Il crocefisso nelle scuole - Un'opinione ebraica Riccardo
Di Segni Gli
antichi testi rabbinici raccontano una storia su Rabban Gamliel (Gamaliele),
l'autorevole rabbino che difese nel Sinedrio i primi fedeli di Gesù e di cui
l'apostolo Paolo si vantava di essere stato discepolo. Gamliel frequentava le
terme di Afrodite di Acco, un luogo pieno di statue dedicate agli dei; ed era
molto strano che lo facesse il rappresentante tanto importante di una religione
che rifiutava l'idolatria. Gamliel
si giustificava in questo modo: "non sono stato io ad andare nel territorio
di Afrodite, ma è stata Afrodite a venire nel mio territorio". In altri
termini, bisogna distinguere tra il territorio di Afrodite, cioè il tempio che
le è dedicato e nel quale chi rifiuta l'idolatria non deve entrare, e la casa
di tutti, come le terme pubbliche, dove qualcuno può anche averci introdotto
immagini proibite, ma non per questo diventa proibita ai frequentatori. La
posizione di Gamliel era quella del rappresentante di una religione allora senza
potere politico, che non poteva permettersi, anche se l'avesse voluto,
l'abolizione forzata delle immagini idolatriche. Cominciarono
a farlo e ci riuscirono, tre secoli dopo questa storia, i rappresentanti del
cristianesimo trionfante sugli "dei falsi e bugiardi". Da allora fu il
cristianesimo a riempire gli spazi pubblici dei segni della sua fede. Non fu un
processo senza ostacoli, perché anche nel cristianesimo l'uso delle immagini
nella pratica religiosa fu sempre causa di discussioni e divisioni; non tanto
per il cattolicesimo: e noi in Italia, dove la realtà cristiana è in gran
parte cattolica, dobbiamo confrontarci con le scelte di questa parte del mondo
cristiano così fedele alle sue immagini di culto. Per
Gamliel, che era lo spettatore passivo dell'irruzione nel luogo pubblico di
immagini che lo disturbavano, ma contro le quali non poteva fare nulla, si
trattava di decidere se era lecito frequentare il luogo pubblico. Per la società
moderna, nella quale ogni cittadino partecipa democraticamente alla decisione
collettiva, il problema va oltre: si tratta di decidere se sia lecita
l'introduzione di un segno privato in un luogo pubblico. La questione che oggi
si pone del crocifisso nelle scuole, forse con un'enfasi esagerata, è quella
dei limiti da porre al desiderio di una fondamentale componente della società a
porre e imporre il segno della sua fede nella casa di tutti, nella quale
coabitano tutte le altre parti della società. Non
bisogna dimenticare che ogni stato moderno, per quanto laico possa dichiararsi,
ha stabilito dei patti con le religioni, maggioritarie e minoritarie, derogando
più o meno dal principio dell'assoluta separazione tra stato e religioni. Ciò
che è avvenuto in Italia è il prodotto di una storia lunga e travagliata, e ciò
che non è stato ancora definito con precisione, e che sta ai limiti delle
decisioni consolidate, come il caso del crocifisso, solleva di tanto in tanto
delle polemiche, banco di prova e di scontro tra almeno due concezioni diverse. In
questo dibattito può avere qualche importanza conoscere gli stati d'animo e le
domande di molti ebrei italiani. Si dice che il crocifisso sia un segno
culturale, e che non bisogna rinunciare alla propria cultura e alle proprie
tradizioni per un malinteso senso di rispetto delle minoranze. E' vero che il
crocifisso è anche un segno culturale, ma non è per questo che lo si vuole
nelle scuole; lo si vuole perché è prima di tutto un segno religioso, e il
problema è essenzialmente religioso. I cattolici rivendicano con giusto
orgoglio che questo è per loro un segno di amore e di speranza, e non si
capisce allora perché non debba essere presente ovunque. Ma visto da altre
parti, come quella ebraica, il senso di quel segno è differente. Per noi è
prima di tutto l'immagine di un figlio del nostro popolo che viene messo a morte
atrocemente; ma è anche il terribile ricordo di una religione che in nome di
quel simbolo, brandito come un'arma, ha perseguitato, emarginato, umiliato il
nostro ed altri popoli, cercando di imporgli quel simbolo come l'unica fede
possibile e legittima. La
storia passata della Chiesa ha trasformato quel simbolo, che dovrebbe essere di
amore, in un segno di oppressione e intolleranza. L'ultimo Concilio ha cambiato
nettamente la direzione, ma la richiesta ripetuta di occupare il luogo pubblico
con quel segno ripropone alla nostra memoria il tema dell'intolleranza. La
domanda che allora si pone a quella parte del mondo cattolico che si batte tanto
per il crocefisso è se siano tornati, o non siano mai finiti, i tempi in cui la
religione cattolica ha pensato di imporsi e diffondersi non con la testimonianza
e la pratica esemplare delle sue virtù, ma con l'invasione, la forza,
l'occupazione. Il problema che ci preoccupa è quale modello di religione sia
dietro alle richieste dei difensori del crocifisso. Come membri minoritari di
una società pluralistica continuiamo a ragionare con Gamliel, e a non
rinunciare agli spazi pubblici, subendone, se inevitabile, l'occupazione con
segni privati; come cittadini partecipiamo al dibattito civile per definire i
limiti e i diritti di ogni religione nella società laica; come fratelli,
rivolgiamo ai fratelli cattolici una domanda preoccupata sulla loro identità,
sul loro modo di vivere e proporre la loro fede al mondo circostante. Roma,
28 ottobre 2003 |
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