I
FUNZIONARI DI DIO
Psicoanalisi
dell’organizzazione clericale
di
Eugen Drewermann
L’opera di E.
Drewermann, recentemente pubblicata in Italia dalla Edition raetia di Bolzano
con il titolo "Funzionari di Dio", non è solo una vera pietra miliare
della ricerca teologica e psicoanalitica, ma è anche un’occasione per
riflettere sulla fede cristiana e sul modo con cui essa si è andata
strutturando nei secoli attraverso una peculiare organizzazione. Data la
complessità del lavoro ci limiteremo a illuminare alcuni passaggi fondamentali
della ricerca di D. (Drewermann).
Ben consapevole
della difficoltà di sottoporre ad analisi un’organizzazione bimillenaria che
coinvolge milioni di persone, D. non poteva eludere il problema metodologico che
si presenta complesso soprattutto quando si mira a comprendere le correlazioni e
le dinamiche dell’inconscio collettivo. La soluzione adottata dallo
psicoanalista-teologo tedesco ci è parsa convincente in quanto egli ha cercato
di collegare tra di loro, ed in modo coerente, una molteplicità di fonti e
precisamente: i risultati di psicoterapie e consulenze attuate dallo stesso D.
su ecclesiastici e religiose; i documenti ufficiali della gerarchia e degli
ordini religiosi; i testi della riflessione teologica; le opere della
letteratura e del cinema, nonché le interviste e le notizie connesse con la
vita clericale.
Lo scopo della
ricerca è stata quella di individuare le falle patologiche
dell’organizzazione clericale, non le deficienze dei singoli. In tal senso si
potrebbe dire che l’approccio di D. è più psico-socioanalitico dal momento
che il suo interesse primario è comprendere l’insieme, non le parti. E la
ragione di tale scelta sta proprio nel fatto che lui ha a cuore la salute del
chierico, la sua realizzazione personale, la sua felicità, ma per raggiungere
tale obiettivo è fondamentale e prioritario individuare quelle dinamiche
istituzionali che mutilano l’uomo-chierico.
Tutta la ricerca è
attraversata dalla passione per la pienezza della vita. L’obiettivo dichiarato
è quello di contribuire a generare una nuova personalità di chierico, aperto
ad una sconfinata fiducia in Dio, capace di comunicare in modo umano, pronto a
disfarsi di retaggi ideologici proprio come faceva Gesù che, nella sua infinita
libertà di spirito, viveva una intensa alleanza con la natura.
LEGAME CON LA
NATURA
Secondo Drewermann
la religione attraverso i suoi interpreti ufficiali dovrebbe mostrare come la
fede pervasa da una mistica profetica possa contribuire a ristabilire il legame
tra l’uomo e la natura che lo sostiene e lo circonda. Come i Maya si
aspettavano dal sacerdote una persona che abbracciasse l’universo da levante a
ponente, così il mondo si attende dai chierici e dai cristiani un segno
concreto che è possibile congiungere tutto, da est a ovest, tra il sopra e il
sotto, tra il dentro e il fuori, in modo da non escludere più nulla dalla
propria persona.. E’ qui che diventa perentorio il richiamo a Gesù, archetipo
del sacerdote che concilia gli opposti, ma non per via di dettami
ideologico-istituzionali bensì in virtù di una forza interiore capace di
modellare una personalità. D. annota:
"Per dirla
in modo paradossale: gli sforzi della Chiesa dovrebbero essere tesi non già a
formare dei sacerdoti ma a promuovere nel modo più intenso possibile
l’elemento sacerdotale che i giovani portano dentro di sé (E. Drewermann, Funzionari di Dio,
ed. Raetia 1995)."
La natura diventa.
il luogo autoctono dell’esperienza di Dio e la croce del Cristo non può
più essere utilizzata per dichiarare come peccaminosa la natura o per reprimere
le dinamiche istintuali dell’uomo.
L’INTEGRAZIONE
DEL SOGGETTO
Ritrovare in sé
tutta la creazione e la trascendenza per essere sacerdoti del creato e dell’increato
non è un’operazione che può essere fatta sulla base di regolamenti o di
ascesi eteronome, in una parola dall’esterno. E’ indispensabile un nuovo
atteggiamento che dischiuda, tanto per i chierici come per i laici, uno spazio
esperienziale in cui sia possibile vivere in modo profondo e personale i simboli
della salvezza e della redenzione.
Drewermann insiste
sul fatto che solo chi attraversa in prima persona l’angoscia e la
disperazione, i dubbi e l’oscurità può accedere all’esperienza reale e non
fittizia della fiducia e della rinascita. Non c’è solo una natura fatta di
volontà e ragione ma anche una vita inconscia con leggi diverse da quelle della
razionalità e che la cultura occidentale ha considerato incongiungibili: di qui
la scissione tra carne e spirito, tra intelligenza e passioni, tra sogni e realtà,
con la conseguente debolezza dell’ Io, incapace di integrare le parti scisse.
