraltro molto gentile con me - ma anche
da due "giudici a latere" che mi esaminarono spartendosi i ruoli. Uno
di loro, il teologo Giovanni Battista Guazzetti, mi faceva domande di tipo
dottrinario, mentre il secondo, don Piero Galli, responsabile della pastorale
sociale, mi interrogava invece su questioni molto più pratiche, riferendosi, ad
esempio, al fatto che pochi giorni prima aveva visto alle finestre della sede
Enaip delle Acli le bandiere rosse esposte. Erano elementi che riflettevano da
parte nostra l'esigenza di esprimere l'unità sindacale nelle lotte dei
lavoratori, ma che ci venivano addebitate come pericolose
"deviazioni". Il problema di fondo era che noi, sin dal 1969, avevamo
rotto anche a livello teorico, oltre che nei fatti, l'unità politica dei
cattolici. E questo era il punctum dolens che provocò la reazione di due
diverse correnti dentro il mondo ecclesiale: quella che faceva capo a Paolo VI,
che all'unità politica dei cattolici era legatissimo (l'aveva in fondo
inventata lui…) perché cosciente che essa aveva preservato l'Italia dal
comunismo e impedito al contempo che i cattolici slittassero a destra; e
l'altra, che faceva riferimento al pensiero di Aldo Moro, e che intendeva l'unità
dei cattolici in politica non tanto uno strumento per combattere il comunismo,
quanto piuttosto come una risorsa da non disperdere nella fase cruciale
dell'incontro tra Dc e Pci. Noi aclisti eravamo in mezzo a questa temperie,
convinti discepoli del cardinale Pellegrino sul tema del primato della
coscienza. In fondo, la coscienza senza il Magistero scivola facilmente
nell'anarchia; ma d'altra parte se la libertà della coscienza è quella di
uniformarsi al Magistero e basta, beh, questo a mio parere decreta l'infecondità
del Magistero.
E poi, il magistero sociale della Chiesa è nato non solo per ispirazione dello
Spirito Santo, ma anche grazie all'apporto, la provocazione, a volte il
sacrificio di schiere di laici, di organizzazioni, di gruppi e movimenti che lo
hanno concretamente realizzato nel corso degli anni. Non quindi il Magistero
illuminato dalla coscienza, ma la coscienza illuminata dal Magistero. Sotto la
mia presidenza, dentro le Acli sottolineavamo spesso di essere
"naturalmente sensibili" alle indicazioni pastorali dei vescovi. Per
questo, se i vescovi ci dicono che qualcosa non è bene, noi non possiamo alzare
le spalle: siamo chiamati a riflettere, discutere e valutare le loro
indicazioni, ma poi – alla fine – siamo noi laici a dover scegliere la via
da percorrere. Questa via può essere quella di conformarsi ai vescovi (ma
sempre di scelta autonoma si tratta) o quella del dissenso, ma può anche essere
una terza via. Per esempio, ai tempi del referendum sull'aborto, le Acli non si
allinearono alla Cei (che peraltro aveva già assunto una posizione
"mediata", perché il referendum minimale che arrivò al voto
riconosceva il diritto di aborto terapeutico). Portammo invece avanti – senza
successo, per la verità – il tentativo di non radicalizzare lo scontro, di
tenere aperto il dialogo tra laici e cattolici. Cercammo di attenuare, per
esempio, la rigidità dell'obiezione di coscienza nei consultori e negli
ospedali. La ritenevamo necessaria per quanto riguardava l'atto in sé
dell'aborto, ma pensavamo che, in tutte le fasi precedenti, gli operatori
cattolici dovessero concorrere alla pari degli altri ad esaminare i casi che si
presentavano. Una posizione molto simile a quella assunta dalla Conferenza
Episcopale Tedesca nei riguardi della presenza dei cattolici nei consultori, e
che il Vaticano censurò, perché il fatto che in Germania il consultorio
rilasciasse il certificato di avvenuta consultazione - preliminare
all'effettuazione dell'aborto - era considerato esso stesso atto di sostegno
dell'aborto.
