"L'APOSTOLO NON SI È MAI CONFESSATO". UN SACERDOTE RIFLETTE SU PENITENZA ED EUCARISTIA

DOC-1371. ROMA-ADISTA. Giornata della Misericordia, enciclica Ecclesia de Eucharistia e sacramento della Penitenza: è questo il tema e il percorso della riflessione che pubblichiamo qui di seguito ed è firmata solo in sigla. L'autore - sacerdote diocesano, da oltre trent'anni in cura d'anime, cultore di storia del sacramento della Penitenza e delle problematiche inerenti al rinnovamento della sua prassi nella Chiesa cattolica (Adista nel n. 63/2002 ha già ospitato la sua riflessione "Il vuoto della misericordia") - ci ha chiesto la cortesia di non pubblicare per esteso il suo nome. Di seguito il suo testo.

Nella Chiesa si è disposti ad istituire una "Domenica della Divina Misericordia" - e sin qui poco male, quantunque non si avvertisse il bisogno di un sovraccarico per l'anno liturgico, specie nel tempo pasquale -, ma non a toccare una virgola nell'ordinamento canonico di un sacramento che per antonomasia è "il sacramento della misericordia" e che di fatto è stato ridotto ad una piccola, grigia e spesso penosa operazione fiscale. Dacché esiste la fiscalità anche sul piano religioso. Come esiste una "misericordia viscida" (F. Barbero), quella elargita per benevola concessione da chi ti colpevolizza in ogni modo, sino a farti sentire un verme immondo e poi ti blandisce e magari ti fa lo sconto, se ne accetti le condizioni di sudditanza.
Celebrata per la prima volta in Italia, in Piazza San Pietro, l'11 aprile 1999, seconda domenica di Pasqua, come già in Polonia, a seguito delle esperienze mistiche di suor Maria Faustina Kowalska (1905-1938), la Domenica della Divina Misericordia è stata ufficializzata il 30-4-2000, in occasione della sua canonizzazione.
Un giorno di misericordia divina non dovrebbe che rallegrare, in realtà lascia molti nell'indifferenza ed altri piuttosto infastiditi (cfr. "Poca misericordia e molto codice. Un breve commento alla lettera apostolica Misericordia Dei", reperibile sul sito www.we-are-church.org/it). Per varie ragioni, ma in particolare perché rimanda ad un contesto religioso e ad un linguaggio ampiamente superato. Proprio quello che non parla più all'uomo e al cristiano d'oggi, che vive nel flusso della secolarizzazione. Infatti, questa "giornata" fa leva sull'armamentario delle indulgenze, che a sua volta ha bisogno del patrimonio dei meriti di Cristo e dei santi, di cui la Chiesa è amministratrice unica. Una teologia che ha fatto abbastanza danni perché si debba perpetuare. L'ultimo Giubileo, a meno di vederlo con gli occhiali del trionfalismo ad ogni costo, dovrebbe avere insegnato qualcosa al riguardo. Inoltre si fa appello a visioni, rivelazioni e promesse extrabibliche, che appartengono a quell'ambito "privato" per il quale la Chiesa ha quasi sempre preferito non impegnare la propria autorità o ufficialità.
Fa una certa impressione sentire Gesù che si esprime con le categorie della teologia scolastica e della controriforma: "In quel giorno, chi si accosterà alla sorgente della vita conseguirà la remissione totale delle colpe e delle pene" (diario di Faustina Kowalska). O Gesù in persona che indica formule, modalità e tempi per la recita di una certa "coroncina".
In fondo, questo è comprensibile per un Gesù del 1935, perché non si discostava dal linguaggio religioso comune, rimasto in voga sino al Concilio Vaticano II, ma lo è di meno agli inizi del secolo XXI. Tutti sono d'accordo nel dire che c'è stato ed è in atto un cambiamento epocale: possiamo, allora, ritornare semplicemente alle categorie di prima? E sarebbe auspicabile?
