Ignacio Ellacuría: testimone dimenticato? di Emmanuele Maspoli da "cdb info" n° 10 del novembre 2004

LANCIARE LA STORIA IN DIREZIONE DEL REGNO. UN LIBRO DELLE   PAOLINE SUI MARTIRI DELLA UCA


da ADISTA n° 87 del 5.9.2009

DOC-2176. MILANO-ADISTA. Per “umanizzare questo nostro mondo” è sicuramente di aiuto ricordare chi a tale compito ha dedicato la vita: già qui troviamo “un valore importante” del libro di Emanuele Maspoli “Ignacio Ellacuría e i martiri di San Salvador” (Paoline Editoriale Libri, Milano, 2009, pp. 144, euro 12), come sottolinea il teologo gesuita Jon Sobrino nella Prefazione e Beatrice Alamanni De Carrillo, procuratrice dei diritti umani in El Salvador, nella postfazione. Di questi martiri – scrive la procuratrice – abbiamo infatti  bisogno “per riscoprire la nostra umanità in parte perduta e per ritrovare l’entusiasmo che ci conduca a camminare tutti insieme verso un futuro più umano e più giusto”.

Il libro, in uscita proprio questo mese di settembre, prova a entrare nella vita e nel cuore della testimonianza di “padre Ellacu” e dei suoi confratelli della Uca (Università Centroamericana José Simeón Cañas): il sociologo Segundo Montes, lo psicologo Martín Baró, i teologi e professori Amando López, Juan Ramón Moreno e Joaquín López y López; e, con essi, Julia Elba e la giovanissima figlia Celina, che cercavano protezione proprio dai gesuiti e che, ricorda Sobrino, “sono il simbolo di molte altre migliaia di donne e bambini che morirono innocenti e indifesi”. E lo fa, “prendendo alla lettera l’indicazione etica di padre Ellacu”, attraverso l’immersione nella realtà storica di El Salvador, con una particolare attenzione al ruolo della Chiesa e dei movimenti cristiani, che, sottolinea Maspoli, “tanto hanno dato in quella stessa storia”, e cercando di far luce sulle inchieste relative all’assassinio dei martiri della Uca, “strano caso di università cattolica”, come la definisce  l’autore, “nata per soddisfare le esigenze delle dominanti e formare i loro figli e trasformatasi invece in un punto di riferimento per contrastarle nei loro interessi di dominio assoluto, o almeno renderle più moderate e umane nella gestione del potere”. Infine, il libro si concentra sui nuclei principali del pensiero intellettuale di Ignácio Ellacuría, nel suo ruolo di teologo della Liberazione, professore di filosofia, rettore dell’università privata più importante del Paese e “socialista democratico e cristiano”, assertore della vicinanza tra marxismo e teologia della liberazione “nella posizione favorevole al socialismo e nell’opposizione al capitalismo, specialmente all’imperialismo nordamericano”, ma altrettanto convinto che, nell’utilizzazione del concetto di lotta di il povero biblico non possa “essere assimilato al proletario di Marx: il concetto di povero biblico è infatti più ampio, non si riduce alla categoria socio-politica, perché la sua liberazione è pure storico-trascendentale: la lotta dei poveri è per liberarsi, non per accedere al potere”.

Se il compito più importante del nostro tempo è, per Ellacuría, quello di “invertire la storia, sovvertirla e lanciarla in un’altra direzione”, sono tre i punti essenziali in questa prospettiva su cui si sofferma Sobrino nella prefazione: il “popolo crocifisso” che, scriveva Ellacuría, “unisce alla sua permanenza la sempre distinta forma storica della sua crocifissione”, come “continuazione storica del servo di JHWH”; la “civiltà della povertà” che, in opposizione alla civiltà della ricchezza o civiltà del capitale, riconosce come motore della storia “il soddisfacimento universale delle necessità fondamentali” (anziché “l’accumulazione privata del maggior capitale possibile”) e come principio di umanizzazione “la crescita della solidarietà condivisa” (anziché “la partecipazione e il godimento della ricchezza”, che, non potendo essere universali, non possono essere morali né umani); il riconoscimento, infine, che “con monsignor Romero Dio passò da El Salvador”, quel Romero che, “per ripensare e leggere Dio nella realtà della vita reale” era per Ellacuría “il maestro che gli prendeva la mano e lo introduceva nel mistero”.

