QUELLA
VOCE INASCOLTATA -
di Bruno Forte
"Se
avessero dato ascolto alle parole del papa che scongiurava di non fare la
guerra, oggi non piangeremmo tante vittime": sono parole, aggiunte a
braccio a un intervento di dura condanna alla barbarie terrorista, del cardinale
Renato Martino.
Il presidente del Consiglio "Iustitia et Pax" della Santa Sede, così
chiude la sua dichiarazione ufficiale, dopo aver appreso della ennesima strage
terroristica che ha ucciso tanti innocenti in due sinagoghe di Istanbul. Siamo
nel pieno dei lavori di un colloquio organizzato in Vaticano su "Leone XIII
e la pace", che vede, accanto alla partecipazione di storici e teologi,
quella di rappresentanti delle Nazioni Unite e di vari organismi internazionali.
L'attualità delle sfide ha segnato sin dall'inizio i nostri lavori: gli eventi
tragici di ieri mattina mostrano ancor più l'urgenza delle riflessioni che
andiamo facendo.
Peraltro, un'analoga urgenza avevo percepita l'altro giorno quando la notizia
della strage di Nassiriya ci raggiunse durante il Consiglio scientifico
dell'En-ciclopedia Italiana per bocca del presidente, Francesco Paolo Casavola:
in un contesto del tutto diverso da quello dell'incontro in Vaticano, fra voci
che rappresentano le anime più diverse della cultura italiana, il dolore e la
costernazione erano gli stessi, coniugati a una riflessione che emergeva in
tutti, più o meno immediatamente, dalla ferita degli eventi in corso.
Deplorare il terrorismo è dovere indiscutibile, che esige la fermezza più
grande, l'unica adatta a condannare la follia vigliacca di chi fa vittime
innocenti in nome di un progetto ideologico, che nulla ha a vedere con l'anelito
religioso del cuore umano e l'apporto etico-spirituale delle grandi religioni
dell'umanità. Piangere i morti, esprimere solidarietà ai loro cari e alle
collettività colpite - in questo caso l'Italia e Israele - è non meno urgenza
avvertita da tutti, esigenza umana e spirituale unanimemente condivisa. Tornano
però le grandi domande che sin dall'11 settembre 2001 erano state sollevate da
molti e che hanno ricevuto purtroppo la peggiore delle risposte da chi ha
preferito la legge della forza a ogni altra via per sconfiggere il veleno
terroristico e costruire la pace.
Queste domande toccano anzitutto l'analisi delle cause di quanto sta avvenendo
e, di conseguenza, il tipo di risposta che si sta dando e che si dovrà dare: se
fosse vera la tesi di Samuel Huntington sul conflitto inevitabile delle civiltà
come conflitto dei mondi religiosi ad esse sottesi, dovremmo tutti rassegnarci a
una lotta senza quartiere fra l'Occidente cristiano e l'Islam sempre più
emergente. La risposta bellica a chi attacca in maniera selvaggia e vigliacca la
convivenza civile delle democrazie più avvedute sarebbe la sola plausibile, e
la lotta in atto andrebbe semplicemente proseguita senza risparmio di decisione
e di mezzi.
In questa luce, gli italiani morti in Iraq sarebbero vittime sacrificate alla
grande causa della pace e del futuro ordine mondiale, come anche le vittime
ebraiche in Turchia rappresenterebbero nient'altro che un'appendice tragica del
già infinitamente tragico olocausto del popolo d'Israele.
Ebbene, è questa la lettura che va rifiutata. I morti italiani in Iraq come
quelli ebrei in Turchia non sono semplicemente vittime di una follia ideologica
che falsamente si appella a ragioni religiose; essi pagano purtroppo anche il
prezzo di scelte culturali e politiche sulla cui infondatezza storica, morale e
religiosa si era levata fra tante la voce altissima di Giovanni Paolo II.
Quando la Santa Sede insisteva nel considerare la guerra in Iraq immorale,
illegale, inutile e dannosa, la sua voce è stata disattesa da tanti in nome
della "realpolitik" necessaria per abbattere il dittatore spietato e
smascherare le sue trame perverse. In realtà, la guerra-lampo si è rivelata
una menzogna, costruita su oramai altrettanto manifeste menzogne relative alla
presenza di armi di distruzione di massa in quel Paese martoriato da decenni di
violenza e di embargo, e la sua fine si è rivelata un'illusione ancora più
grande, perché il quotidiano stillicidio di vittime mostra come la guerra non
sia mai finita, ma si sia semplicemente trasformata da conflitto di "bombe
intelligenti" - facilmente vinto dallo strapotere americano - in conflitto
sul terreno, fatto di insidie, guerriglia, ostilità diffusa e incapacità di
trovare convincenti vie di uscita.
A questo punto due convinzioni vanno urgentemente ribadite: la prima è che la
pace non si costruirà senza un efficace intervento delle Nazioni Unite, cui
occorre restituire tutta l'autorità e la credibilità così rovinosamente
calpestate dai "grandi della guerra", anche riformando lo Statuto del
consesso delle nazioni, perché sia veramente tale e possa esprimere e
salvaguardare gli interessi generali dell'umanità intera e non solo di una
parte di essa.
In secondo luogo, va detto con chiarezza che la pace non si costruirà senza
l'apporto decisivo delle coscienze e dei mondi religiosi cui esse appartengono,
perché la religione - liberata dalle sempre possibili strumentalizzazioni
ideologiche - non può che essere il più profondo fattore di pace e di rispetto
per tutti, in quanto vincola la responsabilità morale di ciascuno davanti
all'unicità del mistero di quel Dio, che è Padre-Madre di tutti.
Attesa la sordità dei poteri forti della terra a questo duplice appello, non
resta che rilanciarlo alle coscienze dei singoli, perché un movimento
universale di opinione scardini dalle fondamenta la violenza terroristica e la
risposta esclusivamente bellica data ad essa, a favore di processi di pace
attenti a promuovere la giustizia per tutti, per il popolo dell'Iraq, come per
quello della Palestina, per Israele come per il popolo così largamente
rappresentativo dei vari volti della famiglia umana che sono gli Stati Uniti
d'America.
Allora, le vittime di Nassiriya e di Istanbul non saranno cadute invano: allora
il loro sangue sarà seme benedetto di vita per i loro cari, per le loro nazioni
e per tutte le genti della terra, assetate come mai di pace nella giustizia e
nella riconciliazione reciprocamente ricevuta e donata.
Il Mattino del 16 novembre 2003