D: Oggi il cattolicesimo politico, penso ad esempio a "Scienza e Vita"
o all'esperimento teo-dem di Bobba e Binetti, in una sua espressione se non
maggioritaria assai significativa sembra essere tornato a ribadire il primato
delle posizioni etiche ed a percepire il proprio ruolo soprattutto nei termini
di una difesa ad oltranza di una linea del Piave, di principi invalicabili su
cui il cattolico non può mediare con nessuno. Una versione abbastanza agli
antipodi con la visione di cattolicesimo politico che la tua generazione ha
espresso…
R: Noi eravamo "maraitainiana" e sotto la mia presidenza subivamo
anche il forte influsso di figure come quella di Lazzati, con cui fui molto
amico nei suoi ultimi anni di vita. Oggi effettivamente c'è una situazione che
ha riportato ad un livello notevole di astrazione, per cui si ragiona per "ismi"
("relativismo") ed il confronto viene portato ad un livello di "ismi"
che sono per loro natura inconciliabili. È chiaro ad esempio che sulla difesa
della vita non si può negoziare, anche se poi questo concetto di
"vita" andrebbe ampliato: nel periodo dell'aborto facemmo un convegno
"no alla crescita zero della vita, sì alla crescita zero degli
armamenti", che era un modo di collegare la vita dentro un contesto molto
più generale di pace e salvaguardia del creato. Il problema è quindi lo
spostamento del baricentro di riflessione verso la teologia piuttosto che sulla
pratica: se invece di parlare di "ismi" parlassimo di persone e dei
loro disagi, molte delle attuali rigidità che caratterizzano il mondo cattolico
si "scongelerebbero". E d'altra parte gli amici teodem, nel momento in
cui si sono trovati a cimentarsi con la pratica politica, hanno dovuto anche
loro fare delle mediazioni, tanto che sono stati criticati dai loro confratelli
di fede che quelle mediazioni non hanno ritenuto di accettare. Il conflitto a
quel punto non è tra principio e principio, ma tra mediazione e mediazione,
perché c'è una mediazione di destra, di centro e di sinistra, una mediazione
più alta e una più bassa. La politica è fatta di queste cose. La distinzione
tra fede e politica, l'affermazione dell'autonomia e della responsabilità della
politica l'ha fatta molti anni fa don Sturzo… proprio per non compromettere la
Chiesa, perché – diceva Sturzo – se i cattolici in politica agiscono in
nome della Chiesa su scelte opinabili, si rischia di sciupare la verità nel
nostro improvvido e provvisorio agire. Dopo anni dal Concilio, dopo tanto
esercizio intellettuale, siamo tornati a questo punto. Ma credo che la
situazione sia ancora fluida. Il papa a Verona ha parlato infatti della necessità
di lasciare ai laici le decisioni "immediate". Resta da vedere cosa si
intende per immediate… penso alla telefonia, dove c'è un gestore unico per
tutta la rete, ma dove l'ultimo miglio (che in ultima analisi coincide con la
coscienza) che porta la linea all'utente viene lasciato ad una molteplicità di
gestori. Questo è pluralismo. Ma la difficoltà storica che ha la Chiesa a
rapportarsi al pluralismo fa sì che oggi vengano al pettine nodi che sembravano
superati da molto tempo.
Bisogna guardarsi dai profeti di sventura e trafficare con gli uomini di buona
volontà che ci sono dappertutto in ordine alla ricerca della soluzione migliore
sulle "cose buone o le più simili al bene", come le chiamava papa
Giovanni… così mi sono trincerato anche dietro una citazione pontificia…
D: Tu scrivi che già nel 1991 avevi avvertito il pericolo di una precoce
archiviazione dell'esperienza delle Acli, il pericolo che si affievolisse la
vocazione politica del movimento, che venisse rimosso il tema cruciale del
lavoro. Auspicavi, tra l'altro, che venisse fatta una chiara distinzione, sin
dal tesseramento, tra i militanti e coloro che si avvicinano alle Acli perché
usufruivano dei loro servizi. Insomma sapevi - come hai scritto - che dopo di te
"le Acli avrebbero seguito, come era logico, strade il larga misura
diverse". La prevalenza dei servizi sul "servizio", l'abbraccio
troppo forte con la Cei, il dibattito interno, le questioni del lavoro: quali
sono i nodi da sciogliere nelle Acli?
