MAURO PESCE, L'esperienza religiosa di Paolo, Marcelliana, Brescia 2012, pp. 160, € 14.
Franco Barbero
Il sottotitolo esplora l'ambito della ricerca del nostro Autore: " La
conversione, il culto, la
politica" con la serietà e l'audacia che lo caratterizzano.
Pesce parte dalla constatazione che "per ritrovare il vangelo del Paolo storico
è necessaria un'opera di ricostruzione … Sono poi convinto che in Paolo non ci
sia nulla che travalichi la cultura giudaica e che egli viva in un momento in
cui i seguaci di Gesù non fanno parte ancora di una religione diversa da quella
giudaica. L'identità dei seguaci di Gesù nelle chiese paoline è un'identità
plurima, molteplice, che trova concetti solo giudaici per esprimersi: i seguaci
di Gesù sono chiamati da Paolo "i santi", "i fratelli", categorie che ci
riportano all'interno della cultura giudaica" (pag. 11).
E' diventato un luogo comune parlare della "conversione" di Paolo. "Alcuni
celebri dipinti di età moderna costituiscono in qualche modo una manifestazione
plastica di questo racconto … Nella raffigurazione di Caravaggio, Paolo ci
appare caduto da cavallo, folgorato da una luce divina che lo atterra nel
momento stesso in cui sta agendo con forza per perseguitare la chiesa nascente …
Il fatto è che questa iconografia moderna ha rappresentato per lunghi secoli non
solo la conversione di Paolo, ma anche i rapporti tra ebrei e cristiani, tra
ebraismo e cristianesimo. L'accecamento di Paolo è simile a quello della
Sinagoga, rappresentata cieca nell'iconografia medievale.
Cristo è la luce, l'ebraismo rappresenta le tenebre. La conversione è il
passaggio dalla fede ebraica a quella cristiana" (pag. 14). Ne consegue che "gli
ebrei debbono convertirsi al cristianesimo" (pag. 14). Oggi gli studi biblici, a
partire da una rilettura del triplice racconto degli Atti degli Apostoli, ci
permettono di "comprendere l'esperienza di Paolo alla luce del suo tempo" (pag.
16). Tali studi sono pressoché "concordi nell'affermare che non si può
considerare la conversione di Paolo nel vecchio senso di un passaggio di
religione. Di una conversione dall'ebraismo al cristianesimo, per Paolo, non si
può parlare … Bisogna, anzitutto, dire che Paolo non si è mai convertito" (pag.
17), cioè fatto cristiano. L'esperienza dell'"apparizione" di Gesù, cioè
l'incontro profondo con il messaggio di Gesù, determinò un cambiamento radicale
nella sua vita. Fu l'annuncio della risurrezione di Gesù ad aggregare Paolo ai
discepoli del nazareno: "Ma in ogni caso la fede nella risurrezione di Gesù non
provoca un cambiamento di religione". Paolo era fariseo e già credeva nella
risurrezione finale: "Paolo, quindi, non cambia religione per credere in Gesù,
ma – al contrario – diventa seguace di Gesù proprio perché rimane nella sua
religione di prima e di sempre. Il Dio che gli rivela Gesù è il Dio biblico
ebraico in cui egli credeva prima" (pag. 21). "Se Gesù era risorto, significava
che la fine di questo mondo era iniziata, perché era iniziata la risurrezione
dai morti" (pag. 22). "Egli ragiona da buon giudeo tradizionale. Anche da questo
punto di vista, Paolo resta un giudeo e non diventa un cristiano, non cambia
religione … In sostanza, l'idea che emerge dalle ricerche recenti, è che Paolo
vive e interpreta l'esperienza della rivelazione che cambia la sua vita come un
fatto interno alla sua esperienza giudaica. Non si tratta di qualcosa che lo
faccia uscire dal giudaismo, ma invece di qualcosa che lo orienta a prendere una
strada precisa all'interno del giudaismo stesso …" (pag. 25). Paolo vede nella
rivelazione di Gesù, cioè nella recezione del messaggio dell'ebreo Gesù, "la
soluzione del problema centrale del giudaismo del suo tempo: quello di una
tendenza universalistica frenata dal particolarismo della Torah biblica "(pag.
27). Le letture storiche susseguenti, in cui Paolo diventa l'oppositore del
giudaismo, sono frutto di esegesi storicamente decontestualizzate: "Ai tempi di
Paolo il cristianesimo non esiste" (pag. 82).
"Quando cadrà l'attesa della fine, inizierà l'interpretazione ecclesiastica di
questi passi e scomparirà il Paolo storico" (pag. 86). L'Autore più e più volte
ribadisce che "Paolo è un giudeo e le comunità paoline sono comunità che non
fanno parte di una religione diversa da quella giudaica" (pag. 82).
"Se le cose stanno così, se il Paolo storico è diverso dal Paolo successivo, la
conseguenza in qualche modo paradossale ma drammatica è questa: che il Paolo
storico non è veramente un pilastro delle origini cristiane e del pensiero
cristiano. Paolo è in qualche modo morto dopo le sue sette lettere sicuramente
autentiche. Chi legge le lettere di Paolo alla luce del Nuovo Testamento – come
testo canonico considerato unitario teologicamente – non legge il Paolo storico,
ma un Paolo interpretato e modificato" (pag. 81).
I libro di Pesce procede ponendo problemi solitamente elusi prima dello sviluppo
della teologia del pluralismo religioso.
Per Paolo il compimento dell'atto morale (per lui l'obbedienza alla legge) in sé
non è più sufficiente. In sostanza senza Cristo Gesù, il messia Gesù, "è
impossibile diventare giusti agli occhi di Dio" (pag. 109). La mediazione di
Gesù è necessaria per la salvezza "Ma, in realtà, stabilire che la salvezza
viene per la fede in Gesù Cristo restringe proprio la salvezza a quelli che
credono in lui. Cioè toglie universalità al credere che non ha più come oggetto
Dio solo, ma soprattutto Cristo. Nel momento in cui si pone questa affermazione,
immediatamente si eleva una differenza, si precisa un'esclusione, si crea un
gruppo esclusivo. Tutt'altro che transculturale … Una contrapposizione che ha
attraversato tutta la storia occidentale e continua ad affliggerla in assenza,
tutt'ora, di una adeguata risposta alla questione ebraica da parte cristiana"
(pag. 110). Per Paolo la legge – Torah non perde alcun valore; essa conduce a
Cristo.
Mauro Pesce affronta poi la questione del perdono dei peccati: "In sostanza per
Gesù, ottenere la remissione dei peccati da parte di Dio è possibile e non c'è
bisogno di alcuna espiazione … Gesù non media il perdono dei peccati. Per Paolo,
invece, la mediazione di Gesù Cristo è imprescindibile …" (pag. 114.
Si termina la lettura di queste pagine, assai impegnative e forse troppo poco
sfumate, con la consapevolezza di dover fare i conti con un Paolo "diverso" da
quello che solitamente la predicazione cristiana ci ha presentato.
Egli resta fino alla fine un credente ebreo che non avrebbe mai "divinizzato"
Gesù, ma anche un ebreo-giudeo che, con il suo rigoroso scostarsi da alcuni
elementi tradizionali dell'ebraismo, non poté non meritarsi la "patente
dell'eretico" dentro la sua tradizione religiosa. Farne un cristiano sembra
davvero troppo.
In ogni caso consiglio vivamente la lettura di questa opera recente che pone
interrogativi ineludibili, ma spesso assolutamente sottovalutati anche nella
lettura dei testi paolini autentici.
Noto con un certo disagio che su questi interrogativi si preferisce glissare.