E' un libro
che farà discutere il nuovo
saggio di Vito Mancuso, "Io e
Dio" (Garzanti), dove lo
studioso sostiene la libertà del
credente verso i dogmi. Il passo
decisivo è il rifiuto di un Dio
che comanda, giudica, condanna
esercitando un potere esterno.
Su questo libro non mancheranno
discussioni e polemiche. Che sia
ignorato è impossibile, se non
altro perché esprime
intelligenza e sensibilità che è
di molti nel mondo cattolico,
più di quanti si palesino. Le
sue tesi si sviluppano
dall'interno del messaggio
cristiano, della "buona
novella". Vito Mancuso, che
tenacemente si professa
cattolico, cerca il confronto,
un confronto non facile. Lui si
considera "dentro"; ma
l'ortodossia lo colloca "fuori".
Tutto si svolge con rispetto, ma
l'accusa mossa al discorso
ch'egli va svolgendo da tempo è
radicale. La sua sarebbe, negli
esiti, una teologia confortevole
e consolatoria, segno di tempi
permissivi, relativisti e ostili
alle durezze della verità
cristiana; nelle premesse,
sarebbe la riproposizione di un,
nella storia del cristianesimo,
mai sopito spirito gnostico. Uno
"gnostico à la page"?
Il motivo conduttore del libro
Io e Dio (Garzanti) è
il primato della coscienza e
dell'autenticità sulla gerarchia
e sulla tradizione, nei discorsi
sul "divino". Siamo nel campo
della "teologia fondamentale",
cioè dell'atteggiamento verso a
ciò che chiamiamo Dio e delle
"vie" e dei mezzi per
conoscerlo: in breve, delle
ragioni a priori della fede
religiosa. Ma, la teologia
fondamentale è la base di ogni
altra teologia. La teologia
morale, in particolare, riguarda
l'agire giusto, ovunque la
presenza di Dio possa essere
rilevante: la politica,
l'economia, la cultura, il tempo
libero, l'amore e la sessualità,
la scienza... La teologia aspira
alla totalità della vita. Si
comprende così la portata del
rovesciamento, dall'autorità che
vincola alla coscienza che
libera. Quella di Mancuso vuole
essere, tanto nel conoscere
quanto nell'agire, una teologia
liberante, non opprimente. Le
sue categorie non sono il
divieto, il peccato e la pena,
ma la libertà, la responsabilità
e la felicità. Sullo sfondo, non
c'è il terrore dell'inferno ma
la chiamata alla vita buona.
Il passo decisivo è forse il
rigetto dell'idea di un dio come
"persona": un Dio che comanda,
giudica, condanna, cioè esercita
un potere esterno, assoluto e
irresistibile. Il sacrificio di
Isacco (Dio ordina ad Abramo di
sgozzare il figlio, vittima
sacrificale; Abramo non
obbietta; Dio all'ultimo ferma
il coltello) è di solito
presentato come esempio di fede
perfetta, ma Mancuso ne prova
disgusto, sia per l'immagine
d'un dio spietato (la mano
omicida, comunque, viene
trattenuta in tempo), sia per la
disumanità d'un padre capace di
tanto delitto. Quel padre, però,
è immagine della perfetta
fedeltà al "divino", lodata nei
secoli da una tradizione in cui
fede e violenza si danno
facilmente la mano. Quando poi
sulla parola di Dio (il "Dio lo
vuole") si crea il potere d'una
chiesa, la violenza sulle
coscienze è sempre di nuovo
possibile da parte di "uomini di
Dio". La perfezione cristiana
per Ignazio di Loyola – se vedo
bianco e la Chiesa dice nero, è
nero – nasce da una concezione
del divino che, invece di
ravvivare, spegne.
«Il mio assoluto, il mio dio,
ciò che presiede la mia vita,
non è nulla di esterno a me»,
dice Mancuso. Vuol dire che è
dentro di me, nel senso ch'io
sono dio per me stesso? Per
nulla. «Credendo in Dio, io non
credo all'esistenza di un ente
separato da qualche parte là in
alto; credo piuttosto a una
dimensione dell'essere più
profonda di ciò che appare in
superficie […], capace di
contenere la nostra interiorità
e di produrre già ora energia
vitale più preziosa, perché
quando l'attingiamo ne ricaviamo
luce, forza, voglia di vivere,
desiderio di onestà. Per me
affermare l'esistenza di Dio
significa credere che questa
dimensione, invisibile agli
occhi, ma essenziale al cuore,
esista, e sia la casa della
giustizia, del bene, della
bellezza perfetta, della
definitiva realtà». Credere in
Dio, allora, non è lo "status
del credente"; non è dire:
"Signore, Signore" a un deus ex
machina che ci salva dai
pericoli – qui Mancuso è
Bonhöffer –. È agire per colmare
lo scarto tra il mondo, così
com'è, e la sua perfezione, alla
cui realizzazione la fede chiama
i credenti. Con un'espressione
di Teilhard de Chardin, credere
è amouriser le monde. È un modo
di ridire le parole di Gesù che
chiama i suoi discepoli a essere
"sale della terra" Si può essere
sale sacrificando la libertà? Al
più, si può essere soldati di
Cristo.