CONSIGLI EVANGELICI
D. considera la
pratica dei consigli evangelici (povertà, ubbidienza, castità) una vera
ricchezza antropologica a condizione che essi abbiano un effetto umanizzante e
salutare: un discorso su Dio sarebbe, infatti, in-credibile all’interno di un
sistema inumano ed eteronomo. I consigli evangelici sono segni efficaci di una
presenza redenta solo se sono interpretati in senso integrale e non
integralistico, in senso personale e non funzionale, come forme espressive e non
come doveri.
"Per questo
è fondamentale che nella vita dei chierici i consigli evangelici non vengano
interpretati a partire dal "servizio per la Chiesa , "dalla
testimonianza escatologica", dal "sacrificio del Cristo" o dalla
solidarietà con determinati gruppi: piuttosto bisogna scorgere in essi degli
atteggiamenti che hanno valore in se stessi."
LA POVERTA’
Il grande problema
della povertà ha visto schierata la chiesa cattolica su due interpretazioni:
una a favore della povertà materiale (S. Francesco), l’altra a favore della
povertà spirituale (papato). Secondo D. questa discussione non ha radici
bibliche perché per i profeti e per Gesù il problema è la ricchezza, non la
povertà. Non sono primordialmente sociali i motivi che inducono Gesù a mettere
in guardia contro la ricchezza.
"Questo
avvertimento nasce piuttosto dal suo rapporto con Dio: la ricchezza non deve
intromettersi tra Dio e l’uomo, non deve diventare per una persona ciò che
alla fine può essere soltanto Dio, vale a dire un’ultima sicurezza
dell’esserci contro l’angoscia."
L’antidoto alla
ricchezza non sta nella povertà materiale giacché essa può essere utilizzata
narcisisticamente come mezzo per sentirsi "buoni" e
"privilegiati" da Dio; non sta nemmeno nella povertà spirituale, in
nome della quale si è complici delle ingiustizie e si alimenta la fiducia nei
beni materiali. L’antidoto alla ricchezza sta nella consapevolezza che la
sicurezza di base non é garantita
se non dalla piena
fiducia in Dio, il quale sostiene tutto ed ognuno. Ma la fiducia basica non si
ottiene
con atti di volontà
o con un "voto": essa suppone un Io integrato, consapevole dei propri
limiti, spesso inerme e confuso, ma pur sempre pervaso dal sentimento
rassicurante di un Padre che ama incondizionatamente perché non possiede
niente, non domina su nessuno, dà tutto quello che ha.
"La vera
povertà non comincia con i meriti delle opere buone di rinuncia, ma con la
fiducia di avere il permesso incondizionato di essere."
L’OBBEDIENZA
Anche in questo
caso il modello di obbedienza è quello neotestamentario. Pietro, di fronte
all’autorità religiosa di appartenenza, afferma in modo perentorio e a
rischio della sua vita: "Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli
uomini" (At.5,29). Di fronte alle burocrazie religioso-amministrative, che
richiedono una obbedienza acritica perché si ritengono sacre e quindi divine,
Gesù protesta la sua autonomia critica e la sua fiducia nell’amore e nella
misericordia, non nella legge e nella routine. L’obbedienza di Gesù è dono
di libertà e non repressione, è redenzione dall’angosciae dalla colpa e non
uccisione della speranza. L’obbedienza non è, come spesso si crede,
sottomissione ma ascolto.
"Secondo i
dettami della psicoanalisi "obbedire" significa seguire le parole
dell’altro in maniera così coraggiosa e gentile, seria e serena, precisa e
paziente da essere disposto a comprenderlo più di quanto egli in quel momento
osi comprendere se stesso; significa percepire le figure, le esperienze e le
scene condensate presenti nelle e dietro le sue descrizioni, aiutarlo a prendere
coscienza dei contrasti e delle contraddizioni tra il suo pensiero e i suoi
sentimenti e, a volte, significa anche interpretare per lui il suo vissuto con
l’aiuto di immagini, che riflettono i suoi sogni che, in un certo senso li
anticipano."
L’ascolto
dell’altro suppone assenza di obiettivi, assenza di pianificazioni, assenza di
pregiudizi, condizioni indispensabili per percepire aspetti sconosciuti della
verità e del Dio incarnato nella realtà umana e non. Come nella preghiera, si
tratta di abbandonare ogni "fraintendimento materiale della religiosità",
per cui si smette di chiedere A o B a Dio, per imparare a trovarsi d’accordo
con la sensibilità di Dio.
LA CASTITA’
La castità,
secondo Pio X, sarebbe il "magnifico decoro dello stato clericale... Il suo
splendore rende il sacerdote simile agli angeli, gli assicura la stima dei
fedeli e conferisce al suo agire una benefica forza sovrannaturale." Questa
visione della castità, dice D., non è certamente biblica, anche perché sulla
questione del celibato dei preti o della castità dei laici non vigeva in tempi
precristiani la scissione che tormenta la Chiesa da circa due millenni e che
rende ambigua tale virtù, dal momento che ai laici viene imposta la castità,
mentre ai sacerdoti viene imposta una castità "particolare". Il tutto
fa presupporre che, in sostanza, la castità consisterebbe nell’assenza di
rapporti sessuali.
