l’articolo apparso sul Corriere della Sera di domenica , 16 settembre 2001 e su  peacelink è dello scrittore e giornalista Tiziano Terzani, che vive dal ‘ 69 in Oriente, di cui ha seguito gli avvenimenti principali. E’ autore di numerosi libri. Questa la sua analisi della realtà islamica.

QUEL GIORNO, TRA I SEGUACI DI BIN LADEN

Il mondo non è più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente cambiate. Forse questa è l’occasione per pensare diversamente da come abbiamo fatto finora, l’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato all’oggi e potrebbe domani portarci al nulla. Mai come ora la sopravvivenza dell’umanità è stata in gioco. Non c’è niente di più pericoloso in una guerra - e noi ci stiamo entrando - che sottovalutare il proprio avversario, ignorare la sua logica e, tanto per negargli ogni sua possibile ragione, definirlo un «pazzo». Ebbene, la Jihad islamica, quella rete clandestina e internazionale che fa ora capo allo sceicco Osama Bin Laden e che, con ogni probabilità, ha avuto la mano nell’allucinante attacco-sfida agli Stati Uniti, è tutt’altro che un fenomeno di «pazzia» e, se vogliamo trovare una via d’ uscita dal tunnel di sgomento in cui ci sentiamo gettati, dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare e perché. Nessun giornalista occidentale è riuscito a passare del tempo con Bin Laden e a osservarlo da vicino, ma alcuni hanno potuto avvicinare e ascoltare la sua gente. A me capitò, nel 1996, di passare una giornata in uno dei campi di addestramento che lui finanziava al confine fra il Pakistan e l’ Afghanistan. Ne uscii sgomento e impaurito. Per tutto il tempo in mezzo ai mullah, duri e sorridenti, e tanti giovani dagli sguardi freddi e sprezzanti, mi ero sentito un appestato, il portatore di un qualche morbo da cui non mi ero mai sentito affetto. Ai loro occhi la mia malattia era semplicemente il mio essere occidentale, rappresentante di una civiltà decadente, materialista, sfruttatrice, insensibile ai valori universali dell’Islam. Ho visto i seguaci di Bin Laden Duri, sprezzanti, senza dubbi Dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare per trovare una via d’uscita Avevo provato sulla pelle la conferma che, con la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, la sola ideologia ancora determinata ad opporsi al Nuovo Ordine, che, con l’America in testa, prometteva pace e prosperità al mondo globalizzato, era quella versione fondamentalista e militante dell’Islam. L’avevo intuito per la prima volta viaggiando nelle repubbliche musulmane dell’Asia Centrale ex sovietica e l’avevo sentito con la stessa precisione incontrando i guerriglieri anti-indiani nel Kashmir e intervistando uno dei loro capi spirituali che mi salutò dandomi in regalo una copia del Corano - l a mia prima - perché ci«imparassi qualcosa». Vedendo e rivedendo, allibito come tutti, le immagini degli aerei che si schiantavano facendo una carneficina nel centro di New York, così come nei giorni prima leggendo le notizie degli uomini-bomba palestinesi che si facevano saltare in aria mietendo vittime per le strade di Israele, mi tornavano in mente quei giovani di varie nazionalità, ma di una unica, ferma fede, che avevo visto in quel campo di addestramento: erano gente di un altro pianeta, di un altro tempo, gente che «crede» come noi stessi abbiamo saputo fare in passato, ma non sappiamo più, gente che considera il sacrificio della propria vita per una causa «giusta» come una cosa «santa». Quei giovani erano d’ una pasta che noi abbiamo difficoltà ad immaginare: indottrinati, abituati ad una vita spartanissima, ritmata da una stretta routine di esercizi, studio e preghiere, una vita tutta disciplina, senza donne prima del matrimonio, senza alcol, senza droghe. Per Bin Laden e la sua gente quello delle armi non è un mestiere, è una missione che ha radici nella fede acquisita nell’ottusità delle scuole coraniche, ma soprattutto nel profondo senso di scacco e di impotenza, nell’umiliazione di una civiltà - quella musulmana - un tempo grande e temuta, che si vede ora sempre più marginalizzata e offesa