Questa teologia è insieme
gioiosa e tragica: gioiosa
perché indica, come senso della
vita, il bene – sintesi di
giustizia, verità e bellezza –;
tragica, perché è consapevole
dell'enormità del compito. Dice
Mancuso: «Conosco il dramma e
talora la tragedia che spesso
attraversa il mestiere di
vivere. Per questo io definisco
il mio sentimento della vita
come "ottimismo drammatico'":
vivo cioè nella convinzione
fondamentale di far parte di un
senso di armonia, di bene, di
razionalità, e per questo parlo
di ottimismo, ma sono altresì
convinto che tale armonia si
compie solo in modo drammatico,
cioè lottando e soffrendo
all'interno di un processo da
cui non è assente il negativo e
l'assurdo». È questa
un'accomodante e confortevole
giustificazione delle coscienze,
l'autorizzazione alla creazione
di "dei di comodo"? Per nulla.
Al contrario, è un appello al
rigore morale come risposta
onesta, autentica, al senso del
divino che sta nell'essere
umano. Ma qui viene la seconda
accusa: gnosticismo.
La teologia di Mancuso sarebbe
una riedizione dell'orgoglio di
chi si considera "illuminato" da
una grazia particolare che lo
solleva dalla bruta materia e lo
introduce al mondo dello spirito
e alla conoscenza delle verità
ultime, nascoste agli uomini
semplici. La Chiesa ha sempre
combattuto la gnosi come eresia,
peccato d'orgoglio luciferino.
Nelle pagine di Mancuso non
mancano argomenti per replicare.
Dappertutto s'insiste
sull'intrico di materia e
spirito e sulla loro
appartenenza a quella realtà
(che aspira a diventare) buona,
cioè vera, giusta e bella, che
chiamiamo creazione o azione che
va creando. Se mai, il dubbio
che potrebbe porsi è se, in
quest'unione, non vi sia una
venatura panteista: Dio come
natura. Punto, probabilmente, da
approfondire.
Dal rigetto del dualismo
materia-spirito, deriva il
rifiuto d'una fede di élite
,contrapposta alla fede di
massa. Certo, se il turismo
religioso del nostro tempo si
scambia per manifestazione di
fede, si può pensare che la
seria introspezione di coscienza
che chiama al vero, bello e
giusto sia cosa per pochi.
Questa tensione è il carattere
della moltitudine degli "uomini
di onesto sentire" (gli
ánthropoi eudokías dell'angelo
che annuncia ai pastori la
nascita di Gesù, in Lc 2, 14).
La teologia di Mancuso non è
affatto da accademia, per pochi
iniziati. Il suo libro, al
contrario, distrugge il
pregiudizio che la teologia sia
questione astrusa, per ciò
stesso riservata a una cerchia
di iniziati, sospetti di
astruseria, fumisteria,
esoterismo, presunzione.
Parliamo di quei teologi che
costruiscono sul nulla, a
partire da cose inconoscibili,
immense cattedrali di pensieri
che si arrampicano gli uni sugli
altri fino ad altezze
inarrivabili, oltre le quali
essi stessi, presi dalla
vertigine, cercano la salvezza
si rifugiano nel mistero. Al
contrario, se c'è una materia
che dev'essere aperta a tutti,
secondo coscienza, questa è la
teologia.
Nella "vita buona" di Mancuso,
il primato è della coscienza;
nella "vita buona" della Chiesa
il primato è dell'ubbidienza.
Libertà contro autorità: una
dialettica vecchia come il
mondo. Scambiare la libertà di
coscienza con la gnosi è un
artificio retorico. Vale per
persistere nell'accantonare i
molti problematici aspetti della
vita della Chiesa impostati su
dogmi e gerarchia. Non solo:
rende difficile il rapporto con
i credenti di altre fedi,
religiose e non. Riporta in auge
il prepotente principio extra
Ecclesiam nulla salus. La
teologia di Mancuso
consentirebbe di tracciare nuovi
e sorprendenti confini, non più
basati sull'obbedienza e sulla
disciplina. Così, si scoprirebbe
forse che molti, che si dicono
dentro, sono fuori; e molti, che
si dicono fuori, sono dentro.
"Dentro" vuol dire: in una
comune tensione verso quel logos
del mondo che è la giustizia,
appannaggio di nessuno e compito
dei molti "di onesto sentire",
secondo l'insegnamento di G. E.
Lessing, l'Autore di Nathan il
saggio, al quale Mancuso di
frequente ricorre.
Ora, si tratta del passo
ulteriore: la "teologia
sistematica", cioè la rilettura
d'insieme del messaggio
cristiano alla stregua di queste
premesse. Dimostrare che una
tale rilettura sia possibile è
la sfida che Mancuso, con questo
libro, dichiara di accettare.
MANCUSO: IL PRIMATO DELLA COSCIENZA CONTRO LA CHIESA DELL’OBBEDIENZA,
Gustavo Zagrebelsky,
la Repubblica 9-9-2011