La terra trema
Con la guerra afghana, Bush ha saziato la
sete di vendetta degli americani e allargato a dismisura l'influenza degli Usa
in Asia. Il prezzo è stato il grande ritorno in campo della Russia
GIULIETTO CHIESA
" They have done a good job". Un amico americano,
sicuramente liberal, riassumeva così la situazione bellica in
Afghanistan dopo il definitivo massacro dei taliban e di Al Qaeda.
"Loro" erano e sono il team di George W. Bush, primo Imperatore
del XXI secolo. E unico. In effetti alcuni obiettivi, anche se non tutti,
sono stati raggiunti. E cercherò qui di spiegare in cosa consistono. Tra
questi, tuttavia, non c'è la vittoria contro il terrorismo internazionale.
Del resto essa non poteva esserci poiché la guerra, iniziata il 7 ottobre 2001,
non può concludersi così in fretta. Altrimenti verrebbero contraddette le
previsioni del vice-imperatore Dick Cheney, secondo cui essa durerà ben oltre
l'aspettativa di vita della presente generazione.
Il primo obiettivo raggiunto è la vendetta. Il numero dei taliban e degli arabi
annientato è e rimarrà sconosciuto ma, mettendo insieme tutte le notizie
ufficiose provenienti dal campo dei vincitori (altre notizie non abbiamo,
essendo quelle del nemico, per definizione, false), possiamo calcolare che
almeno 20.000 uomini siano stati uccisi nei bombardamenti, nei combattimenti,
nelle stragi che hanno accompagnato la vittoria, nei massacri di prigionieri
(non si fanno prigionieri in questa guerra). Un rapporto di cinque contro uno,
se si assume che il numero dei morti nell'attacco dell'11 settembre si aggiri
attorno ai 4000. Un rapporto certo inferiore a quello delle rappresaglie naziste
della seconda guerra mondiale, ma comunque tale da soddisfare i requisiti della
proclamazione di guerra ("la nostra causa è giusta, la nostra causa è
necessaria", ha detto George Bush) e l'ira del consumatore americano.
Per quanto concerne le vittime civili, esse - com'è noto - non erano un
obiettivo e sono, per definizione, collaterali. Come tali esse non sono
state né fornite, né indagate, e dunque non le conosceremo mai. Anche perché,
quando qualcuno comincerà a contarle, l'Afghanistan sarà già sparito dalle
prime pagine dei giornali e dei notiziari televisivi, e dunque non varrà la
pena occuparsene.
Il secondo obiettivo raggiunto è la profonda modificazione delle linee di
demarcazione dell'influenza degli Stati uniti in tutta l'Asia, particolarmente
nell'Asia Centrale. Al termine della guerra afghana gli Stati uniti si sono
assicurati il controllo diretto di almeno quattro delle repubbliche ex
sovietiche collocate tra il Medio Oriente e l'area del Mar Caspio. Per la
precisione la dipendenza di Georgia e Azerbaijan - entrambe guidati da ex membri
del Politburò del Pcus - era già un dato di fatto prima dell'inizio della
guerra afghana. Ma ora essa è sancita poco meno che ufficialmente e, comunque,
ben nota a tutte le cancellerie diplomatiche. In altre epoche sarebbe stato
detto che la Georgia di Eduard Shevardnadze e l'Azerbaijan di Geidar Aliev erano
diventate due colonie degli Stati uniti, ma ora si usano espressioni più soft.
Si aggiungono ora al bottino di guerra l'Uzbekistan di Islam Karimov e il
Turkmenistan di Saparmurad Nijazov. Nel primo di questi due stati gli Usa hanno
installato una base militare permanente. Del secondo nulla si sa con precisione,
anche perché Ashkhabad, la capitale, è impenetrabile agli stranieri, in
particolare ai giornalisti. Tuttavia buone fonti (russe) affermano che
Turkmenbashì (il padre di tutti i turkmeni, come Nijazov ama farsi chiamare)
avrebbe consegnato in mani americane l'aeroporto ex strategico - fu strategico
per i sovietici nel corso della loro guerra afghana - di Mary, e forse anche
quello di Charzhou. Naturalmente Nijazov si è anche dichiarato disponibile ad
ospitare i terminali dei futuri oleodotti e gasdotti per il trasporto
dell'energia dall'area del Caspio al Golfo Persico. Progetto che, come vedremo
meglio più avanti, risale alla metà degli anni '90 ed è strettamente connesso
alla nascita del regime dei taliban.
