L'ingerenza come
diritto
I motivi, e le
ossessioni, che ogni volta hanno spinto gli Usa alla guerra
Marco D'Eramo
L'elenco - di cui qui accanto pubblichiamo
l'ultima puntata - fornito al Senato Usa dal segretario di stato Dean Rusk nel
settembre 1962 serviva a dimostrare che un'eventuale invasione di Cuba, per
abbattere Fidel Castro, rientrava «di diritto» nei binari della politica
estera americana. Perciò ci teneva a mostrare quante azioni erano state
effettuate senza ordini presidenziali o autorizzazioni parlamentari.
Rivolgendosi a un pubblico di politici di professione, alcuni episodi vengono
dati per scontati e non si spiega che la «spedizione Pershing» in Messico
(1916-1917) era composta da una divisione di ben 11.000 soldati dotati di
aviazione, mezzi corazzati e artiglieria. Né la breve frase dedicata alla
guerra nelle Filippine (1899-1902) rende ragione dei 4.200 soldati americani,
dei 16.000 ribelli e dei 200.000 civili filippini che quella guerriglia uccise.
Funzionale a giustificare un altro intervento, la lista appiattisce la
prospettiva e la protezione di una drogheria statunitense nei Caraibi diventa
rilevante quanto una guerra mondiale. Ma proprio quest'appiattimento ci fornisce
alcune indicazioni. In primo luogo ci accorgiamo che l'intervento militare
oltremare, anzi transoceanico, risale agli esordi degli Stati uniti: le prime
spedizioni in Africa del Nord, Turchia, Grecia, Africa occidentale e Asia
risalgono all'inizio dell'800, quando la repubblica ancora balbettava. Il
supposto, originario isolazionismo americano si rivela per quello che è: un
errore prospettico al meglio, un inganno al peggio.
In secondo luogo, una delle due espressioni più usate nella lista è «per
proteggere le proprietà e gli interessi americani», concezione che ci ricorda
molto da vicino la lettera che il governatore di Batavia, Jan Pieterszoon Coen,
scrisse agli Heeren della compagnia delle Indie olandesi nel 1614: «Le vostre
Eccellenze dovrebbero sapere per esperienza che il commercio in Asia ha da
essere attivato e mantenuto sotto la protezione e il favore delle armi delle
Vostre Eccellenze, e che dette armi devono essere pagate con i profitti del
commercio; laonde non ci può fare commercio senza guerra né guerra senza
commercio».
Da qui lo scopo ripetutamente dichiarato di tante ostentazioni di muscoli
militari: «per ricordare alla Turchia la potenza americana» «per vendicare
l'insulto subito dall'ambasciatore americano», «per vendicare l'insulto alla
bandiera americana che era stata bruciata»...
L'altro termine che ricorre ossessivo in tutto il testo è «rivoluzione», in
ogni sua variante, come se questo e solo questo fosse ciò che gli strateghi
americani temevano di ritrovare a ogni angolo della storia e del pianeta, dalle
Filippine alla Cina, all'America latina naturalmente: «rivolta», «insurrezione»,
«sommossa», «tumulto», «moto», «agitazione», tutti termini che il testo
impiega quando gli «interessi e le proprietà Usa sono minacciati». C'è da
chiedersi se la logica non lavorasse nell'altro senso, e se non fosse cioè la
puntigliosa difesa delle proprietà e degli interessi americani a provocare
senza sosta rivolte, sommosse e insurrezioni in quei paesi.
È in quest'ambito che affiorano significative categorie mentali, come quando fa
capolino il termine «teppaglia» o come quando «i braccianti negri vanno fuori
controllo».
Vi è infine il problema di aggiornare questa lista a dopo la seconda guerra
mondiale, un compito assai arduo. Se usassimo i criteri usati da Rusk, che
enumera l'installazione di ogni nuova base americana all'estero, poiché oggi
gli Usa hanno più di 750 basi militari fuori dalla madrepatria, bisognerebbe
enumerare centinaia di interventi. Nel 2001 apparirebbe perciò non solo la
guerra in Afghanistan, ma anche l'apertura di basi militari in Uzbekistan,
Kazakistan, Tajikistan.... Vi sono poi gli interventi compiuti in Colombia e
altrove da forze non direttamente militari, come la Dea, ma che comprendono
interventi armati. Vi sono infine le operazioni coperte dei servizi segreti. Ci
accorgeremmo che negli ultimi 60 anni la lista è diventata sterminata.
"il manifesto" 10.12.2003