Di seguito il testo della postfazione di Beatrice Alamanni De Carrillo. (c. f.)

“NON PIANGERE PIÙ”


 di Beatrice Alamanni De Carrillo

Era una mattina piovosa, dell’inizio di ottobre del 1979, quando padre Ellacuría mi disse: “No llores más” (“non piangere più”). Ero andata da lui, con una grande emozione nel cuore, perché incontrarlo, parlargli, era un vero lusso spirituale e io avevo bisogno del suo conforto. La situazione di El Salvador, in quei giorni, era ormai intollerabile, foriera di una tragedia incombente. Realmente, nella storia, i grandi avvenimenti si sentono nell’aria. Il Paese, infatti, aveva raggiunto un livello di angosciosa attesa di qualunque cosa venisse a rompere la paura, l’ingiustizia... l’oppressione.

Io, appena tornata dall’Europa con la mia famiglia, ero stata invitata a essere docente nella Facoltà di Diritto di una nuova università privata, nata con buone intenzioni, nel deserto universitario di quel tempo, dovuto alla chiusura violenta dell’Università Nazionale da parte del governo. Ma non tutti i buoni propositi valgono nella realtà e codesta università si dimostrò ben presto rinchiusa in se stessa e quindi soffocata dal timore che idee “pericolosamente rivoluzionarie” potessero sorgere all’interno delle sue aule. Timore che conduceva all’eccesso intollerabile di chiedere ai professori di segnalare gli alunni che facessero domande “indesiderabili” su temi economici e sociali.

La mia indignazione e il mio rifiuto per tale inaccettabile imposizione mi condussero, quella mattina d’ottobre, nel rettorato dell’UCA, da padre Ellacuría, per cercare un po’ di conforto, che mi fu dato, come sempre, da quella sua personalità così vigorosa e lucida.

Tuttavia, in quella circostanza, non intesi pienamente il significato delle parole: “No llores más” .

Non era facile supporre così prossimo ciò che stava per accadere. Lo capii alcuni giorni dopo, quando avvenne il colpo di Stato, con la deposizione dell’ultimo – imposto – presidente militare di El Salvador, il generale Romero, il quale abbandonò precipitosamente il Paese, mentre assumeva il potere la Junta Revolucionaria de Gobierno.

Gli avvenimenti di quei tempi sono raccolti fedelmente nelle pagine di questo libro e non spetta a me, per lo meno in questa sede, aggiungere nulla, se non il ricordo vivo di quei giorni, tanto contraddittori, divisi fra speranza, confusione e timore cosciente dell’inevitabile conflitto che doveva sorgere di lì a poco.

Proprio per il crollo delle possibilità di un processo pacifico per l’avvento della democrazia sopravvennero la guerra interna e l’esilio, tra le altre tragedie, anche per i gesuiti più rilevanti, fra i quali, ovviamente, padre Ellacuría. Alcuni intellettuali laici che amavano l’UCA e, soprattutto, il Paese, restarono a collaborare con l’università.

L’UCA non aveva allora rapporti con la Facoltà di Giurisprudenza a cui appartengo, ma con grande entusiasmo, nell’ambito filosofico, storico e politico, dall’inizio del 1980, mi dedicai anch’io, con altri, allo sforzo dell’università per mantenere in piedi la sua missione accademica, in circostanze avverse e, certamente, pericolose.

In quel periodo nacque una fraterna collaborazione, soprattutto con padre Montes, che era fra i pochi gesuiti rimasti a sostenere questo arduo compito.

Fra libri, studenti e anche fra le prime bombe e i troppi desaparecidos, si viveva la guerra incipiente, ispirati dalle ultime prediche di monsignor Romero, prima della sua morte martiriale.

Anche questi tragici avvenimenti sono efficacemente narrati con molta sobrietà e correttezza nelle pagine di questo libro. Dunque, non mi ci soffermerò. Amo ricordare, invece, il ritorno di padre Ellacuría e, soprattutto, la passione e l’entusiasmo con cui egli volle che si creasse finalmente la Facoltà di Giurisprudenza.