In poco meno di tre mesi l'amministrazione Bush ha disegnato una Yalta
asiatica, rimodellando a suo vantaggio tutti i rapporti geo-politici
continentali. La nuova superguerra contro il terrorismo internazionale
sta pagando ottimi dividendi. E tutto lascia intravvedere che anche le fasi
future della superguerra saranno accompagnate da analoghe modificazioni
geo-politiche in altre aree del pianeta. Ciò varrà per l'area della Palestina,
dove Israele ha cominciato, con l'appoggio di Washington, la guerra per la
liquidazione dello stato palestinese, avendo in vista il rilancio del progetto
di un grande stato ebraico. La liquidazione di Arafat è la via per questo
disegno, che chiuderà ogni via per un negoziato. Ciò varrà per l'Iraq, dove
la fine di Saddam Hussein porterà all'instaurazione di un protettorato
statunitense e all'installazione di basi americane, analogamente a quanto fu
fatto con l'Arabia Saudita dopo la guerra del Golfo del 1991.
Altrettanto vasti rimodellamenti di influenze a vantaggio degli Usa
accompagneranno le previste guerre in Somalia e Sudan. Tutto lascia pensare che
la nuova guerra asimmetrica e planetaria non si limiterà allo sterminio
sistematico delle tentacolari propaggini della piovra di Al Qaeda. A Washington
sanno che ciò non basterà a eliminare il pericolo, anche nell'ipotesi di un
successo totale delle operazioni di polizia. Infatti la tensione sociale nel
pianeta - già dilatatasi spasmodicamente nell'ultimo ventennio - è destinata
anch'essa a crescere di pari passo con il rilancio (in chiave keynesiana e
militare) della globalizzazione americana. E dunque si pone fin d'ora il
problema della moltiplicazione di basi e presidi permanenti degli Stati uniti in
tutte le aree del pianeta in cui sarà possibile prevedere il risorgere della
minaccia agl'interessi economici e politici americani.
Ciò detto occorre tuttavia dare un'occhiata al rovescio della medaglia del
"good job". La Grande Yalta asiatica implica l'esistenza di una
partner-avversario cui concedere parte del bottino. Questo partner-avversario è
la Russia. Che è rientrata in gioco dopo il lungo limbo decennale in cui la sua
debolezza oggettiva (e l'assoluta subalternità di Eltsin agli interessi
americani) l'avevano relegata. Paradossalmente è stato proprio l'Imperatore a
richiamare la Russia nel grande gioco. Per ragioni di necessità, costretto a
pagare un prezzo che potrebbe rivelarsi perfino più salato di quanto appaia
oggi. Occorreva la Russia, la sua solidarietà, per mostrare al mondo la Grande
Alleanza contro il terrorismo internazionale. L'esistenza stessa di una Grande
Alleanza forniva infatti la prova apparentemente inconfutabile della
legittimità morale della guerra afghana. Per ottenere l'appoggio di Mosca
l'amministrazione Usa non ha lesinato sforzi e impegni, come dimostra la
frequenza febbrile dei contatti, viaggi in Russia, missioni diplomatiche,
concessioni di vario genere, dispiegate dal poker d'assi
Bush-Cheney-Rumsfeld-Powell.
Vladimir Putin ha assecondato molto abilmente questo abbraccio multiplo
offertogli da Washington. Lo ha perfino anticipato offrendo, per primo,
addirittura più tempestivo di alcuni alleati occidentali, condoglianze e
solidarietà dopo la tragedia dell'11 settembre. Da quel momento si è avuta
l'impressione di una totale sintonia tra Mosca e Washington. Impressione che è
stata accresciuta da un impegno davvero totale, spasmodico, ossessivo, unanime
(al punto da far sospettare un ordine di scuderia) di tutta l'informazione
occidentale nel confermare quella sintonia.
In realtà abbiamo assistito all'inizio di una serrata (e a tratti molto rude)
trattativa tra Stati uniti e Russia per ridefinire i loro reciproci rapporti e
per ridisegnare - appunto - la carta asiatica alla luce cruda dell'11 settembre.