"Sarebbe
meglio se in futuro evitassimo semplicemente le espressioni "casto" e
"non casto" ovvero "impuro": invece di dire che un
comportamento o un atteggiamento è "impuro" sarebbe meglio dire che
è ingiurioso, rozzo, privo di riguardo, da macho, "umiliante",
prosaico, insensibile, meccanico, senza anima, senza fantasia, puramente
tecnico, che mira soltanto ad ottemperare al proprio dovere...Tutte queste
espressioni descrivono il comportamento concreto di due persone e parlano del
modo in cui sperimentano personalmente il loro rapporto. "Impuri" sono
in questo senso già i discorsi senza anima, "oggettivanti" e freddi
con cui la teologia morale cattolica continua ad affrontare le questioni
dell’amore e delle angustie del cuore."
Ma allora in che
cosa consisterebbe la castità? D. traduce la parola casto con immagini del
tipo:
"così
sensibile da chiamare l’anima, tenero come il soffio del vento sull’erba,
lieve come l’ala di una farfalla, caldo e profondo come le sorgenti di un
geyser, ampio come un fiume che si apre verso il mare, salutare e gradevole come
la pioggia leggera sulla terra arida, sognante come il luccichio delle stelle,
liberatore e forte come una tempesta dopo giorni di afa soffocante; in tutte
queste espressioni traspare l’esperienza di una poesia concreta. La castità,
intesa in questo senso comincia con la constatazione che non è possibile
parlare della relazione tra uomo e donna se non nella lingua dei poeti."
D’altronde la
castità è una condizione deontologicamente essenziale anche per chi non è
prete, né credente: si pensi all’esercizio della psicoterapia, dove si
instaura una relazione molto intima, emozionalmente vibrante e spesso
sconvolgente, intessuta di sentimenti amorosi e vitali per entrambi (paziente e
terapeuta), impregnata di una "benevolenza oggettiva" e di
"curiosità impegnata", ma dove è rigorosamente proibito
approfittarsi dell’altro, "agire" sentimenti. Proprio
nell’esercizio della psicoterapia si sperimenta quanto sia propedeutico,
almeno da parte del terapeuta, una castità di pensieri e di azioni, nel senso
che egli non cerca altro che il bene e la maturazione dell’interlocutore, nel
controllo rigoroso di quelle pulsioni di appropriazione che sono connaturali
alla condizione umana. Anzi egli è tenuto ad andare oltre la semplice
astensione sessuale: più importante è astenersi dal giudizio, da ogni
giudizio, che quasi sempre è un pre-giudizio: fare "due miglia" con
il paziente quando questi gli chiede di farne "uno".
"La
castita’ così intesa significa questo: intuire qual è l’essenza
dell’altro e riportarla in superficie con la stessa attenzione che distingue
un restauratore di quadri quando toglie i ritocchi operati da estranei e risana
gli effetti della corrosione del tempo per rendere nuovamente visibile l’opera
originaria; evidenziare le linee del carattere, in cui l’Io dell’altro
manifesta di più la sua bellezza; accogliere in se stesso il ritratto del suo
sorriso e l’espressione della sua tristezza così che queste immagini
dell’animo possano manifestare pienamente la verità della sua persona;
attirare l’anima dell’altro che è sepolta sotto montagne di macerie, fatte
di speranze distrutte, gesti nascosti, pensieri segreti, e farla ritornare alla
luce del sole; far sì che l’anima faccia fiorire le zone devastate, bruciate,
disseccate o gelate dall’angoscia e vi si senta a suo agio."
Nell’ottica di D.
la castità non è assenza di rapporti sessuali, dato che questi sono essenziali
in una coppia così come è indispensabile che i due partners abbiano bisogno
l’uno dell’altro: la castità è la massima realizzazione della coppia,
dell’Io e del Tu,
L’INSUFFICIENZA
DEI CHIERICI (e dei laici)
Di fronte ad ideali
così umani, ma anche così sovrumani, l’organizzazione clericale appare agli
occhi di molti sostanzialmente incoerente e non per ragioni attinenti la volontà
dei chierici, che anzi mostrano una straordinaria volontà nel permanere fedeli
a certi ideali al punto da entrare in conflitto con altre parti della personalità
diverse od opposte al piano volitivo. L’insufficienza del clero nasce, secondo
lo psicoanalista tedesco, dallo scontro tra due funzioni fondamentali della
personalità, e cioè tra il Super Io, che presiede alle norme, e l’Es, che
racchiude tutta la vita pulsionale e desiderativa, a detrimento dell’Io, cioè
di quella funzione mentale che garantisce l’equilibrio della personalità e
una razionalità critica ma anche empatica e permeata di sentimenti amorosi.
