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ROMA-ADISTA. La Chiesa è in crisi, una crisi salutare se sfocerà
in una riforma che, facendo tesoro delle luci e delle ombre della sua storia, e
rifacendosi continuamente al vangelo, porti a ripensare radicalmente i
ministeri, ad abbattere il patriarcalismo, a porre fine al clericalismo, ad
abolire il sistema imperiale romano. Così, forse, si potrebbe riassumere il
contenuto del denso volume di Xabier Pikaza, Sistema, libertà,
Chiesa. Istituzioni del Nuovo Testamento, appena edito da Borla (Roma 2002,
p. 586, euro 35). L'autore - teologo basco, professore di Storia delle religioni
e Teodicea alla Pontificia Univ. di Salamanca - analizza in modo puntuale se e
come i quattro vangeli, gli Atti degli apostoli e le lettere di Paolo, o a lui
attribuite, abbiano ipotizzato i ministeri e ruoli ecclesiali (presbiterato,
episcopato, papato) come poi sono andati storicamente configurandosi e come sono
giunti a noi..
Lo studio del teologo è rigoroso. Sostiene, ad esempio, che gli apostoli non
erano vescovi, e che a Roma per circa un secolo e mezzo a guidare quella
comunità cristiana non fu un solo "papa", ma più "leader"
insieme; e che, allora, le celebrazioni eucaristiche non necessariamente
dovevano essere presiedute da un "sacerdote" o "vescovo"
ordinato. Il "sacerdozio" - un sacerdozio che separa la
"gerarchia" dai "fedeli", un sacerdozio che esclude le donne
- nascerà poi, quando la Chiesa verrà a patti con il "sistema", o
cercherà di controbatterlo, in sostanza fraintendendo il cuore del messaggio
del "laico" Gesù, e riproponendo invece schemi cultuali ebraici e
suggestioni del mondo religioso greco-romano. Indagate approfonditamente le
"istituzioni" testimoniate dal Nuovo Testamento, Pikaza passa
all'oggi, un oggi in cui la Chiesa, costretta a fare i conti con il sistema
capitalista, è spesso tentata di copiarlo, fino a sentirsi "erede
dell'ordine imperiale di Roma", "realizzando funzioni di anticipazione
e supplenza giuridica e sociale, che possono essere buone, ma non cristiane,
perché usurpano la libertà e la comunione dialogica dei credenti. Questo tempo
di anticipazione e supplenza della Chiesa romana è terminato e non è più
necessario" (p. 494).
Argomentato ed appassionato, quello di Xabier Pikaza è un libro che coniuga la
scientificità dell'indagine neotestamentaria con la sua coerente applicazione
alla Chiesa di oggi, ed alla sua desiderata riforma; riforma che, se verrà,
conclude il teologo, non verrà dai vertici ma dalle donne e dagli uomini che
formano comunità cristiane coscienti delle loro proprie responsabilità. Adista
ha intervistato il teologo per approfondire alcuni temi sensibili presenti nel
suo libro.
Dall'analisi scritturistica del suo libro si deduce che Gesù non ha mai
istituito quello che oggi si chiama "sacramento dell'ordine" e,
dunque, a rigore di termini, non ha previsto né preti né vescovi, e tanto meno
una Chiesa "patriarcale e maschilista". Di conseguenza, una comunità
cristiana senza sacerdote ordinato ("presbitero") potrebbe,
legittimamente, celebrare comunque una vera eucarestia, presieduta da un uomo o
una donna non "ordinati"?
Senza dubbio la comunità cristiana può e deve celebrare l'eucarestia, ossia,
condividere il pane e il cibo della festa (il vino), ricordando la vita e la
morte di Gesù, benedicendo Dio e creando legami di comunione. La celebrazione
non è un diritto né un dovere delle comunità, bensì l'essenza della Chiesa,
la sua stessa verità cristiana. Il tema della presidenza mi sembra
secondario. Da nessuna parte nel Nuovo Testamento viene menzionato chi debba
presiedere, né come. San Paolo (1Cor 12,14) parla molto di altri
"ministeri" (apostoli, profeti...), ma non si preoccupa della persona
(maschio o femmina) che presiede la Cena del Signore. Lascia questo argomento
nelle mani della comunità stessa.
