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GIULIETTO CHIESA
«Negli Stati uniti non c'è
la censura. E' ancora possibile trovare punti di vista differenti. Ma c'è un
sistema in cui i media principali hanno potenti incentivi a presentare le
notizie in modo da compiacere al partito al potere, e non hanno alcun incentivo
a non farlo». Lo scriveva Paul Krugman, su International Herald Tribune,
il 14 maggio scorso. Lo scrive da tempo, insieme a un manipolo di coraggiosi
giornalisti americani, come William Pfaff, o Nicholas Kristof, anticipando di
qualche mese il disastro giornalistico del New York Times, che
probabilmente emerge solo perché il più famoso giornale del mondo è stato
troppo tiepido verso la guerra contro l'Iraq. Non che fosse pacifista,
intendiamoci. Solo tiepido. Ma basta questo, oggi, negli Stati uniti, per andare
all'indice. Con ciò confermando la supposizione che il caso italiano, dove
l'informazione è ormai diventata una burla nazionale, è soltanto la caricatura
di un mostro: quello dell'informazione-comunicazione mondiale, ormai dominata da
un pugno di giganti, come America on line Time Warner, che è riuscito a
far conoscere al 95% degli americani - che per due terzi abbondanti non sanno
niente dei candidati alla presidenza degli Stati uniti - quasi tutto sul suo
nuovo film Matrix Reloaded.
Il fatto è - per restare all'informazione - che bisognerebbe spiegare a molti
autorevoli commentatori nostrani (quelli che, sulla scia di Franco Cordero,
definiremmo con una punta di eufemismo, «voci neutrali»), che il principio
garantista della presunzione d'innocenza va applicato all'imputato, sempre, ma
non va mai applicato al potere. Il quale, fino a prova contraria, è sempre
colpevole, o come minimo suscettibile di sospetto.
E' importante sottolineare questo dettaglio, perché se giornalisti e
commentatori non fossero così corrivi alla menzogna del potere, milioni di
lettori e telespettatori non sarebbero così menati per il naso come è accaduto
nel caso della guerra americana contro l'Iraq. E si dovrebbe ormai capire che,
se non si riesce a invertire questo corso, allora la diagnosi finale di Krugman
(nel suo più recente articolo sul New York Times), che parla
della più importante democrazia del mondo come di «un sistema politico
totalmente e forse irrevocabilmente corrotto», ci pone di fronte alla necessità
di ridefinire parecchie coordinate di giudizio sugli Stati uniti attuali. Quegli
stessi che approvano norme - nella più generale distrazione - destinate ad
accentuare ancora i processi di concentrazione mediatica in un numero sempre più
ristretto di mani.
Il fatto è che basterebbe poco per fare decentemente il mestiere di informare
la gente. Si può essere imperiali, cioè, senza diventare per questo
necessariamente stupidi. E nemmeno eccessivamente, sconsolatamente bugiardi. Si
possono sostenere le ragioni dell'Imperatore senza, per questo, ridursi alla
posizione di vassalli.
Thomas Friedman è la prova regina di questa affermazione. E' un repubblicano
confesso, conservatore, rivoluzionario come lo sono, per loro stessa ammissione,
i «neocons» che hanno preso il potere negli Stati uniti, ma ciò non
gl'impedisce di riferire delle verità.
Si tratta qui dello scandalo (come altrimenti chiamarlo?) esploso a Washington e
Londra a proposito delle ormai famose «armi di distruzione di massa» (Wmd) di
Saddam Hussein.
Non risultano nell'inventario del bottino, e la cosa preoccupa perché furono
indicate come la causa che giustificava la guerra contro l'Iraq. La logica
costringe a concludere che Bush e Blair mentirono per la gola. La linea
difensiva di questi signori è di scaricare sui servizi segreti la responsabilità
della truffa, ma ci sono ormai ammissioni a sufficienza degli stessi
responsabili per concludere che furono i governi in questione a «forzare»,
manipolare e invertire i dati. In ogni caso, non importa chi ha mentito, tutti i
giornalisti che hanno bevuto la favola dovrebbero farsi una pubblica
autocritica. Inutile aspettare, non verrà. Ma non è questo il punto
importante. In realtà le cose si complicano in vista della prossima guerra che
Bush sta già organizzando. Come, infatti ripetere la favola irachena quando si
dovrà convincere il mondo che bisogna andare in guerra contro l'Iran?