Nel confrontarsi
con le analisi provenienti dalla letteratura mondiale, da Boccaccio a
Dostoevskij, da Diderot a Sartre, da Kirkegaard a Freud, Drewermann nota che le
critiche rivolte al "chierico" non si riferiscono mai alla debolezza o
alla insufficienza del singolo, ma ad aspetti dell’intero apparato
ecclesiastico, compresa la sua teologia, di cui è contemporaneamente padre e
figlio, succubo ed autore.
Riassumendo tali
critiche D. non può fare a meno di stendere la seguente diagnosi
dell’apparato e dell’esistenza clericale:
"un
soffocante sistema coercitivo.... l’esteriorizzazione dell’interiorità
dell’elemento religioso....l’estraniazione del sentimento personale... la
fissazione morale della personalità attraverso un sistema di giuramenti di
fedeltà coattivi....la distruzione o la deformazione degli impulsi naturali...
la razionalizzazione di strutture inibitorie....l’inversione della finalità
dell’obiettivo e del risultato causata dalla scissione tra coscienza e
inconscio, tra volontà e motivazione..."
Dalla diagnosi alla
patogenesi il cammino è piuttosto complesso e complicato, ma D. non vi rinuncia
ben sapendo che la ricezione della sua analisi incontrerà consistenti
resistenze, quasi sempre frutto della squalifica dell’inconscio e della
idealizzazione della Grazia. Anche il chierico più evoluto, infatti, ritiene
che la "Grazia" é una Grazia di Dio mentre l’ inconscio è
una..."disgrazia" diabolica in perenne opposizione alla volontà di
Dio, che si esprime nella razionalità
E qui siamo a un
nodo fondamentale della patologia clericale, rappresentato dal conflitto
permanente e radicale tra l’Es (la vita pulsionale) e il Super Io (norme
esterne): dato che si tratta di una guerra tra Dio (Super Io) e Lucifero (l’Es)
la vicenda non può che concludersi con la vittoria di Dio (la norma-legge) e
con la sconfitta del Maligno (la vita pulsionale-desiderativa). In questa
battaglia non possono esserci le mediazioni dell’Io critico ed autonomo,
proprio perché la struttura psichica è dominata da una coppia (Super Io-Es) e
non è trinitarizzata: lo sarebbe se anche l’Io avesse diritto di esistere, ma
ciò è vietato dal magistero intollerante del Super Io.
IL CONFLITTO TRA IL
SUPER IO E L’ES
La verità è che
in questo conflitto binarizzante chi la fa da padrone è il Super Io a scapito
dell’Io e dell’Es. In sostanza l’organizzazione clericale scivola
inconsapevolmente da un sistema trinitario in cui dice di credere in uno
monoteistico, o più precisamente monistico, antitrinitario, antidialogale e
potenzialmente scismogeno. Non è un caso che il Super Io cattolico,
rappresentato dalla Gerarchia, si trovi sempre a giocare la parte di chi
giudica, condanna, scomunica e considera eretiche le chiese d’Oriente e quelle
Riformate, per non parlare dell’atteggiamento antidialogale e persecutorio
adottato nei confronti della scienza e della democrazia.
La caratteristica,
infatti, di un sistema mentale anti-trinitario è l’intolleranza, sia quella
verbale che quella agita attraverso la forza (crociate, Inquisizione, epurazioni
etnico-religiose, licenziamento brutale dei membri che contestino il Super Io,
ecc.). L’alternativa all’intolleranza è la rinuncia, dato che un sistema
binarizzato comporta un "aut-aut", non un "et-et". Esemplare
è l’evangelizzazione in Oriente: quando la Gerarchia si presenta, ad esempio,
in Cina pretende di imporre i propri riti, vestiti, linguaggi e filosofie, cose
assolutamente non necessarie per vivere la fede in Gesù. Di fronte
all’impossibilità di dominare quelle culture il sistema
gerarchico-ecclesiastico si ritira e rinuncia da millenni a qualsiasi
evangelizzazione e dialogo con l’Oriente. Lo stesso dicasi per quanto riguarda
i rapporti col mondo operaio, gli intellettuali, il femminismo o i giovani.
stante la premessa inconscia che non è possibile se non vincere o perdere, i
membri dell’organizzazione gerarchico-clericale, dato che non riescono a
sottomettere giovani, intellettuali e donne critiche, così come induisti,
taoisti, mussulmani, ecc. si vedono costretti a ritirarsi dal mondo. Si
accontentano di grandi celebrazioni, di parate o show in mondovisione, ma senza
dialogo, senza rapporti, senza sentimenti in comune. Come in ogni celebrazione
chi "vince" o chi "esiste" è il solo prete-papa. la folla,
il pubblico, gli oranti soccombono come "persone", cioè come soggetti
pensanti, come fonti di problemi e di soluzioni.