Il presidente russo ha trattato con grande maestria, specie se si tiene conto
che le carte che aveva in mano non erano né molte, né decisive. Il primo a
sapere che la Russia è debole, è proprio lui. Così Vladimir Putin ha giocato
a carte scoperte, mettendo sul tavolo del ranch texano di Bush, tutto intero, il
quadro del contenzioso tra Russia e Stati uniti. Si è dunque negoziato su molte
questioni contemporaneamente. Ci si è lasciati con una stretta di mano perché
ciascuno dei due ha ritenuto (o ha finto di ritenere) di avere conquistato
qualche vantaggio. Putin ha subito ottenuto la fine di ogni ingerenza esterna
sulla Cecenia. Cioè sia la fine dell'aiuto ai ribelli ceceni, fino a ieri
abbondantemente fornito, attraverso la Georgia e l'Azerbaijan, dai servizi
segreti turchi con la benedizione della Cia, sia la fine delle periodiche
lamentele occidentali in tema di violazione dei diritti umani in Cecenia. D'ora
in poi, e per qualche tempo, il silenzio dell'Occidente è garantito.
Putin, dal canto suo, ha inghiottito la perdita delle due repubbliche ex
sovietiche di Uzbekistan e Turkmenistan, dopo aver dovuto subire, senza poter
fare quasi nulla, quella di Georgia e Azerbaijan. Ma ha ottenuto, in cambio,
l'assicurazione che l'area d'influenza russa su Armenia, Kazakhistan, Kirgizia,
Tajikistan sono sarà minacciata nell'immediato futuro. La Russia compie una
cospicua ritirata strategica da una parte dell'Asia Centrale, riconoscendo
implicitamente la rivendicazione americana sull'area, già proclamata da Clinton
come "area d'interesse vitale per gli Stati uniti d'America". E'
probabile che Mosca consideri questa ritirata come temporanea, o tattica, ma
essa, per quanto dolorosa, rappresenta un riconoscimento dei rapporti di forza
reali.
Tanto più ferma, di conseguenza, è stata la posizione di Putin in tema di
regolamento politico della situazione afghana dopo la definitiva liquidazione
del regime talibano. Non era certo sfuggita a Mosca la lunga operazione
pakistano-saudita-statunitense il cui obiettivo avrebbe dovuto essere la
creazione di una serie di oleodotti e gasdotti in grado di portare le immense
risorse energetiche del Mar Caspio agli utilizzatori occidentali attraverso
l'Afghanistan.
L'operazione, iniziata nei primi anni '90, aveva visto, come protagoniste, due
importanti compagnie petrolifere, la Unocal Corp. (americana) e la Delta Oil (di
proprietà del sovrano saudita). Entrambe avevano soppiantato la minuscola
compagnia petrolifera argentina Bridas nei rapporti con il satrapo turkmeno
Saparmurad Nijazov (che avrebbe dovuto assicurare il terminale nord di oleodotti
e gasdotti) e con i mujaheddin afghani (che si pensava di poter mettere
d'accordo in cambio di molto denaro), che avrebbero dovuto smettere di
combattersi, garantire un futuro relativamente tranquillo all'Afghanistan e
consentire il passaggio degli oleodotti verso il sud, verso il Golfo Persico.
Operazione strategica a doppia valenza: economica e politica. Da un lato avrebbe
consentito una soluzione molto economica per il movimento di ingenti quantità
di energia verso le grandi economie occidentali. Dall'altro avrebbe permesso di
bypassare la Russia, sottraendole al tempo stesso principesche royalties
e l'influenza sull'intera area centro-asiatica. Quest'ultimo aspetto era in
stretta connessione con il progetto strategico (sostenuto da influenti circoli
di Washington) di indebolire ulteriormente la Russia fino a un suo completo
collasso, la sua trasformazione in "confederazione debole", infine la
suddivisione in tre stati (Russia europea, senza il Caucaso del Nord, Siberia
Occidentale e Estremo Oriente). Il progetto fallì per l'impossibilità di
mettere d'accordo le fazioni afghane. Al suo posto venne deciso di
"pacificare" l'Afghanistan mediante un nuovo regime, costruito
artificialmente dall'esterno. Il movimento dei Taleban era nato così, tra il
1994 e il 1995, mediante il finanziamento saudita delle madrassas (scuole
coraniche) e il massiccio intervento dei servizi segreti pakistani, che
fornirono istruzione, comandi, intelligence per la guerra contro i mujaheddin.
