La guerra come
dottrina
La «dottrina Bush» non è altro che il
proseguimento, un po' isterico, della tradizione americana. Che nel mondo
globalizzato ed economicamente «ristretto» sconvolge gli assetti
internazionali, soprattutto tra le due sponde dell'Atlantico
MARCO D'ERAMO
Ospita una scuola materna la settecentesca Villa Oliveto che
da un poggio si affaccia sul placido paesaggio di una Val di Chiana che sembra
lontanissima dall'operoso alveare di capannoni e fabbrichette pullulanti intorno
alla vicina Arezzo. Nulla ti lascia pensare che in questo luogo sereno si
aggirino i fantasmi delle più sanguinose tragedie del secolo scorso. Eppure
l'attuale scuola materna fu prima, negli anni `30, un centro di addestramento
per gli ustascia croati, e poi, durante la seconda guerra mondiale, un campo di
concentramento dove furono deportati ebrei libici.
E proprio qui il Centro di documentazione sui campi di concentramento,
l'Istituto Gramsci di Roma e il comune di Civitella in Val di Chiana hanno
deciso di celebrare in modo originale il giorno della memoria. Leonardo Paggi e
gli altri organizzatori hanno raccolto sabato scorso una ventina di esperti e
studiosi italiani e americani a discutere per tutta la giornata. Scopo: cercare
di tracciare la memoria della guerra a venire. Le tragedie di ieri sono state
così evocate alla luce della tragedia di domani, visto che la drammatica
domanda a cui i relatori dovevano rispondere era: sembra che d'invadere l'Iraq a
George Bush glielo abbia ordinato il medico, ma non si capisce affatto in base a
quale diagnosi di quale malattia sia stata emessa quest'inesorabile
prescrizione.
Si è ottenuto così il massimo dell'anacronismo e dell'anatropismo, dove i
termini alla moda della politologia, come nation-building, si
sovrapponevano agli spettri dei fascisti croati, le prospettive di attacchi
preventivi acquistavano nuova luce a guardare le minuscole tazze allineate nella
toletta per i più piccini, e dietro ai bombardieri Stealth pronti a decollare
restava ancora impressa l'orma della shoah.
Il punto da cui i relatori erano invitati a partire è il documento
presidenziale sulla National Security Strategy (Nss) reso pubblico quest'estate,
con cui l'amministrazione repubblicana ha affermato al mondo il proprio
unilateralismo e l'abbandono della strategia della deterrenza, a favore
dell'attacco preventivo.
Poiché il dibattito riuniva economisti di fama come Marcello De Cecco, Mario
Nuti e Andrea Ginzburg, giuristi come Luigi Ferraioli a Salvatore Senese,
politologi e storici come Pietro Gargiulo, Adolfo Pepe, Isidoro Mortellaro,
studiosi dell'Europa orientale come Silvio Pons e delle religioni come Renzo
Guolo, è inutile riportare il dibattito intervento per intervento, tesi per
tesi. Tanto più che le posizioni erano assai variegate, e con strane
distorsioni, per cui un intelligente repubblicano americano come David Calleo si
è collocato all'estrema sinistra rispetto a un riformista italiano come
Federico Romero. Anche per non affliggere il lettore con certi manierismi
espressivi, e con piaggerie, come il termine «visionaria» con cui alcuni (John
Harper, Mario Del Pero) hanno voluto qualificare con cortigiana scaltrezza la
strategia neoconservatrice, dove «visionario» può essere un elogio adulatorio
di straordinaria lungimiranza profetica, ma anche un eufemismo per dire «Questi
sono pazzi».