R: Sull'oggi non ho gli elementi per pronunciarmi. La mia linea di allora,
l'idea di un movimento della società civile per una riforma della politica, fu
indubbiamente perdente. C'era una grande adesione ideale a quella prospettiva,
che nella pratica si scontrava con il fatto che le organizzazioni periferiche e
i dirigenti, anziché applicarsi alla crescita e sull'autonomia del movimento,
su una strategia delle alleanze che facesse lievitare questa forza autonoma dei
lavoratori cattolici, cercavano protezione dalla politica, nelle correnti della
Dc che premevano su di noi, ma anche in altri partiti come il Psi.
Inoltre, c'era la questione dei servizi. Questa dimensione venne introdotta nel
seminario di Assisi del 1986, quello della "solidarietà che si reinventa".
La relazione fatta da Giacomantonio sulla sfida del "sociale autogestito"
prefigurava l'avvento del Terzo Settore, una dimensione affascinante, ma che
lega troppo fortemente l'organizzazione ad una gestione troppo sbilanciata in
senso economicistico, alla continua ricerca di fondi pubblici per finanziare le
attività. Un aspetto già presente durante la mia gestione, dove l'architrave
delle Acli era il Patronato, ma che si è andato acuendo. La dimensione
strutturale dei servizi implica purtroppo un rapporto con la politica che se non
è di dipendenza certamente non può essere paritario, perché con il ministro
del Lavoro bisogna necessariamente andare d'accordo…
D: Ritorna spesso, nel tuo libro, il consiglio che ti diede Paolo VI di imparare
a "serpeggiare". Sembra un po' la cifra dalla tua presidenza,
contemperare cioè l'esigenza di comunione ecclesiale con un fermento laicale
vivace e propositivo, ma spesso anche aspro e conflittuale. Una realtà laicale
spesso ridotta oggi all'unanimismo di facciata e condannata all'assenza di
dibattito e confronto sia con la gerarchia che all'interno delle proprie realtà
associative…
R: Oggi ci troviamo con un impianto leaderistico delle organizzazioni, non solo
cattoliche. Io non mi sono mai considerato leader, sono stato presidente di un
organismo composito e conflittuale, come erano le Acli di allora. Ora prevale la
tendenza a polarizzare tutto su figure carismatiche in cui tutto il movimento
deve riconoscersi. I miei non furono certamente anni facili: arrivammo ad avere
dentro le Acli 5 correnti. Era una caricatura, perché si lottava sul nulla, né
del resto c'era potere da spartire: erano visioni diverse dell'associazione che
volevano prevalere l'una sull'altra. Se mi attribuisco un merito è quello di
non aver mandato via nessuno, come pure mi si richiedeva, e di essere riuscito
nella prassi e nella ricerca di una piattaforma comune, tentando di
"scongelare" le posizioni più aspre. Non mi parve una mediazione al
ribasso, ma una strategia per far sì che tutti portassero un contributo utile,
pure nella diversità, al lavoro comune. Del resto, il re-impiego di figure che
in quegli anni sarebbero state destinate ad essere emarginate portò, tra
l'altro, al risultato che due esponenti della vecchia sinistra, Bianchi e
Passuello, riuscirono anche a diventare presidenti dopo di me. Non ho mai capito
del tutto cosa volesse dire il papa invitandomi a "serpeggiare". Non
credo volesse intendere "strisciare"; direi piuttosto cercare, trovare
varchi, tenere un atteggiamento problematico, di ricerca continua dentro una
realtà composita, dove bisogna sempre conservare un margine di dubbio,
evitando, anche in politica, ogni forma di appartenenza totale. Io sono di
quella generazione che - all'epoca ero balilla - ha fatto il giuramento
fascista. Me lo ricordo ancora. Recitava: "Nel nome di Dio e dell'Italia
giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze, e se
necessario anche con sangue, la causa della rivoluzione fascista". Era un
impegno totalitario che nulla lasciava all'individuo. Eri annesso a quella
visione del mondo. La fine di quella esperienza, la critica che abbiamo fatto
nella fase costituente mi ha fatto capire che è sempre necessario mantenere un
margine di autonomia per la propria coscienza. Il giorno che ho presentato il
mio libro, il vostro direttore editoriale Avena e Scheggi Merlini mi hanno detto
che se non ero riuscito in quest'opera del "serpeggiare" voleva dire
che proprio non si poteva, perché se c'era un varco, per quanto stretto, io
sarei stato in grado di percorrerlo. Ed è una qualità che penso fotografi bene
il mio periodo alla presidenza delle Acli. (v. g.)