Amori consacrati. Testimonianze di suore, frati e preti omosessuali in Italia - curato da don Franco Barbero
Luca Kocci
“il manifesto” 26 novembre 2019
C’è suor Maria, che dopo vent’anni di convento ha il coraggio di
rigiocarsi la vita ed esce per vivere con la sua compagna dopo una lunga
relazione clandestina. Don Elia, che dice del suo compagno, oggi morto: «Con lui
fare l’amore era veramente pregare». Suor Rossana, inviata dallo psichiatra
dalla sua superiora per averle confessato di essersi innamorata di una donna.
Frate Raimondo, che lascia l’ordine religioso perché sente che Dio lo chiama ad
essere felice e non vuole nascondersi dietro le mura protettive di un monastero.
Sono alcune delle storie contenute in
Amori consacrati. Testimonianze di
suore, frati e preti omosessuali in Italia (Gabrielli editori, pp.
244, euro 16), curato da don Franco Barbero (grazie anche a Progetto Gionata,
portale su fede e omosessualità:
http://www.gionata.org), uno dei primi preti ad occuparsi, già negli
anni ‘60, delle persone omosessuali credenti, dimesso dallo stato clericale da
papa Wojtyla nel 2003, tuttora attivo nelle comunità di base.
Sette uomini e sei donne raccontano la loro vita di omosessuali e
religiosi: una condizione condannata dalla Chiesa cattolica (secondo il
Catechismo, l’omosessualità è una «inclinazione oggettivamente disordinata») con
cui tutte e tutti, in modi e con scelte diverse, hanno fatto i conti, giungendo
alla fine a vivere questa “doppia appartenenza” in piena libertà e pace
interiore davanti a Dio, perché, spiega don Giuseppe, uno dei testimoni del
libro, «l’esperienza di fede è sempre oltre l’istituzione».
Abbiamo approfondito i contenuti del libro e il tema
dell’omosessualità nella Chiesa cattolica in un’intervista a due voci con
Barbero e con una dei curatori del volume che, essendo tuttora impegnata in una
struttura ecclesiastica, ha scelto di restare anonima.
Che storie sono quelle che raccontate nel libro?
Ognuna è una storia d’amore, quindi di libertà e di rinuncia,
come qualsiasi amore è libertà e rinuncia. Ci ha colpito il fatto che l’amore
impedito libera una forza dirompente, che è l’essenza di ogni vero amore. Quasi
tutti gli intervistati inizialmente hanno proibito a se stessi di amare,
autonegandosi di vivere l’amore perché la struttura lo proibisce, la Chiesa
cattolica in questo caso, ma anche la famiglia o la società. Alla fine, però, la
forza dell’amore ha vinto, e queste persone hanno oltrepassato le regole per
vivere veramente, senza nascondersi a se stessi.
Don Elia dice che spesso viene accusato di ipocrisia, dal momento che resta «in
un sistema che non accetta l’omosessualità». Perché molti preti, religiosi e
religiose decidono di rimanere nella Chiesa, talvolta vivendo una doppia vita, e
non rinunciano alla consacrazione religiosa?
Perché cercano e sperano di cambiare la Chiesa da dentro,
predicando i valori della diversità e della tolleranza, non giudicando dal
pulpito, includendo e non escludendo, facendo prediche che non partono dalla
teoria ma dal vissuto, anche dal vissuto amoroso, dalle ferite e dalle gioie
d’amore. Hanno fatto un cammino interiore tale da essere coscienti di se stessi,
in primo luogo dei bisogni affettivi, per essere più completi. Molti preti e
suore invece vivono veramente la doppia vita. Non essendo coscienti di sé si
sdoppiano: di giorno in abito, di sera nudi in sauna.
Hanno più difficoltà le donne o gli uomini?
Le donne. Per loro è più difficile lasciare il convento, perché
escono letteralmente in mutande. Da anni indossano esclusivamente l’abito e non
hanno neanche più vestiti civili nell’armadio. Per non parlare dei soldi.
Inoltre per le donne è difficile anche poter vivere una relazione stando in
convento: hanno meno libertà di movimento degli uomini, devono dare una
giustificazione anche solo per fare un passo fuori dalle mura. Gli uomini invece
sono più liberi di muoversi come vogliono, quindi hanno maggiori possibilità di
sviluppare relazioni affettive fuori dalla canonica o dal convento.
Racconta Amadeo, ex prete «uscito per fedeltà al Vangelo e per una questione di
coerenza con me stesso»: «In seminario non ho nascosto niente, i superiori
sapevano della mia omosessualità. Dall’inizio mi è stato detto: “Chiudiamo gli
occhi, ma non esagerare”. Dopo l’ordinazione mi si ribadiva solo di non fare
scandalo». Quanto è forte l’ipocrisia da parte dell’istituzione ecclesiastica
che preferisce chiudere gli occhi piuttosto che mettersi in discussione?
Chiudere gli occhi e lasciar fare è l’attitudine generale di cui
frati e preti testimoniano. Invece tutte le suore che hanno confessato la
propria omosessualità sono state inviate dallo psicologo o dallo psichiatra,
altre private degli incarichi, messe al bando dalla comunità, ridotte al
silenzio. Da quasi tutte le testimonianze emergono vescovi, superiori e
superiore incapaci di ascoltare le persone, figuriamoci di mettersi in
discussione!
Nonostante le parole di papa Francesco («chi sono io per giudicare un gay?»),
sulla questione omosessualità la Chiesa cattolica sembra immobile. Che ne
pensate? Succederà qualcosa o bisognerà attendere ancora centinaia di anni?
La società in generale ci ha messo molto tempo per riconoscere
una serie di diritti civili alle persone omosessuali. Prima cambia la società,
prima cambierà la Chiesa. Ogni istituzione è lenta. Poi però, quando il divario
tra realtà e teoria diventa palese, deve cambiare. Noi abbiamo provato a dare
voce a chi nella Chiesa non può parlare, senza semplificazioni, senza
scandalismo, senza profezia. Speriamo che possa contribuire ad aprire il
dibattito.