È evidente che, in conformità con la mia visione del Nuovo Testamento, la
presidenza eucaristica possa e debba scaturire dalla stessa comunità dei
cristiani, in modo tale che siano loro a scegliere per un certo periodo i propri
"presidenti", siano essi uomini o donne. La prassi attuale di ordinare
prima i presbiteri "in generale" (come ordine speciale, sacro) per
assegnargli poi una comunità mi sembra contraria alla vita originaria della
Chiesa e all'ispirazione del Vangelo. Non credo nelle "ordinazioni
assolute", in modo che non si possa dire "questo è un vescovo, questo
un presbitero", così in generale, se non si dice "questo è il
vescovo o il presbitero di questa chiesa". Evidentemente sono le comunità
quelle che devono nominare i propri ministri, per loro conto e per tutto il
tempo che reputano conveniente.
Credo che tale prassi possa iniziare da subito. Penso che alcune comunità
cristiane siano in un buon momento per iniziare a celebrare e a vivere l'eucarestia
come qualcosa che fa parte della loro esperienza e ricchezza cristiana,
creandosi da sé i propri ministeri. Il nodo cruciale è quello posto da 1Cor
13: il mantenimento e l'effusione della carità, ovvero, di un amore che si apra
a tutte le altre Chiese; questo significa che le Chiese devono stare in
comunione le une con le altre, i ministeri di una in comunione con i ministeri
delle altre (senza bisogno che in tutte siano gli stessi).
Questa unione di carità deve estendersi alle Chiese del passato e alle Chiese
del presente (non si può rompere l'unità di amore tra le comunità). D'altra
parte mi sembra normale la divisione dei ministeri, che risale al secolo III:
vescovi, presbiteri e diaconi (anche se il diaconato reale, di fatto, lo
realizzano persone non ordinate). Per questo è necessario che le trasformazioni
si facciano con molta prudenza, molta capacità di dialogo, dalla prospettiva
della Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse e protestanti, ma allo stesso
tempo con molta libertà evangelica.
Ad ogni modo il problema attuale non è tanto l'organizzazione delle Chiese che
già esistono, ma la creazione di nuove chiese in questi periodi di cambiamento,
come furono quelli di Gesù, quelli di San Paolo. Il problema non è che
esistano meno vocazioni per questo tipo di ministeri attuali, ma che (a mio
giudizio) sia bene che non esistano. L'attualità del clero, gerarchico (come un
ordine: si è presbitero per sempre, con o senza parrocchia, come si era un
tempo marchese o conte) scomparirà presto ed è un bene che scompaia.
L'organizzazione clericale delle chiese più "ricche" come quella
statunitense, la tedesca o anche l'italiana e la spagnola non possono resistere
così a lungo. Affinché la Chiesa sia Chiesa bisogna "rifare da capo"
come già disse nell'anno 1981 il cardinal Giovanni Benelli a un gruppo
di studio a Firenze.
Siamo di fronte a un cammino che non si può tracciare in anticipo, ma la strada
bisogna percorrerla, altrimenti moriremo (la nostra Chiesa finirà). Dobbiamo
ri-creare l'eucarestia e i ministeri, altrimenti le nostre celebrazioni si
trasformeranno in qualcosa di separato dalla vita concreta degli uomini e delle
donne, come una sovrastruttura sacrale. Gesù e i primi cristiani non volevano
che il Vangelo fosse una istituzione di sacralità, una organizzazione in più,
bensì l'esperienza stessa della loro vita condivisa, come testimonianza della
grazia di Dio, come grazia e progetto della comunicazione della Parola e del
Pane.
Quello che conta non è che si mantenga un certo tipo di ministri sacrali, che
nella loro attuale forma nacquero due secoli dopo Gesù, ma che crescano le
comunità cristiane, vincolate da una celebrazione dove si condivide la Parola e
il Pane che sono di tutti. Abbiamo davanti un lungo cammino di Ortodossia, vale
a dire, di fedeltà all'ispirazione cristiana e alla Riforma, ovvero, un ritorno
all'origine... ma dobbiamo farlo con prudenza e coraggio, senza tornare alla
pura liturgia separata di alcuni gruppi sacralizzati, né all'intimismo
individualista di alcuni protestanti. Vale a dire, non abbiamo ricette chiare di
quello che potrà essere il futuro.
Nel suo libro lei definisce la Curia vaticana, ormai "inutile" e
"dannosa". Al tempo stesso, però, lei salvaguarda il ruolo del papa
come "simbolo" della unità e della comunione della Chiesa. Secondo
lei questo simbolo è conciliabile con le definizioni del Concilio Vaticano I
sul primato pontificio e sull'infallibilità papale?