Ecco perché è utile tornare a Thomas Friedman. Così capiamo meglio come
funziona la cucina. Magari servirà a qualcuno dei professori di scienza della
comunicazione di certe facoltà italiane, dove ancora s'insegna la favola
dell'uva sul cosiddetto, defunto «quarto potere». Friedman (Herald Tribune,
5 giugno) ci spiega che la guerra irachena fu fatta per quattro motivi: quello
«reale», quello «giusto», quello «morale» e quello «dichiarato». Seppure
con qualche notazione a margine, è una rappresentazione esatta. Impressionante
per ciò che rivela, ma esatta.
Qual è stato il motivo «reale»? Sebbene «non sia mai stato dichiarato», era
«la necessità per l'America, dopo l'11 settembre, di colpire qualcuno nel
mondo arabo-musulmano. L'Afghanistan non era stato abbastanza». Vendetta
infinita.
Qual è stato il motivo «giusto»? Quello di «cooperare con gli iracheni, dopo
Saddam, per mettere in piedi un regime arabo progressista». Qui si vede che
l'argomento è piuttosto debole, e confuso. Ma su un punto Friedman è
convincente. Quando dice che «le vere armi di distruzione di massa [di Saddam, ndr]
sono il numero crescente di giovani arabi e musulmani arrabbiati, umiliati,
prodotto da stati arabi falliti o che stanno fallendo, e che odiano l'America più
di quanto amino la vita». La domanda da porre, a Friedman e alle nostre «voci
neutrali», è se siano ancora convinti che una guerra come quella farà
diminuire il numero di giovani musulmani arrabbiati e umiliati. Anche perché,
se così non fosse, definire «giusto» questo secondo motivo per la guerra
sarebbe, come minimo, strano.
Qual è stato il motivo «morale»? «Il regime di Saddam Hussein era una
macchina di distruzione di massa e di genocidio, e doveva essere fermato». In
effetti questo argomento fu usato, ma - aggiunge Friedman - «poiché il team di
Bush non osò mai tirare fuori il motivo `vero' della guerra», ecco che venne
fuori la necessità di «optare per un motivo ufficiale»: l'idea che Saddam
aveva armi di distruzione di massa che facevano pendere una minaccia immediata
sugli Stati uniti".
Così, con una menzogna plateale, Bush è andato in guerra, con Blair che gli
reggeva lo strascico fornendogli addirittura in dono due dossier di prove false.
Dagli amici mi guardi Iddio ...
Il resto è cronaca di penosi tentativi di rattoppare la situazione, che ci
confermano a quali livelli intellettuali è ridotta la leadership del pianeta.
«Cime abissali», direbbe Aleksandr Zinoviev. Rumsfeld comunica in un primo
tempo che le Wmd sono state trafugate segretamente in Siria. Poi annuncia di
sapere che sono state distrutte subito prima della guerra. Infine afferma con
sicurezza: ci sono sicuramente, le troveremo. Bush fa meglio di lui e, alla
televisione polacca comunica: «Abbiamo trovato le armi di distruzione di massa».
Solo che, qualche giorno dopo, Colin Powell - quello che ha citato all'Onu, come
prova, una tesi di laurea vecchia di dieci anni, che gli 007 di Sua Maestà
britannica hanno copiato da Internet, dimostrandone involontariamente l'assoluta
pericolosità - afferma di ritenere che «le armi le troveremo». Mentre Tony
Blair supera tutti nel rush finale della comicità: siamo stati troppo occupati
finora per poterle cercare.
Naturalmente c'è ancora chi, come William Safire, afferma che «una forte
maggioranza degli americani è convinta» che Saddam Hussein «aveva in
preparazione un pericoloso programma», mentre leggiamo (anche sui giornali
italiani) che la maggioranza degli americani crede che gl'iracheni fossero tra i
dirottatori dell'11 settembre. Vere entrambe le cose. Ma cosa provano? Sull'Iraq
non provano niente. Provano invece che i media americani sono molto potenti, e
non c'è una società civile in grado di reagire alla manipolazione. E provano
anche che i commentatori irresponsabili e bugiardi, in America e in Italia,
portano una grande, diretta, personale responsabilità per le guerre che sono
state fatte e per quelle che verranno.
da "il manifesto"
del 8.6.2003
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