dallo strapotere e dall’arroganza dell’Occidente. E’ un problema che varie altre civiltà hanno dovuto affrontare nel corso dei due secoli passati. Quell’umiliazione la provarono i cinesi davanti «alle barbe rosse» degli inglesi che imposero loro il commercio dell’oppio, la provarono i giapponesi davanti alle «navi nere» dell’ammiraglio americano Perry che voleva aprire il Giappone al commercio. La prima reazione fu di smarrimento. Come poteva la loro civiltà, di gran lunga superiore a quella degli stranieri-invasori, essere messa al muro e resa così impotente? I cinesi cercarono una soluzione innanzitutto con un ritorno alla tradizione (la rivolta dei Boxer), poi imboccando la via della modernizzazione di stile sovietico e ultimamente di stile occidentale. I giapponesi, già alla fine dell’Ottocento, fecero questo salto tutto in una volta, mettendosi a imitare ossessivamente tutto ciò che era occidentale, copiando le uniformi degli eserciti europei, l’architettura delle nostre stazioni e imparando a ballare il valzer. Occidente diabolico Questo problema del come sopravvivere al confronto con l’Occidente, mantenendo una propria identità, si è posto ovviamente nel Novecento anche per i musulmani e anche nel loro caso le risposte hanno oscillato fra il rifugio nel tradizionale, come nel caso dello Yemen o dei Wahabi, e varie forme di occidentalizzazione: la più ardita e radicale è stata quella attuata in Turchia da Kemal Ataturk il quale negli anni Venti, riscrivendo la Costituzione, togliendo il velo alle donne, sostituendo la legge islamica con una copia del codice civile svizzero e una di quello penale italiano, mise il suo Paese sulla strada che oggi sta portando Istanbul, pur con qualche sussulto, a diventare parte della Comunità Europea. Per i fondamentalisti questa occidentalizzazione del mondo islamico è un anatema e mai come ora questo processo minaccia ai loro occhi la sua identità. Secondo loro, con la fine della Guerra Fredda l’Occidente ha scoperto le sue carte e sempre più chiaro appare il progetto - per loro «diabolico» - di incorporare l’intera umanità in un unico sistema globale che, grazie alla tecnologia in suo possesso, dia all’Occidente l’accesso e il controllo di tutte le risorse del mondo, comprese quelle che il Creatore - non a caso, secondo i fondamentalisti - ha messo nelle terre dove è nato e si è esteso l’Islam: dal petrolio del Medio Oriente al legname delle foreste indonesiane. Guerra agli Usa E’ solo negli ultimi dieci anni che questo fenomeno della
globalizzazione, o meglio della americanizzazione, si è rivelato nella sua ampiezza. Ed è esattamente nel 1991 che Bin Laden, fino allora un protegé degli americani (il suo primo lavoro in Afghanistan fu quello di costruire per la Cia i grandi bunker sotterranei per lo stoccaggio delle armi destinate ai mujaheddin), si rivolta contro Washington. Lo stazionamento di truppe americane nel suo Paese, l’Arabia Saudita, durante e dopo la guerra del Golfo, gli parve un insopportabile affronto e una violazione della santità dei luoghi sacri dell’Islam. La posizione di Osama Bin Laden divenne chiara nel 1996 quando lanciò la sua prima dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti: «Le pareti di oppressione e umiliazione non possono essere abbattute che con una grandine di pallottole». Nessuno lo prese molto sul serio. Ancora più esplicito fu il manifesto della sua organizzazione, Al Qaeda, reso noto nel 1998 dopo una riunione dei vari gruppi associati a Bin Laden. «Da sette anni gli Stati Uniti occupano le terre dell’Islam nella penisola araba, saccheggiando le nostre ricchezze, imponendo la loro volontà ai nostri governanti, terrorizzando i nostri vicini e usando le loro basi militari nella penisola per combattere i popoli musulmani vicini». L’appello rivolto a tutti i musulmani fu quello di «confrontare, combattere e uccidere» gli americani. L’obiettivo dichiarato di Bin Laden è la liberazione del Medio Oriente. Quello sognato in nome dell’eroico passato è forse molto più vasto. I primi attacchi della jihad sono sferrati contro le ambasciate americane in