Decine di migliaia di studenti coranici vennero così formati a una nuova Jihad,
addestrati, armati e trasportati in Afghanistan dai campi profughi della
North-West Frontier. In meno di due anni, con armi e fiumi di dollari, i Taleban
del mullah Omar conquistarono o comprarono quasi tutti i comandanti militari ex
mujaheddin, costrinsero gli altri alla fuga, e s'impadronirono del 90% del
territorio del paese. Era il 1996 quando arrivarono a Kabul. Ma la Russia non
era rimasta con le mani in mano. I militari e i servizi segreti russi avevano
riempito il vuoto politico del presidente Eltsin. Resisi conto che l'operazione
taliban era diretta a colpire a fondo gl'interessi russi, avevano cominciato
a sostenere e armare l'unico antagonista afghano rimasto sul terreno a
contrastare la travolgente avanzata dei taliban: il tagiko Ahmad Shah Massud,
trincerato nella fortezza naturale della Valle del Panshir.
Il fallimento dell'operazione taliban era stato figlio della
spregiudicatezza di Mosca, pronta a sostenere colui che era stato il suo
acerrimo nemico durante gli anni dell'intervento sovietico in Afghanistan. Ma
ora Vladimir Putin aveva le sue rimostranze da fare a George Bush. E una
proposta: vi diamo l'appoggio politico necessario per liquidare i taliban, che
nel frattempo sono divenuti pericolosi anche per voi. Ma a condizione che il
futuro governo dell'Afghanistan sia concordato con noi. E a un'altra condizione:
che il futuro uso delle risorse strategiche del Caspio sia gestito assieme alla
Russia e non contro la Russia.
Alla luce degli eventi successivi sembra di poter dire che l'accordo raggiunto
nel ranch del Texas, tra Bush e Putin, non fu né chiaro, né completo. Gli Usa
devono soddisfare le esigenze del generale Musharraf, pericolante e infido,
mentre la Russia ha tutto l'interesse a sostenere fino in fondo le richieste dei
tagiki eredi di Massud. E tra tagiki e Islamabad non c'è pacificazione
possibile, poiché l'assassinio di Massud è opera di Osama bin Laden non meno
che dell'Inter Service Intelligence pakistana. Si spiega così perché i tagiki
sono entrati a Kabul per primi, contro l'avvertimento di Bush, impadronendosi di
fatto del potere, certo d'accordo con Mosca, senza aspettare il via libera
americano. E si spiega così anche l'arrivo a Kabul, di nuovo per primi, del
contingente russo: secondo il proverbio "fidarsi è bene, non fidarsi è
meglio". Che nella versione russa suona: "abbi fiducia, ma prima
verifica" (doveriaj, no proveriaj).
Ciò che succederà, a Kabul e dintorni, nei prossimi mesi, dovrà essere letto
in questa chiave, se si vorrà capire qualcosa. Putin non è disposto a regalare
l'Afghanistan all'America. Né è disposto a lasciare che Washington decida da
sola sul futuro dell'Asia Centrale e su quello delle risorse energetiche ivi
contenute. E' vero che Mosca è relativamente debole, che non è più potenza
globale. Ma è anche vero che nell'area in questione - il suo "cortile di
casa" - Mosca è ancora molto forte, temibile, in grado d'influenzare molte
situazioni. Ad esempio la tenuta di regimi come quello di Tashkent e quello di
Ashkhabad può essere messa rapidamente a repentaglio se la Russia scoprisse di
essere stata ingannata o colpita nei propri interessi. A Mosca non c'è più
Eltsin, manutengolo degl'interessi occidentali. Putin, convinto assertore del
capitalismo in Russia, è anche un altrettanto convinto fautore degli interessi
nazionali russi. E, se non fosse sufficientemente convinto, dovrebbe fare i
conti con quei settori dell'establishment russo che premono perché essi vengano
difesi.