Padre Ellacuría riteneva, con cognizione di causa, che uno degli elementi più nefasti fra quelli che avevano contribuito all’estrema ingiustizia sociale, e all’oppressione, soprattutto dei più poveri ed emarginati, fosse la complicità con tale ingiustizia da parte delle istituzioni pubbliche, degli avvocati, dei giudici e, in generale, dei professionisti del diritto al servizio dei più potenti. C’è un detto salvadoregno che esprime molto chiaramente questo concetto: “La giustizia morde sempre il piede di chi è scalzo”. Formare, quindi, professionisti coraggiosi, onesti, veramente preparati e, soprattutto, dotati di un’autentica coscienza sociale, costituiva per padre Ellacuría un impegno imprescindibile, per contribuire in modo sostanziale al rinnovamento democratico del Paese.

Ebbi la fortuna di essere parte di questo grande progetto, in quanto mi fu affidato da padre Ellacuría il disegno del pensum di laurea e poi la direzione del Departamento de Ciencias Jurídicas, che mantenni per undici anni, durante tutta la guerra e anche dopo gli accordi di pace. Questa straordinaria esperienza mi permise di intessere un’amicizia profonda e indimenticabile con i martiri, soprattutto con padre Ellacuría.

Ricordo, pochi giorni prima dell’offensiva finale del 1989, la sera in cui padre Ellacuría venne a casa nostra, come soleva fare molto spesso, e mi donò il suo libro Conversione della Chiesa al regno di Dio.

Questo libro, che dovrebbe essere letto e meditato, soprattutto dai laici a cui padre Ellacuría dedica l’ultimo capitolo, pone in evidenza la necessità di un’etica e di un impegno sociale, fondamentali per costruire un mondo migliore, in qualsiasi società politica e in qualsiasi momento storico.

La dedica che aveva scritto per me sul libro mi ha guidato e confortato nei momenti più difficili della mia vita. Non potrò mai dimenticare che, con quel libro stretto fra le mani e null’altro, ho lasciato con la mia famiglia, pochi giorni dopo l’uccisione dei gesuiti, la nostra casa di San Salvador quando, di notte, vennero a cercarci civili armati su macchine blindate. Avevo tre figli, di cui l’ultimo, a quei tempi, era piccolissimo...

 

Il dovere morale della memoria

Ricordando padre Ellacuría, non posso evitare di condividere con chi leggerà queste pagine la memoria della notte in cui avvenne il massacro dei martiri.

Da vari giorni infuriavano l’offensiva finale e la durissima risposta dell’esercito. Mancavano la luce, l’acqua, i generi di prima necessità nei supermercati, si viveva al buio con l’opprimente coprifuoco, a cui non ci si poteva abituare, benché lo si fosse subito per quasi tutta la guerra.

Nelle sere precedenti al massacro, solevo chiamare i padri, nonostante il controllo dei servizi segreti. Poche parole correvano fra noi, ma erano sufficienti per capirci al volo. La prima sera padre Montes, con molta preoccupazione e molta tristezza, descrisse il sopralluogo violento e armato, perpetrato dall’esercito nei confronti della loro umile abitazione, accanto alla cappella e all’edificio dei professori, proprio il mio, di giurisprudenza, e a quello di economia.

Padre Montes era profondamente buono e tollerante. Per lui, questo gesto selvaggio e inutile costituiva un dolore profondo, un’offesa alla dignità umana.

L’ultima telefonata, dell’ultima sera, pochi momenti prima dell’irruzione brutale del gruppo militare specializzato per realizzare questo tipo di crimini, resterà per me il saluto di coloro che sanno lucidamente ciò che sta per accadere e lo affrontano con estrema coscienza, chiarezza e determinazione, così come era avvenuto, nove anni prima, per monsignor Romero. Parlai, in quel frangente, con padre Martín Baró, il più giovane dei gesuiti uccisi. Con lui c’era un’amicizia fraterna e spontanea, perché eravamo quasi coetanei. Mi ricordo, il giorno del suo compleanno, poco prima della morte, quando, al mio augurio di molti anni ancora di vita, mi disse: “Sì, vorrei vivere ancora un po’, perché ho tante cose da fare...”.

Quell’ultima telefonata con lui, con loro, non potrò mai dimenticarla e ancora oggi mi è difficile parlarne. Ignacio Martín Baró sapeva ciò che stava per accadere, ne aveva piena coscienza. Non posso aggiungere altro.