Soprattutto, perché negarsi, da parte dell'autorità ecclesiastica, ad una riforma del sacramento della Penitenza, canale preferenziale della misericordia di Dio, affinché essa raggiunga più facilmente le anime? Laddove, "facilmente" non vuol essere sinonimo di "a buon mercato", ma indicare una maniera più adeguata alla situazione psicologica, culturale ed esistenziale del cattolico del XX-XXI secolo.
Una riforma di base - minima, si direbbe - deve contemplare l'introduzione, accanto a quella individuale, della celebrazione comunitaria del sacramento. In pratica, la liberazione della terza forma della Penitenza, quella con confessione ed assoluzione generale, già presente nel Rito del 1974, dalle restrizioni che attualmente ne impediscono l'esercizio, e dalle clausole che la rendono, così com'è, di scarsa utilità pastorale. Mi riferisco, in particolare, all'obbligo di confessare privatamente i peccati (gravi), prima di poter ricorrere di nuovo all'assoluzione comunitaria.

Nell'ultima enciclica, Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003), preclaro esempio di teologia romana, ripetitiva e chiusa, al n. 36 si parla del rapporto fra la Penitenza e l'Eucaristia o, più limitatamente, della necessità di premettere la confessione alla comunione nel caso ci sia consapevolezza di un peccato mortale. In questo, viene confermata una dottrina tradizionale. È interessante, però, notare l'avvenuto cambio di registro per quanto riguarda l'asserito fondamento di questa disposizione.
Giovanni Paolo II, in un intervento tenuto ai Penitenzieri delle Basiliche di Roma il 30 gennaio 1981, affermava: "Vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma inculcata da san Paolo e dallo stesso Concilio di Trento, per cui alla degna recezione dell'Eucaristia si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortale" (AAS, 1981, p. 203).
Quale significato attribuire alle parole "norma inculcata", dal momento che non si trova in san Paolo un invito alla confessione, ma solo ad esaminare se stessi, prima di mangiare il pane e di bere al calice?
San Paolo non parla mai della confessione. Non gli è stata offerta occasione per scriverne? Eppure, ha trattato nei suoi scritti anche problemi di minima rilevanza e più di una volta redige un elenco di peccati. In realtà, egli non conosce un sacramento della confessione, men che meno un sacramento in senso "tridentino". Prima del terzo secolo, infatti, non ce n'è traccia nella Chiesa, e dal terzo al sesto secolo s'instaura la penitenza pubblica o canonica, data una sola volta in vita.
Quando Paolo parla del ministero della riconciliazione in Cristo affidata agli uomini (cf 2Cor 5,18-20), "non dà indicazione alcuna su una espressione liturgica o sacramentale di questa riconciliazione. Tutto sembra accadere su un piano interiore e spirituale" (Philippe Rouillard, Storia della penitenza dalle origini ai nostri giorni, Queriniana, Brescia 1999, p. 22).
È quindi ragionevole pensare che l'apostolo non si sia mai confessato. Come sant'Agostino, per fare il nome di un grande padre della Chiesa. Del resto, in assenza di peccati mortali commessi dopo il battesimo, non erano tenuti a farlo, volendo applicare loro la prassi affermatasi in seguito. Senza trascurare il fatto che non c'è un unico modo per riconoscersi peccatori e per chiedere e ottenere perdono.
Eucaristia e Penitenza esprimono indubbiamente segni sacramentali diversi circa l'unica riconciliazione e pertanto non sono intercambiabili in caso di peccato grave. Questo lo richiede la consuetudine e la disciplina ecclesiastica, "ma, per sua natura (dogmaticamente), la partecipazione degna all'Eucaristia, senza previa confessione, concede per se stessa la grazia rinnovatrice del perdono anche dei peccati gravi, perdono che a sua volta orienta il cristiano verso il sacramento della penitenza" (José Ramos-Regidor, Il sacramento della penitenza. Riflessione teologica biblico-storica-pastorale alla luce del Vaticano II, LDC, Torino 19926, p. 235).