A suo tempo la Nss fu definita «una svolta epocale», ma ha ragione De Cecco
quando osserva che ormai di svolte epocali ce ne sono una ogni paio d'anni. In
effetti, in quel documento si ritrovano temi ed espressioni già presenti nella
dottrina Truman. Soprattutto, questo documento riprende pari pari il National
Defence Guidance for the 1994-1999 Fiscal Years presentato nel 1992 da Dick
Cheney (allora segretario della difesa e oggi vicepresidente degli Stati uniti),
documento che era stato redatto insieme a Colin Powell (allora capo di stato
maggiore dell'esercito, oggi segretario di stato) e Paul Wolfowitz (allora
sottosegretario e oggi vicesegretario alla difesa). Questo documento fu
ripresentato con variazioni minime nel 1992, nel 1993 e l'anno scorso
(un'analisi della straordinaria somiglianza di questi testi è stata condotta da
David Armstrong su Harper's Magazine dello scorso ottobre). Anche in quei
documenti erano presenti i temi che caratterizzano la cosiddetta dottrina Bush,
in particolare la volontà dichiarata di aumentare spese militari e forza
bellica nonostante la fine della guerra fredda, il mantenimento di una
schiacciante superiorità tecnologica, la marginalizzazione della Nato e dell'Onu,
l'unilateralismo e la dottrina dell'attacco preventivo (che, a sua volta,
richiama il first strike - primo colpo - nucleare della guerra fredda).
La «dottrina Bush» si configura allora non come una svolta epocale, ma come la
ripetizione ossessiva e paranoica delle stesse idee, qualunque sia la situazione
che esse pretendono di affrontare. Lo stesso 11 settembre si presenta allora in
una luce diversa. Non più come l'evento «dopo il quale niente sarà più
uguale a prima» (never again) quale una ormai insopportabile retorica ce
l'ha instancabilmente dipinto, ma come l'occasione - dolorosa sì, ma anche
insperata - per portare a termine un vecchio programma politico. In fondo, il «secolo
americano» cominciò nel 1898 con l'invasione di Cuba, giustificata in modo
assai pretestuoso dall'esplosione della corazzata Maine nel porto
dell'Avana.
Nello stesso tempo però la dichiarazione Bush, ma soprattutto l'ormai
inevitabile invasione dell'Iraq segnano davvero una svolta, e cioè il passaggio
da una fase di «impero informale» (come l'ha definito Chalmers Johnson in Gli
ultimi giorni dell'impero) a una vera e propria auto-incoronazione
imperiale.
In due sensi gli Usa costituivano un «impero informale». Il primo senso è che
i cittadini americani sono stati (e sono) ignari di costituire un impero.
Pensano di essere la nazione più ricca e più potente, ma non un impero, e
nulla li ha preparati a diventare tali, né a conseguire le doti per gestire un
impero, come ha detto David Calleo. Anche all'opinione pubblica internazionale
la natura imperiale del potere americano era oscurata dalla guerra fredda. In
presenza del nemico sovietico, le basi americane non erano truppe di occupazione
ma bastioni difensivi contro le orde cosacche (che mai si sono abbeverate a San
Pietro). Gli Usa erano i «paladini del mondo libero» e alimentavano l'ingenua
credenza (così definita dallo storico Howard Zinn) per cui Gli Stati uniti
pensano di essere «la nazione boy scout che aiuta gli altri paesi del mondo ad
attraversare la strada». Ma dopo la fine della guerra fredda ci si può
chiedere da chi stiano difendendo l'Italia le decine di basi militari Usa che la
costellano, da Napoli alle Puglie, da Aviano a Livorno, dalla Maddalena a
Verona: da un'invasione francese, o egiziana, o greca?
Informale era anche quest'impero, dopo il crollo dell'Unione sovietica, perché
fautore di quel che alcuni strateghi hanno chiamato soft power, messo in
atto dall'amministrazione Clinton e che i repubblicani oggi al potere deridono
come «goody-goody», cioè come buonismo: il soft power consiste nel
creare le condizioni (economiche, militari, diplomatiche) per cui gli altri
paesi siano costretti a fare spontaneamente ciò che vuoi tu senza che tu debba
ordinarglielo. Da qui la preferenza democratica di esercitare l'«impero
informale» attraverso le cinghie di trasmissione internazionali: Onu, Nato,
Fondo monetario internazionale, Banca mondiale. La «dottrina Bush» - e
l'attacco all'Iraq - relega in soffitta l'idea di governare il mondo attraverso
intermediari internazionali, e costituisce una dichiarazione di impero: «Io ho
il diritto di attaccare chiunque, ovunque, nel momento che mi pare, a mio totale
arbitrio». L'impero è legibus solutus, ha detto Salvatore Senese: non
ratifica il trattato di Kyoto, processa i criminali di guerra degli altri paesi
ma chiede l'immunità per i propri crimini di guerra (fu questa la ragione per
cui a Norimberga, tra i crimini di guerra non furono inclusi i bombardamenti
delle popolazioni civili inermi, per non mettere sul banco degli imputati i
generali americani accanto a quelli tedeschi).