In un sinodo di
vescovi, come in una normale eucarestia, chi è tutto è uno solo: gli altri
sono semplici "zeri", che possono avere un valore solo se si accodano
all’"uno", cioè se rinunciano ad "essere". Tutto ciò
risponde ad una filosofia dicotomizzante che separa il "sopra" dal
"sotto", il "capo" dalla "massa", la "mente
dagli "effetti", la persona dalla "natura", Dio dall’uomo,
il conscio dall’inconscio.
D. annota che nel
racconto di Marco (1,12-13) l’indicazione è diversa. Gesù stava con le
"fiere" e gli angeli lo servivano, cioè egli era in grado di fare la
pace tra l’Io e la parte animale dell’Es, così come con le forze ideali e
angelicali del Super Io.
"In realtà
la Chiesa cattolica fa di tutto per disgregare il sistema dei passaggi cercando
di imporre invece un aut aut: bisogna scegliere un’attività remunerata oppure
la povertà, un’esistenza borghese oppure il monachesimo, il matrimonio oppure
il celibato."
Il conscio oppure
l’inconscio. D. nota che è proprio a livello di tale dicotomia che si
struttura il sistema clericale che privilegia la componente consapevole a
scapito di quella dell’inconscio, con due innegabili vantaggi:
"permette
delle valutazioni che sembrano sicurissime secondo principi ritenuti chiari, e
al tempo stesso semplifica la formazione ecclesiastica che si limita quindi a
impartire insegnamenti morali e concettuali, a insegnare cioè determinati
comportamenti e contenuti culturali. Non c’è bisogno di porsi domande sulla
vera formazione della personalità né tanto meno di favorire una successiva
formazione personale degli interessati; di conseguenza neppure gli istruttori
sono costretti a interrogarsi sulla propria personalità né ad impegnarsi
davvero in prima persona. A questo punto la via per diventare chierico può
essere standardizzata e oggettivata: l’apparato istituzionale comincia a
lavorare velocemente e senza intoppi."
A fronte di questi
due vantaggi il mondo psichico dei chierici (comprensivo anche delle religiose)
va incontro a due conseguenze inconsce che si estendono anche a tutta la chiesa:
la proiezione inconscia su Dio e la personalità contraddittoria.
IL DIO DELLE
PROIEZIONI CLERICALI
Quando si effettua
una rimozione quel che ne consegue é che si ha la sensazione illusoria di aver
nullificato la parte rimossa dello psichismo: in realtà essa viene proiettata
all’esterno, e quindi anche su Dio, cosicché questi perde le caratteristiche
proprie per assumere quelle che impropriamente e irrealisticamente il soggetto
gli attribuisce. A causa di queste proiezioni abusive Dio, ad esempio, viene
connotato in modo ambiguo perché da un lato egli è buono ma al tempo stesso
tirannico, punitivo e vendicativo, proprio perché a lui vengono attribuiti quei
sentimenti ambivalenti di cui il chierico si disfa, dato che rimuove quello che
il Super Io non accetta.
Questa conseguenza
non è circoscritta ai membri dell’organizzazione clericale ma si estende a
tutta la chiesa: il chierico dovrà insegnare una dottrina contraddittoria e cioè
che Dio è un essere estremamente buono, ma al tempo stesso permaloso e
vendicativo, che richiede l’uccisione del figlio per essere risarcito di una
colpa commessa milioni di anni fa da una coppia ignota (Adamo ed Eva) e che per
di più si trasmette (non si sa bene per quale catena biologica e per quale
destino irrazionale) a tutti gli uomini fino alla consumazione del pianeta. Di
qui due dinamiche divine: una creativa (oblativa) e una redentiva (punitiva),
che comporta l’annullamento fisico del Dio-Figlio (buono e vittima) a
vantaggio di un Dio Padre (collerico ed intollerante).
Drewermann si
chiede:
"Ma che
"padre" è questo che, stando alle informazioni fornite dai teologi,
ama con un amore infinito al punto tale da essere infinitamente disposto a
perdonare l’umanità, mentre è al tempo stesso così infinitamente giusto da
reputare il peccato di uomini e donne un infinito oltraggio contro se stesso, un
padre che pertanto ha bisogno di un sacrificio infinitamente prezioso, del
sacrificio del proprio FIGLIO cioè, per risolvere in se stesso in modo
estremamente curioso la contraddizione tra misericordia e punizione nel quale il
Sapiente e l’Onnisciente fu spinto dal peccato dell’umanità? Quando Gesù
parlava di suo Padre lo descriveva sempre simile a un re che senza alcuna
condizione perdona ai suoi debitori tutto, semplicemente perché nella loro
situazione disperata non sono assolutamente in grado di saldare una pur minima
parte dei loro debiti."