Quando il peccatore è mosso da sincero pentimento, non dovrebbe avere molta importanza che inizi il suo iter di conversione dall'Eucaristia piuttosto che dalla Penitenza. L'Eucaristia è, con la Penitenza - e prima ancora con il Battesimo, che però rimane unico - solo un modo diverso di "incontrare" lo stesso Cristo salvatore e di assumere nuovamente il suo programma di vita.
Intanto, nella Lettera ai sacerdoti per il Giovedì santo 2002, il Papa, riferendosi allo stesso argomento, usa espressioni più tenui, rispetto a quelle del discorso ai Penitenzieri: "È questa, del resto, la linea perentoriamente indicata dall'Apostolo [...]. Sta nel solco di questa ammonizione paolina il principio secondo cui 'chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla ComunionÈ [CCC, n. 1385]" (n. 2).
Più importante è l'ulteriore variazione di linguaggio nell'enciclica Ecclesia de Eucharistia: "Desidero quindi ribadire che vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma con cui il Concilio di Trento ha concretizzato la severa ammonizione dell'apostolo Paolo affermando che, al fine di una degna ricezione dell'Eucaristia, 'si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortalÈ" (n. 36).
Adesso, le parole sembrano essere andate al loro posto, ma il rovesciamento del concetto è evidente: non si parla più di una improbabile "norma inculcata da san Paolo", né di una "linea perentoriamente indicata dal-l'Apostolo", ma di una "norma del Concilio di Trento", come interpretazione concreta di quanto dice l'apostolo.
In tal caso, non trattandosi di un dogma, pare eccessivo, oltreché rischioso, affermare che "vige e vigerà sempre", perché è tipico delle norme andare incontro a mutamenti. Ma, quantomeno, possiamo prendere atto della correzione di tiro avvenuta.
Non resta che sperare, e nel frattempo lavorare, perché l'istanza di un aggiornamento della confessione, segnalata dalla progressiva e massiccia disaffezione al sacramento o, che è lo stesso, dalla sua ripresa qua e là in termini di devozione che rasenta il devozionismo consumistico, venga accolta dai vertici ecclesiastici come voce autentica del popolo cattolico.

DOC-1371. ROMA-ADISTA. Giornata della Misericordia, enciclica Ecclesia de Eucharistia e sacramento della Penitenza: è questo il tema e il percorso della riflessione che pubblichiamo qui di seguito ed è firmata solo in sigla. L'autore - sacerdote diocesano, da oltre trent'anni in cura d'anime, cultore di storia del sacramento della Penitenza e delle problematiche inerenti al rinnovamento della sua prassi nella Chiesa cattolica (Adista nel n. 63/2002 ha già ospitato la sua riflessione "Il vuoto della misericordia") - ci ha chiesto la cortesia di non pubblicare per esteso il suo nome. Di seguito il suo testo.

Nella Chiesa si è disposti ad istituire una "Domenica della Divina Misericordia" - e sin qui poco male, quantunque non si avvertisse il bisogno di un sovraccarico per l'anno liturgico, specie nel tempo pasquale -, ma non a toccare una virgola nell'ordinamento canonico di un sacramento che per antonomasia è "il sacramento della misericordia" e che di fatto è stato ridotto ad una piccola, grigia e spesso penosa operazione fiscale. Dacché esiste la fiscalità anche sul piano religioso. Come esiste una "misericordia viscida" (F. Barbero), quella elargita per benevola concessione da chi ti colpevolizza in ogni modo, sino a farti sentire un verme immondo e poi ti blandisce e magari ti fa lo sconto, se ne accetti le condizioni di sudditanza.
Celebrata per la prima volta in Italia, in Piazza San Pietro, l'11 aprile 1999, seconda domenica di Pasqua, come già in Polonia, a seguito delle esperienze mistiche di suor Maria Faustina Kowalska (1905-1938), la Domenica della Divina Misericordia è stata ufficializzata il 30-4-2000, in occasione della sua canonizzazione.
