Quelle
bandiere
GIULIETTO CHIESA
Non bisogna avere paura di dire l'avevamo
detto. Il movimento contro la guerra in Iraq è stato, in Italia, il più
possente e insieme il più diversificato. Ma tutte le motivazioni che l'hanno
fatto grande convergevano su alcune, fondamentali assunzioni: si trattava di una
guerra senza alcuna legittimazione; preventiva e quindi doppiamente illegale;
sbagliata perché pensata sull'ipotesi che fosse possibile esportare con la
forza valori e democrazia; inutile perché non avrebbe risolto alcun problema, a
cominciare dalla lotta contro il terrorismo; pericolosa perché avrebbe
aggravato quelli esistenti, in particolare moltiplicando i focolai di
terrorismo. Tutto ciò che era stato previsto si è, purtroppo, verificato. Ed
è tanto più triste constatarlo dopo che molti nostri soldati sono caduti in
combattimento. Poiché ciò dice che quei morti potevano essere risparmiati.
Adesso coloro che sono responsabili diretti di quelle nostre morti cercano
canagliescamente di nascondere le loro responsabilità sotto una coltre di
retorica patriottica. Occorre invece riflettere con il massimo di sangue freddo.
Riflettere significa aiutare la gente a non cadere nelle molteplici trappole che
molti media spargono a piene mani. La più insidiosa delle quali è la tesi
secondo cui tutto ciò che sta accadendo in Iraq, in queste ore, sia terrorismo
fondamentalista islamico importato dall'esterno, farina del sacco di Bin Laden.
A parte il fatto che sostenere questa tesi equivale a riconoscere che gli Usa
hanno commesso un errore irreparabile, moltiplicando il pericolo terrorista,
occorre dire a gran voce che essa è comunque falsa. Ridurre tutto a terrorismo
fondamentalista significa fasciarsi occhi e orecchie e illudersi che esso possa
essere domato con un incremento di forza militare.
In realtà è evidente la presenza - accanto, insieme, intrecciata con il
terrorismo - di una potente, diffusa resistenza popolare contro le truppe
d'occupazione. Questo significa che un aumento della repressione sarà, per un
tempo imprevedibile, accompagnato da un incremento della reazione, cioè da
altro sangue, altro terrorismo, altre morti, irachene e straniere. Sbagliare la
valutazione significa sacrificare inutilmente altre vite.
Ritirarsi è dunque obbligatorio, anche perché il vuoto pauroso creato dalla
dissennata guerra statunitense non sarà certo colmato dalla presenza italiana.
Perfino il Giappone - che aveva promesso truppe - è tornato sulla sua
decisione. La Corea del sud riduce il contingente. L'India rifiuta, la Turchia
rifiuta. Russia, Germania e Francia restano fuori. Tutti vili?
In realtà tutti più o meno consapevoli che bisogna cambiare rotta, subito,
senza porre tempo in mezzo. Questo barlume di resipiscenza sta emergendo perfino
a Washington. Forse per ragioni elettorali, ma potremmo presto trovarci di
fronte a una abbandono anticipato del campo da parte perfino degli Stati uniti.
Anticipato significa ancor prima che una qualsiasi soluzione di autogoverno
iracheno sia stata messa in piedi.
S'impone una iniziativa politica che sia, in primo luogo, un messaggio positivo
al popolo iracheno stremato dalla dittatura, dall'embargo e dalla guerra, le cui
coordinate sono visibili fin d'ora e che dovrebbero essere subito sperimentate:
consegna alle Nazioni unite della responsabilità politica; ritiro annunciato da
subito e gradualmente eseguito di tutte le truppe di occupazione; loro
sostituzione graduale con le truppe di paesi che non hanno preso parte
all'aggressione militare anglo-americana; progressivo inserimento di forze
militari e di polizia dei paesi arabi e musulmani.
Difficile? Difficilissimo. Se qualcuno ha soluzioni politiche più facili le
esponga.
Il movimento contro la guerra faccia sentire la sua voce. L'emozione e il
dolore, insieme alla campagna mediatica, insieme alle incertezze di
un'opposizione senza bussola, hanno modificato in senso negativo - inutile
nasconderselo - il panorama dell'opinione pubblica italiana. I sondaggi, pur da
prendere con le pinze, indicano un paese spaccato in due, dilaniato tra
l'ipotesi del ritiro e quella del proseguimento, senza destino e prospettiva, di
una presenza italiana in Iraq. Il governo - cieco come prima - dichiara di voler
procedere peggio di prima.
Prima che la guerra cominciasse, poi a guerra iniziata, abbiamo riempito il
paese di bandiere di pace. Molte sono rimaste - e giustamente - appese a
dimostrare che fu giusto metterle, perché la guerra non era affatto finita. Chi
le ha lasciate aveva ragione. Le lasci, anche se i loro colori si sono
stemperati. Chi le ha ritirate le riesponga. Chi non le aveva ancora messe le
tiri fuori. E' un messaggio visivo potente, razionale, solidale, democratico.
Moltiplichiamolo, nell'interesse della ragione e della pace.
"il manifesto" 15.11.2003