Il problema
rappresentato dal binomio" peccato originale-redenzione" è centrale
per D. anche nelle precedenti ricerche: egli ritiene, suffragato da una adeguata
esegesi, che la lettura biologistico-materialista della "Genesi" abbia
indotto i soggetti predisposti al sacrificio vittimistico a sviluppare una
lettura perversa di Dio e quindi a presentare un "Dio perverso".
Tali persone
saranno indotte, inconsapevolmente, a dare un contributo permanente ad una
teo-filosofia incentrata sul sacrificio espiativo: di qui il circolo vizioso di
un apparato clericale modellato teologicamente da una filosofia dell’autosacrificio
espiativo (e non oblativo) che genera, ed avalla, con dogmi immobilizzanti una
teologia del sacrificio (sado-masochistico), la quale a sua volta genera una
chiesa orientata verso una visione del mondo inconscia di tipo
redentivo-riparativo-espiativo.
Inutile domandarsi
se nasce prima l’uovo o la gallina: le esigenze psicodinamiche di una vita
all’insegna della riparazione, della colpa e della sottomissione al Super Io
si coniugano, "come la chiave con la serratura", con una teologia ed
una pastorale che "deve" idealizzare il sacrificio
riparativo-espiativo, la sola condizione per essere accettati dal Padre (Dio) e
dalla Madre (Chiesa).
Drewermann annota:
"Un fatto
emerge con estrema chiarezza durante il lavoro psicoanalitico sulle resistenze
che si presentano durante la terapia di chierici: essi hanno un bisogno enorme
di aggrapparsi con tutte le loro forze all’ideologia e alla mistica del
sacrificio. Chi mette in crisi questa ideologia e questa mistica fa vacillare
l’Io faticosamente stabilito del chierico; rovina l’autostima
dell’interessato che ha bisogno di un annichilimento fittizio, di un
annientamento dimostrativo, per essere ammesso all’essere; e in questo modo
mette in pericolo l’identità stessa dell’interessato in quanto fa
scomparire la differenza che separa il chierico da tutti gli altri per il fatto
che lui è un altro e diverso dagli altri. Dobbiamo concludere che dietro e
sotto questa teologia del sacrificio si nasconde un immenso desiderio di
autoannientamento, un dictat dell’angoscia, un vero "attentato da
vampiro" perpetrato contro il chierico quando era ancora bambino o bambina,
anche se non comprendiamo il perchè di tutto questo."
L’apparato
clericale, dunque, è la "chiave" con cui si può mettere in movimento
la "serratura" teologico-pastorale della chiesa, la quale non potrebbe
essere operativa se non trovasse un accordo (inconscio) con la
"chiave" rappresentata dall’apparato psichico del
chierico-religioso.
In altri termini:
un fedele che non credesse all’interpretazione materialistica del peccato
originale e, quindi, all’opera di Gesù come universalmente riparativa
dell’offesa al Padre, non avrebbe alcuna possibilità di diventare chierico o
rimanere religioso della chiesa cattolica, a meno che egli non viva alla
periferia della stessa, in un atteggiamento praticamente dissidente. Non a caso
tali chierici o religiosi, comunemente definiti "scomodi", sono
sorvegliati a vista, censurati pubblicamente e, spesso, eliminati (il chierico
Drewermann ne è una prova documentale).
LA PERSONALITA’
CONTRADDITTORIA
La seconda
conseguenza è intrapsichica ma con ricadute ecclesiali: dato che la funzione
dominante mentale è quella del Super-Io, mentre quella perdente è dell’Es,
il mondo ecclesiastico deve produrre una personalità con un Io debole e con due
qualità assolutamente contraddittorie: da un lato "la calma confortevole
da impiegato" (dato l’annullamento della componente
istintuale-desiderativa e l’impoverimento dell’Io critico-creativo); e
dall’altro una vita decisamente antiborghese secondo i cosiddetti
"consigli evangelici". Una vocazione autenticamente clericale non può
essere plasmata che in questa tenaglia mortale. C’è la combinazione di due
motivazioni
"diametralmente
opposte di cui abbiamo parlato sopra, vale a dire, la combinazione dei desideri
di normalità e di eccezionalità si spiega solamente in presenza di due
movimenti d’inversione; da un lato la persona interessata cerca di
allontanarsi da una straordinaria anormalità delle premesse psichiche per
ritornare all’apparenza esteriore della normalità, dall’altro vuole
liberarsi da una normalità che reputa scandalosa e piccolo borghese per evadere
in una realtà eccezionale. A ben vedere questi due movimenti sono delle
turbolenze contraddittorie, che nascono da uno stesso centro, ovvero dallo
stesso vuoto esistenziale, producendo, in ogni fase dello sviluppo e per ogni
istinto, "vortici" diversi."
Ecco il
chierico-capo, destinato ad essere un funzionario qualificato del vescovo, a sua
volta prestigioso funzionario del papa: tale leadership non è il frutto di una
maturazione dell’Io nel confronto quotidiano con gli uomini e le loro vicende.