Africa e provocano decine e decine di morti. Washington risponde bombardando le basi di Bin Laden in Afghanistan e una fabbrica di medicinali in Sudan provocando centinaia, altri dicono migliaia di vittime civili (il numero esatto non fu mai accertato perché gli Stati Uniti bloccarono un’inchiesta dell’Onu sull’incidente). La controrisposta di Bin Laden è venuta ora a New York e a Washington. Non potendo colpire i piloti dei B-52 che sganciano le loro bombe da altezze irraggiungibili, né arrivare ai marinai che lanciano i loro missili dalle navi al largo, la soluzione è quella terroristica di attaccare masse di civili indifesi. Le azioni di questi uomini sono atroci, ma non sono gratuite, sono atti di guerra, una guerra che da tempo non è più quella cavalleresca, una guerra in cui il bombardamento di popolazioni inermi è già stato un fenomeno comune a tutti i belligeranti dell’ultimo conflitto mondiale, da quello dei V2 tedeschi su Londra, al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki col suo bilancio di oltre duecentomila morti: tutti civili. Da tempo ormai si combattono con mezzi e metodi nuovi guerre non dichiarate, lontano dagli occhi del mondo che si illude oggi di vedere e capire tutto solo perché assiste in diretta al crollo delle Torri Gemelle. Dal 1983 gli Stati Uniti hanno bombardato a più riprese nel Medio Oriente Paesi come il Libano, la Libia, l’Iran e l’Irak. Dal 1991 l’embargo imposto dagli Stati Uniti all’Irak di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane, circa mezzo milione di morti, molti dei quali bambini a causa della malnutrizione. Cinquantamila morti all’anno sono uno stillicidio che certo genera in Irak e in chi si identifica con l’Irak una rabbia simile a quella che l’ecatombe di New York ha generato nell’America e di conseguenza anche in Europa. Importante è capire che fra queste due rabbie esiste un legame. Ciò non significa confondere le vittime coi boia, significa solo rendersi conto che, se vogliamo capire il mondo in cui siamo, lo dobbiamo vedere nel suo insieme e non solo dal nostro punto di vista. Non si può capire quel che ci sta succedendo solo a sentire le dichiarazioni dei politici, costretti come sono a ripetere formule retoriche, condizionati a reagire alla vecchia maniera a una situazione completamente nuova e incapaci di ricorrere alla fantasia per suggerire ad esempio che, invece di fare la guerra, questo è il momento di fare finalmente la pace, a cominciare da quella fra israeliani e palestinesi. Invece guerra sarà. In queste ore una strana coalizione si sta mettendo in moto attraverso gli automatismi di trattati nati per un fine e ora usati per un altro e attraverso l’adesione di Paesi come la Cina, la Russia e forse anche l’India, ognuno spinto dai propri interessi strettamente nazionalistici. Per la Cina la guerra mondiale contro il terrorismo è una buona occasione per cercare di risolvere i suoi vecchi problemi con le popolazioni islamiche nei suoi territori di confine. Per la Russia di Putin è un’occasione per risolvere innanzitutto il problema della Cechnya e mettere a tacere tutte le accuse per le spaventose violazioni dei diritti umani da parte delle truppe di Mosca laggiù. Lo stesso è vero per l’India e il suo annoso conflitto per il controllo del Kashmir. Il problema è che sarà estremamente difficile fare apparire questa guerra solo come una campagna contro il terrorismo e non come una guerra contro l’Islam. Stranamente la coalizione che oggi si sta formando assomiglia molto a quella che secoli fa l’Islam si trovò a combattere su due fronti: a Occidente i Crociati, a Oriente le tribù nomadi dell’Asia Centrale e i mongoli. In quella occasione i musulmani resistettero e finirono per convertire all’Islam gran parte dei loro avversari. Questa è la scommessa che Bin Laden e i suoi possono aver fatto sferrando il loro attacco al cuore dell’America. Forse contano proprio su una rappresaglia del mondo occidentale per coagulare una massiccia resistenza islamica e fare di quella che oggi è una minoranza, pur determinata, un fenomeno più esteso. L’Islam si presta