Non posso ancor oggi dimenticare, la mattina seguente il massacro, quando la notizia si diffondeva timidamente, come in alcuni ambienti sociali, in tante case imponenti e prestigiose, si brindò come a una splendida vittoria militare. Tante signore, molto eleganti, facendo la spesa nel supermercato della zona alta della città in cui la mia famiglia vive da sempre, commentavano, in quella terribile mattina, la “meravigliosa” notizia della morte dei gesuiti.

Credo che ricordare i martiri, soprattutto padre Ellacuría, sia un dovere morale per chi li ha conosciuti ed è stato testimone della loro opera, in anni così significativi per El Salvador. Costituisce, infatti, un autentico patrimonio spirituale, il loro contributo alle coscienze di tutti coloro che credono nel Vangelo e nel regno di Dio.

Spero dunque che questo contributo possa anche essere percepito attraverso il vissuto di chi ha condiviso con loro, con cuore sincero, progetti, speranze, intenti e sacrifici per costruire un mondo migliore.

È, certamente, straordinario, in un Paese piccolo e poco rappresentativo nel contesto mondiale come El Salvador, trovare, prima e durante la guerra civile, per un segno del destino o della Provvidenza, tante personalità eccezionali e, insieme, tanta profondità intellettuale e morale, specialmente nell’UCA.

Sicuramente, questa straordinaria eccezionalità non si ripeterà più, per lungo tempo, in El Salvador.

Infatti i martiri, specialmente padre Ellacuría, furono grandi non solo per ciò che predicavano e scrivevano, ma, soprattutto, per la testimonianza concreta del Vangelo di Cristo, che manifestarono in ogni momento della loro vita.

La pienezza dell’impegno dei martiri coadiuvò con intensità e determinazione l’ispirazione e la rilevante capacità di guida e di esempio di padre Ellacuría. Come lo seguirono nella morte, così i suoi confratelli lo seguirono costantemente nella vita, nella missione di lavorare sempre e solo per il regno di Dio.

La lucidità e la capacità di padre Ellacuría di creare progetti concreti e coraggiosi per il futuro di pace di El Salvador costituirono il suo impegno più pressante e, direi, l’aspetto peculiare della sua azione sociale, nei difficilissimi tempi in cui visse e, soprattutto, lavorò in El Salvador.

È possibile pensare che, se padre Ellacuría fosse vissuto, forse lo svolgimento dei fatti politici e sociali del dopoguerra sarebbe potuto essere migliore. Infatti, l’orientamento e, in certo modo, l’influenza del pensiero dell’UCA e, soprattutto di padre Ellacuría, il rispetto e l’autorità morale di cui egli godeva anche e soprattutto fra i suoi nemici, avrebbero contribuito grandemente a una pace che purtroppo, invece, si è diluita in aspetti poco significativi, per non dire involutivi, del processo medesimo.

In effetti in questi anni, in El Salvador, sono stati poco presenti gli elementi fondamentali della pace stessa, intesa non solo come silenzio delle armi, bensì come costruzione autentica e concreta di un mondo migliore, di una società più giusta e più egualitaria.

La preoccupazione essenziale di padre Ellacuría fu sempre costruire “questa” pace, come espressione appunto di una società democratica e autenticamente “evangelica”, in quanto portatrice di valori capaci di convertire le coscienze alla realizzazione dei diritti umani e dell’equità.

Si trattava, dunque, di una società in cui tutti, cristiani e non, si ritrovassero a lavorare insieme, con un impegno comune, al servizio dei più poveri e dei più deboli, considerati come i soggetti fondamentali nell’ambito della comunità.

Infatti, l’esigenza imprescindibile della giustizia, in tutti i suoi aspetti, era la base su cui padre Ellacuría sosteneva la sua speranza e il suo impegno personale nell’orientare la società salvadoregna.

Per questo fine, dunque, gli stavano tanto a cuore prima il disegno e poi la realizzazione della Facoltà di Diritto, in quanto promotrice di un nuovo modello di giurista e di intellettuale, al servizio autentico della giustizia e soprattutto della verità.

In effetti, padre Ellacuría e così pure i suoi compagni la-vorarono e morirono proprio per dare testimonianza della verità, per cercare sempre la verità.