Tutt’altro: il periodo formativo del chierico esclude persino che egli sia
valutato o formato da una comunità di credenti, proprio perché l’Io non è
in grado di integrare teoria e prassi, Dio e lavoro. L’Io, cioè, si
troverebbe di fronte all’angoscia perché carente di strumenti e apprendimenti
di tipo integrativo. Essere eletto da Dio come "capo" di un popolo è
un occasione per l’Io che, in modo quasi magico, sperimenta la sensazione di
essere ben costruito e non mancante di nulla.
"In altre
parole: alla luce della psicoanalisi e dell’antropoanalisi, l’elezione di un
chierico è il risultato stratificato della compensazione di un disorientamento
ontologico, che svuota e disgrega l’esistenza personale dell’individuo in
modo così intenso e persistente da far sembrare che la propria identità sia
assicurata solo nell’identificazione con un ruolo estraneo, nella fusione con
il contenuto di un incarico oggettivamente dato. A questo punto
"l’ufficio" diventa la verità fondamentale del Sé, lo conferma e
lo conserva, e infine diventa l’unico valore secondo il quale l’Io
dell’individuo interpreta se stesso. Per gli interessati l’aspetto
essenziale della loro esistenza non è dunque più il loro essere persone, bensì
l’essere chierici."
Ma c’è una
reazione a catena che si determina nel mondo ecclesiastico una volta che l’Io
si trova ad essere inabile a gestire i conflitti, accettando che l’Es soccomba
di fronte al Super Io: tale processo non può essere fermato da chicchessia,
nemmeno dall’autorità suprema, complice e vittima di un sistema patologico,
che ha effetti strutturali sullo psichismo clericale. Osserviamone alcuni.
L’ALIENAZIONE DEL
PENSIERO
Dato che il
chierico deve immolare l’Io e l’Es al Super Io, è questi, cioè
l’esterno, a dettar legge. L’apprendimento personale, la ricerca sofferta e
dubbiosa sono tassativamente esclusi. La realtà impiegatizia esige un pensiero
"eteronomo", disposto solo ad identificarsi con il pensiero
dell’autorità. Un pensiero, quindi, su incarico, che parte da determinati
contenuti e principi morali e che viene tramandato e applicato alla realtà
senza bisogno di mediazioni.
"L’aspetto
decisivo del loro pensiero all’insegna del Super-Io consiste appunto nel fatto
che non partono dalle esperienze della vita per capire Dio e la Rivelazione;
piuttosto muovono da Dio o dai contenuti stabiliti della rivelazione di Dio
avvenuta una volta per tutte, per accostarsi poi alla realtà umana. Letta in
questa chiave, le formule, la mancanza di naturalezza, le ossessioni e la
noiosità presenti nel linguaggio ufficiale dei chierici non sono dunque una
trovata casuale, una mera degenerazione di stile e buon gusto, ma piuttosto
l’espressione e la manifestazione di una struttura patogena che incide in modo
determinante sull’esistenza clericale stessa."
Il rifiuto a
pensare per l’angoscia di cadere nel "disorientamento ontologico"
induce il chierico non solo ad aggrapparsi alla dottrina infallibile
dell’apparato che lo sostiene ma a far sì che la religione stessa appaia
"sicurezza", "certezza" immutabile, la qual cosa non può
che sviluppare nel chierico, come nei suoi fedeli, un senso di grandiosità del
Sé.
Un altro aspetto di
tale pensiero burocratizzato ed alienato è che il soggetto non è tenuto a
rispettare la verità, tanto meno a cercarla, né deve essere attento alla
trasparenza e alla sincerità. Quello che conta è la lealtà, intesa come
dipendenza. Tale pensiero non è quindi attrezzato al coraggio e sarà incapace
di passare ad un contrasto virile per amore della verità. Non è un caso che i
martiri-chierici siano una rarità nella storia della chiesa occidentale
post-costantiniana: le eccezioni ci sono, ma fanno quasi sempre parte dei
cosiddetti "preti o vescovi scomodi".
Scienza, arte,
politica, società, psiche, sono territori che il chierico non esplorerà mai
nel suo curriculum ecclesiastico, se non per riecheggiare dogmi, encicliche o
controversie teologiche.
Persino in
relazione alla Bibbia il pensiero ecclesiastico si muove all’insegna di una
ripetizione meccanica di quanto impone l’autorità super egoica: l’esegesi
rigorosa dei testi biblici è evitata, anche perché essa non può essere
integrata alla realtà presente, proprio perché tale funzione egoica è
carente. Di rado si udirà una predica che tenga conto degli avvenimenti
dell’attualità e dello stato maturativo dei fedeli.