bene, per la sua semplicità e il suo innato carattere di militanza, a essere l’ideologia dei dannati della Terra, di quelle masse di poveri che oggi affollano, disperate e discriminate, il Terzo Mondo occidentalizzato. Intreccio di interessi. Più che rimuovere i terroristi e chi li ha appoggiati (forse ci sorprenderà sapere quanti personaggi, alcuni anche insospettabili, sono coinvolti), sarebbe più saggio rimuovere le ragioni che spingono tanta gente, soprattutto fra i giovani, nelle file della jihad e fanno loro apparire come una missione il compito di uccidersi e di uccidere. Se noi davvero crediamo nella santità della vita, dobbiamo accettare la santità di tutte le vite. O siamo invece pronti ad accettare le centinaia, le migliaia di morti - anche quelli civili e disarmati - che saranno vittime della nostra rappresaglia? Basterà alle nostre coscienze che quei morti ci vengano presentati, nel gergo da pubbliche relazioni dei militari americani, come «danni collaterali»? Dipende da quel che noi faremo, da come reagiremo a questa orribile provocazione, da come vedremo la nostra storia di ora
nella scala della storia dell’umanità, il tipo di futuro che ci aspetta. Il problema è che fino a quando penseremo di avere il monopolio del «bene», fino a che parleremo della nostra come “la civiltà”, ignorando le altre, non saremo sulla buona strada. L’Islam è ovunque. L’Islam è una grande e inquietante religione con una sua tradizione di atrocità e di delitti (come tante altre fedi peraltro), ma è assurdo pensare che un qualsiasi cowboy, pur armato di tutte le pistole del mondo, possa cancellare questa fede dalla faccia della Terra. Meglio sarebbe aiutare i musulmani stessi a isolare, invece che renderle più virulente, le frange fondamentaliste e a riscoprire l’aspetto più spirituale della loro fede. L’Islam è ormai ovunque. Nell’America stessa ci sono ormai tanti musulmani quanto ebrei (sei milioni, la gran parte, non a caso, afro-americani, attirati dal fatto che l’Islam è stato fin dal suo inizio al di sopra del concetto di razza). Sul territorio americano ci sono già 1.400 moschee, una persino nella base navale di Norfolk. Non dobbiamo farci ora trascinare da visioni parziali della realtà, non dobbiamo diventare ostaggi della retorica a cui oggi ricorre chi è a corto di idee per riempire il silenzio di sbigottimento. Il pericolo è che, a causa di questi tragici, orribili
dirottamenti, finiamo noi stessi, come esseri umani, per essere dirottati da quella che è la nostra missione sulla Terra. Gli americani l’hanno descritta nella loro costituzione come «il perseguimento della felicità». Bene: perseguiamo tutti assieme questa felicità, dopo averla magari ridefinita in termini non solo materiali e dopo esserci convinti che noi occidentali non possiamo perseguire una nostra felicità a scapito della felicità di altri e che, come la libertà, anche la felicità è indivisibile. L’ecatombe di New York ci ha dato l’occasione di ripensare a tutto e ci ha messo dinanzi a nuove scelte. Quella più immediata è di aggiungere o togliere al fondamentalismo islamico le sue ragioni di essere, di trasformare i balli dei palestinesi, da macabre esultazioni per una tragedia altrui, in espressioni di gioia per una loro riguadagnata dignità. Altrimenti ogni bomba o missile che cadrà sulle popolazioni del mondo non-nostro non farà che seminare altri denti di drago, e dar vita a nuovi giovani disposti a urlare «Allah Akbar», Allah è grande, pilotando un altro aereo carico di innocenti contro un grattacielo o, domani, lasciando una bomba batteriologica o una atomica tascabile in qualche nostro supermercato. Solo se riusciremo a vede re l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo. Altrimenti saremo solo come la rana del proverbio cinese che, dal fondo di un pozzo, guarda in su e crede che quel che vede sia tutto il cielo. Duemilacinquecento anni fa un indiano, chiamato poi «illuminato», spiegava una cosa ovvia: che «l’odio genera solo odio» e che «l’odio si combatte solo con l’amore». Pochi l’hanno ascoltato. Forse è venuto il momento.

         Tiziano Terzani