È questo vero e proprio «proclama imperiale» a preoccupare Cina, Russia,
Francia e Germania, molto più che l'attacco all'Iraq in sé. Se per scatenare
un'invasione basta che non piaccia a Dick Cheney la foggia dei baffi di Saddam
Hussein, allora la marcia su Baghdad è solo la prima tappa della «guerra dei
trent'anni» che ci è stata promessa (tra parentesi, la Guerra dei trent'anni
1618-1648, fu la più sanguinosa della storia, come percentuale di popolazione
uccisa). La prossima tappa potrebbe essere la marcia su Teheran, e non solo.
Poiché gli Usa considerano che la sola, vera potenza rivale sarà la Cina, non
conviene forse fermarla prima che - attorno al 2020 - il suo peso economico
superi quello degli Stati uniti? E perché Parigi dovrebbe sentirsi al sicuro,
visti i suoi costanti attriti con Washington sull'Africa in particolare? Se
l'impero deve essere mondiale, non possono esservi limiti agli obiettivi su cui
intervenire.
Ma come ha scritto Chalmers Johnson, erigere un impero implica costi che
crescono esponenzialmente mano mano che l'impero si espande. In primo luogo
costi economici. Mantenere più di mille installazioni militari all'estero e
combattere una, due o più guerre contemporaneamente, pone il bilancio federale
Usa sotto tale sforzo da creare una serie di tensioni internazionali.
Come ha notato Marcello De Cecco, il deficit della bilancia dei pagamenti Usa è
ormai strutturale e il paese è mantenuto a galla dall'acquisto di dollari da
parte dei paesi che hanno un immane attivo commerciale con gli Stati uniti e
che, oltre agli arabi produttori di petrolio (Sauditi, Kuwait, Emirati), sono
soprattutto gli esportatori asiatici, Cina, Taiwan, Corea. Uno dei fattori
decisivi nella crisi prossima ventura, ha detto perciò De Cecco, sarà il tasso
di cambio della valuta cinese. Se Pechino svaluterà lo yuan, altre monete
asiatiche svaluteranno, ma gli Usa non permetteranno a Tokyo di riallineare lo
yen e questo potrebbe innescare una crisi internazionale.
Ma i costi dell'impero sono anche politici. Da un lato, il flusso di fondi
pubblici verso la difesa prosciugherà ogni fonte per le spese sociali
accentuando l'approfondirsi delle diseguaglianze Usa, che già sono un baratro,
e mettendo in pericolo la stessa coesione interna, ha detto Giorgio Fodor.
Dall'altro lato, come ha scritto David Ignatieff in un lungo saggio di tre
settimane fa sul New York Times Magazine, si viene a creare negli Stati
uniti una vera e propria delega politica alla casta militare. Già
oggi la diplomazia Usa è formulata più dal Pentagono che dal Segretariato di
stato, più dai proconsoli militari delle basi d'occupazione che dagli
ambasciatori sul posto. Come da sempre ripete lo studioso di strategia francese
Alain Joxe, «assistiamo a una totale militarizzazione del pensiero politico
americano». La soluzione della crisi viene affidata alla sola superiorità
militare, con una carenza di azione politica (costruzione delle coalizioni, e «uso
del terzo», per usare la bella espressione di Carl Schmitt).
Un esito di tutto ciò è il sostanziale annientamento dell'Onu come camera di
compensazione, come «luogo neutro» dove dirimere i conflitti. Luigi Ferrraioli
ha notato con forza che - comunque vada - questa crisi segna la fine dell'Onu:
se gli Usa attaccheranno da soli, l'Onu sarà marginalizzato e non conterà più
nulla; se l'Onu accetterà di seguire gli Usa nell'invasione commetterà un
suicidio politico poiché una guerra di aggressione è esplicitamente vietata
dallo steso atto fondativo delle Nazioni unite.