Si trattava della verità basata sulla ricerca accademica e scientifica, autentica e ineccepibile, e pertanto valida per so-stenere tesi di uguaglianza e giustizia sociale, per denunciare violazioni alla legge umana e alla legge divina, situazioni che costituivano, disgraziatamente, il tessuto sociale e politico di quegli anni in El Salvador.

 

Un futuro incerto

Con le elezioni presidenziali del 15 marzo 2009 e la vittoria del FMLN, partito di opposizione, nato dopo gli accordi di pace, che raccoglie il pensiero e l’ideologia della guerriglia salvadoregna, probabilmente ci sarà un cambio storico nel Paese o, per lo meno, questo è ciò che tutti si aspettano, molti con gioia e speranza, molti altri con timore e, addirittura, con costernazione. El Salvador, infatti, continua a essere tragicamente diviso in due a causa delle profonde differenze economiche e sociali non risolte, purtroppo, e che anzi si sono acuite con il passar del tempo.

Senza dubbio, i risultati elettorali recenti hanno dato una dimostrazione straordinaria al mondo quanto a democrazia e rispetto delle regole del gioco da parte dei cittadini, che si sono espressi nelle urne con determinazione, ma anche con pacatezza e con assoluta tolleranza.

Bisogna riconoscere, dunque, che questo piccolo Paese centroamericano continua a stupire il mondo, essendo un esempio di maturità politica e di democrazia. Tuttavia, il suo futuro appare incerto, sia a causa della crisi economica mondiale, sia, soprattutto, a causa della difficilissima contrapposizione d’interessi e delle divergenze strutturali pressoché insanabili al suo interno.

C’è da chiedersi come valuterebbe padre Ellacuría questa complessa situazione. Non tocca certamente a me tentare di immaginare la sua opinione in proposito, ma, avendo conosciuto a fondo il suo pensiero e il suo cuore nobile e generoso, penso che, dal luogo in cui abitano i santi come lui, sicuramente la sua speranza in un futuro migliore per questo popolo da lui tanto amato deve essere grande, anche se, certamente, la sua preoccupazione per il destino di El Salvador non finirebbe, ancora.

Si può intuire quanto sarebbero significative per la pace e l’intesa nazionale la sua lucidità, la sua pazienza per tessere soluzioni accettabili e concrete, se egli fosse ancora con noi.

Infatti padre Ellacuría non ha mai identificato la costruzione del regno di Dio con progetti mondani o con ideologie politiche e sociali di parte. Per questo si apriva a tutti, dialogava apertamente con tutti, senza discriminazione alcuna, cercando sempre l’incontro costruttivo e coraggioso anche con coloro che tramavano nell’ombra e cercavano il regno dell’ingiustizia e della guerra.

Proprio per questo, in un Paese ancora profondamente diviso com’è El Salvador, la sua opera, la sua sola presenza, la sua lucidità e, soprattutto, la sua straordinaria capacità di conciliare le parti contrapposte sarebbero, in questo momento storico, importantissime.

Penso che coloro che sono sopravvissuti e vivono con chiarezza la sua memoria e la sua opera abbiano una grande responsabilità come intellettuali e come figli di Dio quanto all’impegno e alla vocazione per la giustizia e per la verità, che padre Ellacuría ha insegnato attraverso i suoi scritti, ma di cui, soprattutto, ha dato testimonianza attraverso le sue azioni e il suo martirio.

Come monsignor Romero, così anche i gesuiti, specialmente padre Ellacuría, vivono nel popolo salvadoregno, che sta inventando la sua storia, con tanta speranza.

Per concludere queste brevi pagine, voglio rendere merito a chi ha scritto questo libro e a chi ha deciso di pubblicarlo, perché, soprattutto nel “primo mondo”, è sempre importante accendere una scintilla nuova di speranza nella dignità umana, nell’impegno sociale e nell’amore generoso per l’altro, nel dono di sé fino all’estremo della morte per denunziare l’ingiustizia e per costruire un mondo migliore per tutti.

Martirio vuol dire testimonianza. Credo che oggi si abbia bisogno di questi segni, di questi martiri, per riscoprire la nostra umanità in parte perduta e per ritrovare l’entusiasmo che ci conduca a camminare tutti insieme verso un futuro più umano e più giusto.