Il Concilio Vaticano I mi sembra prezioso nel suo contesto e deve servire come
punto di riferimento, non per ripetere le sue parole, ma per ri-crearle nel
nuovo cammino sociale ed ecclesiale, partendo da una conoscenza più profonda
del Nuovo Testamento. La cosa più importante del Vaticano I è il superamento
delle Chiese nazionali. Il modello tradizionale della Chiesa galiziana o
tedesca, italiana o spagnola (che ha avuto grandi meriti), finisce per essere
dannoso, poiché tende ad assolutizzare dei progetti nazionali che non sono
cattolici e perché sacralizza delle forme politiche esclusiviste. Su questa
base accetto con gioia il carattere "romano" della Chiesa, sempre che
Roma significhi l'universalità. Per questo non mi sto riferendo alla Roma
latina, né alla Roma occidentale e nemmeno alla Roma della curia vaticana nelle
sue attuali forme. Il modello di organizzazione cattolica degli ultimi secoli mi
sembra splendido, una delle maggiori conquiste giuridiche e sociali della
modernità, che però ha esaurito la sua funzione e non risponde al Vangelo, non
prepara cammini per il futuro. Per questo cerco una Roma che possa essere
simbolo di comunione nella differenza, di pluralità nel dialogo.
È evidente che accetto il primato del vescovo di Roma come un simbolo di
comunione, per fedeltà storica e per convinzione ecclesiale. Ma credo anche che
tale primato possa e debba riferirsi al Pietro storico del Nuovo Testamento, che
non fu papa né vescovo nell'accezione moderna, ma che fu uomo di unità, per il
fatto che si mantenne in comunione con tutti i gruppi cristiani. Per tale motivo
possono appellarsi a Pietro le comunità di Paolo e del Discepolo Amato, di
Marco, Matteo e Luca, così come molti ebrei cristiani. La funzione di Pietro
non fu quella di "fare delle cose" in un senso impositivo, ma quella
di cercare e di collocarsi in uno spazio nel quale tutti possano incontrarsi nel
nome di Gesù, lasciando che Paolo sia Paolo e che Luca sia Luca, come segno di
comunione universale.
Ha certamente i suoi meriti un papa attivo, con personalità, capace di dare
inizio a movimenti e di mobilitare grandi masse, apparendo come un leader
mondiale a cui si avvicinano sovrani e ministri. Ma questa è una funzione
passeggera che, in fondo, in futuro, dovrà scomparire. Un papa che comanda non
è un papa, un papa che organizza le altre Chiese non può attribuirsi alcun
primato su di esse, secondo il Vangelo. Solo in questo senso si può affermare
che la Chiesa, vincolata a un tipo di unità non impositiva, simboleggiata dal
papa, sia infallibile, vale a dire, che apra un cammino di Parola per tutti, in
conformità al progetto e alla certezza primaria della Chiesa, che sa che essa
durerà per sempre.
La Chiesa infallibile, e che dura per sempre, non è la Chiesa del potere,
simboleggiata nei grandi edifici o nei progetti sociali ben cementati, ma è la
Chiesa che esprime il dono e la fraternità di Gesù, senza il bisogno di
edifici speciali, di grosse somme di denaro e di un'organizzazione perfetta.
Solo la Chiesa dell'amore e della parola condivisa, vincolata all'esperienza
pasquale di Gesù (beatitudini, morte per gli altri) può essere infallibile. Su
questa linea, vogliamo aggiungere che un papa che parla per se stesso (come se
solo lui avesse la parola), un papa che comanda dall'alto e organizza la vita
dei fedeli non è un uomo infallibile, secondo Gesù, ma una sorta di dittatore
spirituale. Per tale ragione si dice che il papa ha l'infallibilità della
Chiesa, ovvero, quella della parola condivisa.
Oggi il dialogo ecumenico sembra abbastanza stagnante. Partendo dalle
conclusioni presenti nel suo libro, quale positiva soluzione vedrebbe al
problema ecumenico?