Un giorno di misericordia divina non dovrebbe che rallegrare, in realtà lascia molti nell'indifferenza ed altri piuttosto infastiditi (cfr. "Poca misericordia e molto codice. Un breve commento alla lettera apostolica Misericordia Dei", reperibile sul sito www.we-are-church.org/it). Per varie ragioni, ma in particolare perché rimanda ad un contesto religioso e ad un linguaggio ampiamente superato. Proprio quello che non parla più all'uomo e al cristiano d'oggi, che vive nel flusso della secolarizzazione. Infatti, questa "giornata" fa leva sull'armamentario delle indulgenze, che a sua volta ha bisogno del patrimonio dei meriti di Cristo e dei santi, di cui la Chiesa è amministratrice unica. Una teologia che ha fatto abbastanza danni perché si debba perpetuare. L'ultimo Giubileo, a meno di vederlo con gli occhiali del trionfalismo ad ogni costo, dovrebbe avere insegnato qualcosa al riguardo. Inoltre si fa appello a visioni, rivelazioni e promesse extrabibliche, che appartengono a quell'ambito "privato" per il quale la Chiesa ha quasi sempre preferito non impegnare la propria autorità o ufficialità.
Fa una certa impressione sentire Gesù che si esprime con le categorie della teologia scolastica e della controriforma: "In quel giorno, chi si accosterà alla sorgente della vita conseguirà la remissione totale delle colpe e delle pene" (diario di Faustina Kowalska). O Gesù in persona che indica formule, modalità e tempi per la recita di una certa "coroncina".
In fondo, questo è comprensibile per un Gesù del 1935, perché non si discostava dal linguaggio religioso comune, rimasto in voga sino al Concilio Vaticano II, ma lo è di meno agli inizi del secolo XXI. Tutti sono d'accordo nel dire che c'è stato ed è in atto un cambiamento epocale: possiamo, allora, ritornare semplicemente alle categorie di prima? E sarebbe auspicabile?
Soprattutto, perché negarsi, da parte dell'autorità ecclesiastica, ad una riforma del sacramento della Penitenza, canale preferenziale della misericordia di Dio, affinché essa raggiunga più facilmente le anime? Laddove, "facilmente" non vuol essere sinonimo di "a buon mercato", ma indicare una maniera più adeguata alla situazione psicologica, culturale ed esistenziale del cattolico del XX-XXI secolo.
Una riforma di base - minima, si direbbe - deve contemplare l'introduzione, accanto a quella individuale, della celebrazione comunitaria del sacramento. In pratica, la liberazione della terza forma della Penitenza, quella con confessione ed assoluzione generale, già presente nel Rito del 1974, dalle restrizioni che attualmente ne impediscono l'esercizio, e dalle clausole che la rendono, così com'è, di scarsa utilità pastorale. Mi riferisco, in particolare, all'obbligo di confessare privatamente i peccati (gravi), prima di poter ricorrere di nuovo all'assoluzione comunitaria.

Nell'ultima enciclica, Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003), preclaro esempio di teologia romana, ripetitiva e chiusa, al n. 36 si parla del rapporto fra la Penitenza e l'Eucaristia o, più limitatamente, della necessità di premettere la confessione alla comunione nel caso ci sia consapevolezza di un peccato mortale. In questo, viene confermata una dottrina tradizionale. È interessante, però, notare l'avvenuto cambio di registro per quanto riguarda l'asserito fondamento di questa disposizione.
Giovanni Paolo II, in un intervento tenuto ai Penitenzieri delle Basiliche di Roma il 30 gennaio 1981, affermava: "Vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma inculcata da san Paolo e dallo stesso Concilio di Trento, per cui alla degna recezione dell'Eucaristia si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortale" (AAS, 1981, p. 203).
Quale significato attribuire alle parole "norma inculcata", dal momento che non si trova in san Paolo un invito alla confessione, ma solo ad esaminare se stessi, prima di mangiare il pane e di bere al calice?