Sotto questa prospettiva occorre esaminare anche gli altri due temi che sono
stati al centro dell'incontro di novembre nel ranch del Texas. Su entrambi non
c'è stato accordo. Su uno si è registrata una modesta convergenza, sull'altro
si è registrata una completa divergenza. Si tratta, rispettivamente,
dell'allargamento a est della Nato, e del trattato Abm del 1972. Colin Powell -
ma Donald Rumsfeld è di altro avviso - è disposto a concedere molto a una
Russia che conceda molto. Per esempio anche un avvicinamento della Russia alla
Nato, che le consenta di entrare in un organismo congiunto, da inventare ad
hoc, in cui alla Russia sia perfino concesso qualche diritto in materia di
decisioni collettive. Putin ha mostrato di essere interessato a una tale
eventualità, riservandosi di decidere quando le cose si faranno più chiare e,
soprattutto, quando a Washington si sarà deciso cosa s'intende regalare alla
Russia. Niente di più.
Del resto Putin sa perfettamente che l'allargamento verso est dei confini della
Nato sarà deciso indipendentemente dalla Russia e, quindi, sa che il proprio
spazio di manovra è segnato dai rapporti di forza concreti, che sono a suo
svantaggio. Per questo non strilla, non si agita, non dà in escandescenze (come
amava fare Eltsin) quando lo si chiude in angolo: aspetta il momento in cui potrà
far valere la sua forza. D'altro canto la vicenda afghana, cioè l'inizio della guerra
infinita, sembra dire che Washington non ha più molto bisogno della Nato.
Ha deciso di fare da sola, al più con l'aiuto dell'Inghilterra. Pensa di potere
e di dovere farcela da sola, senza impacci, senza remore. La Nato avrà, sempre
di più, un valore politico diplomatico. In quel tipo di Nato la Russia potrebbe
anche essere ammessa. Entrarvi, per Putin, equivarrebbe a una soddisfazione
simbolica. Anche questo ha capito.
L'unica cosa, non da poco, che Putin ha ottenuto in Europa, è stata una tregua
dell'offensiva americana contro la Bielorussia di Lukashenko. Washington aveva -
ed ha - come obiettivo di rovesciare il presidente bielorusso. Ma dovrà ora
dilazionare questo obiettivo per non creare altri problemi con Mosca. Minsk può
aspettare. Il "modello Belgrado", della sovversione finanziata
dall'esterno, delle minacce-promesse in cambio del rovesciamento del leader
nazionale di turno, usato con successo contro Milosevic, per ora non si ripeterà.
La completa divergenza c'è stata soltanto in materia di "scudo
stellare". Qui Bush non poteva concedere nulla. La filosofia
"unilaterale" di Cheney, Rumsfeld, Rice non ammette deroghe, con o
senza il terrorismo internazionale. L'America è l'unica superpotenza rimasta.
Come tale non si sente più tenuta a negoziare con chicchessia. Al
massimo, quando lo riterrà opportuno, potrà comunicare agli altri le
sue decisioni sovrane. A questo si deve solo aggiungere che lo "scudo
stellare" (cioé la militarizzazione dello spazio) diventa ora essenziale
per il dominio globale del pianeta. E che i 100 miliardi di dollari necessari
per realizzarlo saranno anche un utile strumento "keynesiano" per
rimettere in moto la disastrata new economy.
Come ha scritto il Financial Times pochi giorni dopo la tragedia delle
Twin Towers, "tutti ormai dobbiamo essere di nuovo keynesiani". Anche
a questo proposito Vladimir Putin non ha alzato la voce quando da Washington gli
è stato comunicato, con i regolamentari sei mesi di anticipo, che gli Stati
uniti si apprestavano a uscire dal trattato. Ha fatto rispondere dal suo
ministro della difesa, laconicamente, che la Russia comincerà a installare sui
suoi missili Topol non più una, ma dieci testate nucleari. La Duma ha
annunciato che la messa in esecuzione degl'impegni del trattato Start-2 sarà
sospesa e, nel frattempo, la Russia ha varato il sommergibile nucleare Ghepard:
una nuova generazione capace di gareggiare con il meglio della tecnologia
americana.
Detto in termini più concisi, è cominciata una nuova corsa al riarmo mondiale.
Perché è del tutto evidente che la Cina sta accelerando il proprio sviluppo
tecnologico-militare, poiché sa di essere stata già eletta a nemico
principale quando l'attuale "clash of civilizations" contro il
mondo islamico sarà terminato. Dov'è la "Grande Alleanza" contro il
terrorismo internazionale, che fu sbandierata all'inizio della guerra, per
giustificare la sua "inevitabilità" e la sua "legittimità"?
Semplicemente non c'è mai stata.
Questo articolo è stato scritto per "il manifesto" e per "The
New leader".
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