La risposta al problema ecumenico non è il trionfo di una Chiesa sulle altre, né
un'unificazione di tipo politico o in virtù di una qualche forza, in una specie
di lotta competitiva. Desidero che le Chiese protestanti continuino a
"protestare", ma partendo dalla radice del Vangelo, affinché io
(cattolico) possa apprendere ciò che mi dicono, a partire dalla loro libertà
credente, dal loro umanesimo. Voglio che le Chiese ortodosse siano fedeli alla
loro tradizione e percorrano un cammino in linea con i nuovi tempi. Non ho
fretta di vedere una rapida unificazione delle Chiese, visto che ciò che mi
interessa e che queste vivano con passione evangelica e con umiltà creativa la
loro missione nel mondo. Solo così potremo rispondere, aiutandoci l'un l'altro,
alle due grandi sfide della modernità: il progresso tecnologico del sistema e
l'immensa povertà di grandi masse popolari; la globalizzazione, l'emarginazione
e la morte di gran parte dell'umanità.
La Chiesa non è ecumenica per il fatto di essere un'istituzione ben organizzata
(come potrebbe essere l'Onu), ma come esperienza e cammino messianico di
unificazione degli uomini e delle donne della Terra, dalla loro diversità,
senza l'imposizione di una cultura sulle altre. Inoltre, direi che il progetto e
il compito della Chiesa sia quello di non essere Chiesa come gruppo separato a sé
stante. Le Chiese hanno definito la politica e la vita culturale e sociale dei
nostri popoli. Tuttavia queste stanno morendo in qualche modo; sono in gran
parte dei musei, come capita a Salamanca dove abito, così come a Roma.
Le nostre Chiese sono musei, a noi molto cari, che contengono e mostrano una
storia millenaria. È per questo che, in un certo senso, queste devono morire
per convertirsi nuovamente in luogo di vita. Ritengo che questo processo debba
accelerarsi, così come devono sparire molte cose oltre alla nostra Chiesa, ma
non per restaurarle poi (gli attuali progetti di restaurazione sono ben noti e
pare che abbiano una buona accoglienza in Vaticano), ma per creare qualcosa di
diverso, dalla radice del Vangelo. Solo da una creatività nuova, nella quale
siano coinvolti coloro che si considerano cristiani, in comunione gratuita gli
uni con gli altri, si potrà parlare di ecumenismo. Solo le realtà che sanno
morire possono tornare a vivere. Coloro che vogliono mantenersi come sono, dopo
aver compiuto dei servizi, finiscono col distruggersi in modo violento (come
successe, secondo Gesù, al Tempio di Gerusalemme, molto simile a certi nostri
templi). Per questo, l'ecumenismo significa capacità di creatività e
cambiamento, capacità di morte, in comunione creativa di alcune Chiese con
altre. L'unità che verrà poi sarà molto diversa da quello che sogniamo
attualmente.
Da più parti, nella Chiesa cattolica romana si levano voci perché il
successore di papa Wojtyla convochi un nuovo Concilio. Se avverrà e quando
avverrà, quali innovazioni strutturali lei suggerirebbe per la sua preparazione
e la sua celebrazione?
Non sono convinto che la soluzione degli attuali problemi della Chiesa risieda
in un nuovo Concilio, anche se non mi oppongo a coloro che vogliono prepararlo
ora e celebrarlo presto, quando Giovanni Paolo II morirà. A mio modo di vedere,
l'idea di un Concilio sulla linea dei precedenti è vincolata a un tipo di
organizzazione (vescovi centralizzati, nominati su dettato vaticano…) che, a
mio giudizio, si trova superata o si deve superare. Per tale motivo non mi
piacerebbe che ci fosse un Vaticano III, visto che non cambierebbe di molto le
cose nel complesso delle Chiese. Il Concilio potrebbe tenersi a Roma, non
nell'attuale Vaticano, ma in una Roma in cui rientrino tutti i movimenti
cristiani. Bisognerebbe trovare nuove forme di partecipazione, partendo dalle
basi cristiane, ovvero da tutti coloro che vogliono percorrere un cammino
evangelico senza vincolarsi a strutture di potere.
Siamo soliti dire che sta per finire una Chiesa costantiniana. Questo significa
che il nuovo Concilio dovrebbe assumere il cammino di Nicea (anno 325), ma
superando il suo modello episcopale di potere (si celebrò sotto la
"custodia" di Costantino nel suo stesso palazzo). Alcuni miei amici
accentuano il carattere simbolico dei luoghi e formulano così le loro domande:
si dovrebbe fare un Concilio a Gerusalemme (nel dialogo con l'ebraismo), a
Ginevra o Mosca (nel dialogo con il protestantesimo e l'ortodossia), alla Mecca
(nel dialogo con l'Islam), a Benares (nel dialogo con l'induismo e il buddismo)?