San Paolo non parla mai della confessione. Non gli è stata offerta occasione per scriverne? Eppure, ha trattato nei suoi scritti anche problemi di minima rilevanza e più di una volta redige un elenco di peccati. In realtà, egli non conosce un sacramento della confessione, men che meno un sacramento in senso "tridentino". Prima del terzo secolo, infatti, non ce n'è traccia nella Chiesa, e dal terzo al sesto secolo s'instaura la penitenza pubblica o canonica, data una sola volta in vita.
Quando Paolo parla del ministero della riconciliazione in Cristo affidata agli uomini (cf 2Cor 5,18-20), "non dà indicazione alcuna su una espressione liturgica o sacramentale di questa riconciliazione. Tutto sembra accadere su un piano interiore e spirituale" (Philippe Rouillard, Storia della penitenza dalle origini ai nostri giorni, Queriniana, Brescia 1999, p. 22).
È quindi ragionevole pensare che l'apostolo non si sia mai confessato. Come sant'Agostino, per fare il nome di un grande padre della Chiesa. Del resto, in assenza di peccati mortali commessi dopo il battesimo, non erano tenuti a farlo, volendo applicare loro la prassi affermatasi in seguito. Senza trascurare il fatto che non c'è un unico modo per riconoscersi peccatori e per chiedere e ottenere perdono.
Eucaristia e Penitenza esprimono indubbiamente segni sacramentali diversi circa l'unica riconciliazione e pertanto non sono intercambiabili in caso di peccato grave. Questo lo richiede la consuetudine e la disciplina ecclesiastica, "ma, per sua natura (dogmaticamente), la partecipazione degna all'Eucaristia, senza previa confessione, concede per se stessa la grazia rinnovatrice del perdono anche dei peccati gravi, perdono che a sua volta orienta il cristiano verso il sacramento della penitenza" (José Ramos-Regidor, Il sacramento della penitenza. Riflessione teologica biblico-storica-pastorale alla luce del Vaticano II, LDC, Torino 19926, p. 235).
Quando il peccatore è mosso da sincero pentimento, non dovrebbe avere molta importanza che inizi il suo iter di conversione dall'Eucaristia piuttosto che dalla Penitenza. L'Eucaristia è, con la Penitenza - e prima ancora con il Battesimo, che però rimane unico - solo un modo diverso di "incontrare" lo stesso Cristo salvatore e di assumere nuovamente il suo programma di vita.
Intanto, nella Lettera ai sacerdoti per il Giovedì santo 2002, il Papa, riferendosi allo stesso argomento, usa espressioni più tenui, rispetto a quelle del discorso ai Penitenzieri: "È questa, del resto, la linea perentoriamente indicata dall'Apostolo [...]. Sta nel solco di questa ammonizione paolina il principio secondo cui 'chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla ComunionÈ [CCC, n. 1385]" (n. 2).
Più importante è l'ulteriore variazione di linguaggio nell'enciclica Ecclesia de Eucharistia: "Desidero quindi ribadire che vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma con cui il Concilio di Trento ha concretizzato la severa ammonizione dell'apostolo Paolo affermando che, al fine di una degna ricezione dell'Eucaristia, 'si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortalÈ" (n. 36).
Adesso, le parole sembrano essere andate al loro posto, ma il rovesciamento del concetto è evidente: non si parla più di una improbabile "norma inculcata da san Paolo", né di una "linea perentoriamente indicata dal-l'Apostolo", ma di una "norma del Concilio di Trento", come interpretazione concreta di quanto dice l'apostolo.
In tal caso, non trattandosi di un dogma, pare eccessivo, oltreché rischioso, affermare che "vige e vigerà sempre", perché è tipico delle norme andare incontro a mutamenti. Ma, quantomeno, possiamo prendere atto della correzione di tiro avvenuta.
Non resta che sperare, e nel frattempo lavorare, perché l'istanza di un aggiornamento della confessione, segnalata dalla progressiva e massiccia disaffezione al sacramento o, che è lo stesso, dalla sua ripresa qua e là in termini di devozione che rasenta il devozionismo consumistico, venga accolta dai vertici ecclesiastici come voce autentica del popolo cattolico.

 

da ADISTA 24.5.2003