Ma quest'approccio moltiplica l'ostilità circostante, mettendo in prospettiva a
repentaglio l'intero progetto imperiale. Ecco perché molti dei partecipanti
alla giornata di studi hanno espresso dubbi sulla vivibilità a lungo termine di
un unilateralismo esasperato.
L'ultima conseguenza della «dottrina Bush» è l'allontanamento tra Usa ed
Europa, tanto che alcuni commentatori parlano ormai non più «dell'Occidente»,
ma «degli Occidenti», al plurale. A tal punto che David Calleo chiede agli
europei di crescere come potenza per controbilanciare gli Usa (e, sottinteso,
salvarli da Bush). La prima ragione del crescente divario è che gli alleati di
un tempo sono ridotti a sudditi di oggi, gerarchizzati come lo erano i vassalli,
valvassini e valvassori (il che non può non suscitare scontenti). La seconda
ragione, più profonda, è che gli stessi modelli di civiltà si stanno
separando sulle due sponde dell'Atlantico. Su temi come pena di morte, regime
carcerario, servizio medico nazionale, scuola pubblica, trasporti in comune,
pensioni, dopo gli anni dell'euforia liberista e della bolla speculativa, oggi i
governi europei cominciano a puntare i piedi, anche per la crisi morale, di
legittimità, e finanziaria, che ha colpito il capitalismo americano. Pensate,
con i crolli in borsa che ci sono stati, se avessimo seguito le indicazioni Usa
di affidare a fondi azionari le nostre pensioni! Persino Tony Blair ha dovuto
rinazionalizzare le ferrovie.
Europa e Stati uniti si separano anche perché ognuno ha un'immagine distorta
degli altri. Gli Usa ritengono - opinione interiorizzata al 100% da Federico
Romero - che l'Europa sottovaluti il rischio terorismo, che sia imbelle,
impotente, incapace d'intervenire a casa propria, come avrebbe dimostrato la
crisi nei Balcani: l'Europa vuole la sicurezza senza pagarne le spese nel budget
militare. Giusto che gli Stati uniti assicurino le truppe d'assalto e l'Europa
l'intendenza e il personale di servizio.
Gli europei dal canto loro hanno una visione degli Usa come di un bullo
planetario che ostenta a ogni piè sospinto i propri quadricipiti nucleari e i
polpacci supersonici. Il pericolo di questa visione è che gli europei siano
contagiati dalla malattia che affligge gli americani: un'errata percezione di sé
(per gli individui la distanza fra come ti vedi tu e come ti vedono gli altri è
una buona misura della tua follia). Gli Stati uniti si vedono infatti come nice
guys («brava gente») e non capiscono come gli altri non li amino.
L'arroganza Usa sta spingendo gli europei nella stessa direzione: ad avere un
immagine troppo buona di sé, continente garante dello stato sociale, del
compromesso pubblico-privato, della soluzione pacifica dei conflitti. Ma se vai
in giro per il mondo, non è che gli europei siano amati molto più degli
americani. Vai a chiedere in Somalia se gli italiani sono nice guys, o in
Costa d'Avorio i francesi sono des mecs bien!
Vi è però almeno un involontario effetto positivo della dottrina Bush, ed è
che sta rafforzando l'unità franco-tedesca. Se infatti oggi francesi e tedeschi
non stanno più combattendo per la seicentesima volta per un fazzoletto di terra
ghiacciata sul Reno, è solo grazie agli Stati uniti. Solo di fronte a questo
gorilla da una tonnellata, francesi e tedeschi, da semplici umani di 80 chili,
hanno capito che da soli non saranno mai di taglia sufficiente (ne font pas
le pois). Senza la spaventosa pressione Usa, non avrebbero potuto essere
superati odi e pregiudizi millenari tra boches e «mangiatori di rane».
Paradossalmente perciò, l'unilateralismo Usa costituisce da questo punto di
vista la spinta propulsiva più forte per un'Europa unita, anche se c'è la
quinta colonna di Tony Blair e Silvio Berlusconi.
da
"il manifesto" del 28.1.2003