Lascio questi quesiti senza risposta, per dire che la cosa più urgente è, a
mio giudizio, la ricerca di nuove forme di fedeltà e comunione messianica, nel
dialogo con tutte le Chiese, nell'apertura non impositiva verso l'umanità
intera. Per questo un Concilio nell'anno 2006 (per fare un esempio), con il tipo
attuale di vescovi della Chiesa cattolica, non darebbe molto gioco di creatività
evangelica. Forse ci aspettiamo molto dai Concilii, invece quello che dobbiamo
fare è lasciarci trasformare dal Vangelo.
In senso stretto, il Concilio reale della Chiesa è la sua vita quotidiana che
crea forme concrete di comunicazione nella Parola e nel Pane. Il vero Concilio
è la Parola del dialogo nel quale si possono unire tutti gli uomini, in
conformità al modello di Gesù. Il Concilio cristiano implica la creazione di
un linguaggio personale (non sacralizzato), un linguaggio di gioia e di apertura
agli emarginati, unendo la ragione e il sentimento, la gioia della rivelazione e
l'impegno a favore della vita. Questo è il Concilio cristiano, queste sono le
Chiese, assemblee in un Concilio di parola condivisa e di pane concreto. Per
questo, il modo per essere Concilio è quello di creare e promuovere reti di
comunicazione personale, che si esprimono nel pane spezzato; reti che non si
chiudono, che non escludono nessuno, che ci rendono capaci di rincorrere con
amore e speranza la nuova traversata dell'umanità. Creare reti che includano i
media, ma che in fondo siano personali, dirette, di incontro di occhi e di mani,
della parola condivisa con affetto, tramite una presenza personale.
Una Chiesa le cui funzioni si possano realizzare tramite un computer smette di
essere Chiesa. Non c'è amore via computer, senza carne reale, senza carezze
concrete, senza passione vitale. Neppure c'è Chiesa senza una comunicazione
concreta, fatta di parola e pane, di umanità messianica. Solo in questo modo
potremo superare la minaccia reale di quei poteri che possono distruggere la
comunicazione e distruggere noi stessi, vale a dire, la bomba e la manipolazione
(di tipo genetico, ideologico, ecc.).
Il suo libro è uscito in Spagna nel 2001. Che accoglienza ha avuto nel mondo
teologico iberico? E ci sono state reazioni da parte dell'episcopato, o da parte
delle autorità accademiche della Università Pontificia nella quale lei insegna
a Salamanca?
La Chiesa gerarchica è una struttura con molta saggezza politica. Essa lascia
passare il tempo (che le cose si aggiustino per loro conto) e resta in silenzio
(non va bene sbandierare i problemi), fino a che i problemi non arrivano a
estremi insostenibili. Per tale motivo, due anni dopo la pubblicazione di questo
libro nessuno mi ha detto nulla, assolutamente nessuno, né a favore né contro,
dentro il mondo gerarchico o nell'ambiente accademico (le facoltà di teologia
dipendono dalla gerarchia ecclesiastica). È un libro che è caduto nel
silenzio, forse perché è troppo "voluminoso" e tecnico e perché la
teologia di fatto importa poco negli ambienti della Chiesa e, fuori dalla Chiesa
(in Spagna), la cultura laica non si interessa ai temi cristiani.
Ho sentito e continuo a sentire molte voci, di ogni tipo, però non sono in
grado di valutarle. È evidente che alcune cose sono cambiate. Ci sono posti
dove non mi chiamano per tenere corsi, ci sono riviste dove non sono ben accolti
i miei lavori, ma questo è normale. Con i miei compagni, che sono veri amici,
mi è andata molto bene, però a livello personale. A livello accademico non
parliamo tra di noi. Una facoltà di teologia come la nostra è oggi un luogo di
grande silenzio.
Non so se questo sia un buono o cattivo segnale. È probabile che nella Chiesa
come istituzione ci sia paura a dire determinate cose. Sembra che ci manchi la
libertà. Il punto è che io non so cosa pensa davvero gran parte dei professori
di teologia o dei vescovi, poiché ho l'impressione che molti dicano solo quello
che "devono dire". Ma non sono sicuro neppure di loro: hanno
introiettato le reazioni del sistema o sentono che sia questo ciò che gli
richiede la loro fedeltà al Vangelo inteso dentro l'istituzione ecclesiale?
Tornando al mio caso, voglio dire che ho iniziato ad avere problemi con la
docenza nella facoltà di teologia a partire dagli anni 1982/83, per un libro
che avevo scritto su "Le origini di Gesù" (Sígueme, Salamanca 1976),
su argomenti di cristologia. Per questo motivo ho dovuto 'chiedere' una
aspettativa, poiché non mi concedevano il nulla osta per insegnare; e per tale
motivo sono rimasto fuori dall'Università per cinque anni, dal 1984 al 1989. Le
cose si sistemarono "politicamente" e a partire da allora non insegno
più i temi di teologia stretta (in cui è chiamata in gioco in modo diretto la
fede della Chiesa), bensì temi più laici o culturali, di fenomenologia o
filosofia (Storia delle Religioni e Teodicea). Io ho accettato questa soluzione
"politica" e, pertanto, non ho diritto di protestare.
Voglio aggiungere che, dall'inizio, in vent'anni di problemi mai nessuno, in
nessun modo, mi ha chiesto veramente quali siano le mie convinzioni cristiane.
Nessun vescovo o delegato dell'Università (con l'eccezione del cardinal Tarancón,
in un incontro informale che non venne considerato valido a Roma, nel 1982) mi
chiese: "Tu cosa ne pensi?" Sei un cristiano convinto? In cosa
credi?".
La questione si sistemò in questo modo. Mi chiesero di ritrattare (senza
chiedermi in fondo cosa ritrattassi). E io accettai, senza esserne convinto
(facendo qualcosa che oggi non avrei fatto). Per poter continuare a dare
lezioni, dopo l'aspettativa obbligata, pubblicai tra il 1987 e il 1988 dei
lavori "ambigui", con doppia lettura (sulla mariologia, cristologia e
pneumatologia) e così li accettarono i membri delle commissioni accademiche ed
episcopali, senza preoccuparsi di chiedermi in cosa credessi davvero. Sembrava
che io avessi accettato le regole del gioco dell'istituzione, sottomettendomi
esternamente alle sue esigenze. E di fatto fu così. Sembrava avessimo raggiunto
un accordo.
Oggi, dopo vent'anni, non mi sento con le mani pulite: ho la sensazione di
essere entrato in un gioco di dissimulazioni, nel quale tutti sapevamo che ci
stavamo ingannando in qualche modo, nascondendoci reciprocamente. Io non
credevo, né credo, in ciò che pensavano che io stessi dicendo nelle mie
"ritrattazioni". Nemmeno i rappresentanti della gerarchia si
preoccuparono di sapere quello che io pensassi davvero; a loro bastava la
facciata in ordine. Alla fine gli amici dell'università poterono sentirsi
soddisfatti. Sono un uomo ben visto e con un certo prestigio accademico. Nessuno
vuole aprire delle ferite, pertanto è meglio lasciare le cose come stanno.
È probabile che questo atteggiamento dell'istituzione provenga, almeno in
parte, dal rispetto di fondo della Chiesa cattolica, che non vuole entrare
nell'intimità delle persone. Io ringrazio l'Istituzione Ecclesiastica per
questo rispetto. Ma, d'altra parte, mi sarebbe piaciuto poter entrare in un
dialogo accademico ed ecclesiale sui temi discussi e, su questa linea, ho
pubblicato questo nuovo libro sulle "Istituzioni del Nuovo
Testamento". Fino ad ora non c'è stato dialogo. Forse ci potrà essere in
futuro. Ma con il passar del tempo io son diventato meno ingenuo. Non sono del
tutto soddisfatto delle mie reazioni, del mio modo di aver "mentito" o
per lo meno "nascosto" le mie convinzioni più profonde dinnanzi alle
strutture ufficiali della Chiesa. Sento che dentro di me c'è come una bugia,
che non mi sembra del tutto in linea con il Vangelo. Ecco perché questo libro
è un momento nel mio cammino di "povero cristiano" e vuole essere un
momento che valga anche per altri cristiani che si sentono poveri ed erranti, in
mezzo alle difficoltà e alle speranze. Poiché, e queste sono le mie ultime
parole, se c'è qualcosa di gioioso e grande nella mia vita (e in quella di
molti altri) è il Vangelo di Dio, che scopriamo in Gesù, in un cammino fragile
e bello della Chiesa.
da ADISTA 2003