Drewermann così
riassume il problema della paralisi del pensiero clericale:
"Finché il
pensiero clericale all’insegna del Super-Io rimarrà legato alla verità
d’ufficio, servirà esclusivamente a combattere, a debellare e letteralmente a
"negare" il proprio Io; ne consegue inevitabilmente che con questo
apparato mentale con il quale si cerca di placare l’angoscia, non viene
risolta, ma perpetuata la contraddizione originaria, vale a dire l’insicurezza
ontologica fondamentale nei confronti della propria esistenza. Calmando
l’angoscia a scapito dell’Io si produce quindi un sistema di permanente
eteronomia autoritaria introiettata come istanza divina a livello di
Super-Io."
Per mantenere tale
sistema bisogna, ovviamente, ricorrere a sistemi coercitivi, al potere e non
allo spirito; a pratiche di omogeneizzazione (encicliche vincolanti per tutti,
liturgie standardizzate, ecc.) piuttosto che a riflessioni comuni; a censure e
punizioni piuttosto che a pratiche di condivisione e comunione.
LA
RAZIONALIZZAZIONE DELLA FEDE
La rimozione
dell’inconscio e di tutte le forze istintuali, oniriche o di tipo analogico
conduce inevitabilmente l’apparato ecclesiale a motivare e spiegare i
"misteri" della fede con i mezzi logici della filosofia. Fin dal primo
secolo, anche nel tentativo di farsi ascoltare dai filosofi pagani, Cristo viene
interpretato come Logos, come concretizzazione della sapienza di Dio. Desideri,
emozioni, sensazioni, passioni non entrano nel Cristo reso Logos, con due
ricadute immediate:
"il dogma
assume la forma di un resoconto razionale e astratto di verità salvifiche, che
vanno insegnate e recitate parola per parola per comunicare e per far propria la
fede in Cristo; questa trasformazione della fede in Cristo in una dottrina di
"fatti salvifici" oggettivamente dati, rappresenta il passo che
promuove e pretende strutturalmente la psicodinamica dei chierici che con il
passare dei secoli si è profilata con sempre maggiore chiarezza."
A ciò si aggiunga
che un pensiero all’insegna del Super Io conduce a (ed è il prodotto di) una
tendenza a trasformare le persone in "cose" e le cose in idee. Le
persone come tali, nella loro problematicità e nella loro ricchezza, non
esistono. Di qui la tendenza a privilegiare il piano delle idee astratte e ad
eliminare, reprimere o svalutare inconsapevolmente l’elemento personale. Con i
secoli nasce una vera ideologia "clericale", secondo cui preti e suore
non hanno normalmente diritto ad avere una vita privata, soddisfazioni innocue,
amicizie personalizzate, hobbies e sport. Se un prete ama cani o gatti diventa
spesso un caso giornalistico e dovrà rassegnarsi a vivere da emarginato
all’interno della corporazione.
In sostanza si
sviluppa un’ideologia secondo cui il chierico deve tornare ad essere una
materia informe che il Dio burocratizzato della gerarchia può e deve plasmare a
suo piacimento. "Sia fatta la tua volontà" non si applica tanto a Dio
che non parla (in senso antropologico) ma ai superiori, che ne sono
un’incarnazione vivente, per cui essi possono fare ciò che vogliono, dato che
essi sono, di fatto, Dio.
"Così si
sostituisce tacitamente l’autorità di Dio che nell’intimo dell’uomo parla
al suo cuore, con l’autorità esteriore del Papa e della Chiesa, ma non solo:
in questo modo si neutralizza tutta la sfera dei sentimenti umani a favore del
decisionismo del potere.
Ciò che Gesù
aveva tassativamente proibito, e cioè che nella sua comunità si costituissero
vecchi rapporti padre-figlio, servo-padrone, viene innalzato a dogma di fede: e
così la vita che doveva essere "piena" diventa vuota e ritualizzata,
lontana da ogni affetto autentico.
I VANTAGGI DELLA
VITA CLERICALE
A questo punto
mancano almeno due quesiti: quali vantaggi? e qual è la genesi psicologica? In
effetti quale vantaggio deve esserci per un chierico che accetta di entrare in
un’istituzione, nonostante rinunce consistenti a parti della propria vita?
Drewermann lo
spiega con il fatto che l’apparato ecclesiastico, se da un lato svuota l’Io,
dall’altro idealizza l’immagine del chierico, al punto da farne un
rappresentante personale di Dio, un contenitore di grazie, un intermediario
dell’onnipotenza, il Padre ideale che sta al centro di tutti e di tutto.
Questo "innalzamento" lo rifornisce di stima e soprattutto di amore.
Se è amato allora esiste, non è vero che è rifiutato.
"Dal punto
di vista psicoanalitico la figura del prete, quella figura che rappresenta in
mezzo agli uomini il Padre celeste che è in cielo, produce almeno nei
"fedeli" una spiccata tendenza a operare su di essa transfert
paterni di ogni specie....Soprattutto l’idealizzazione religiosa della
figura paterna del prete, la sua vicinanza alle sfere della salvezza e del
perdono, il potere di "legare" e di "sciogliere" sopra la
terra in nome di Dio, dà al prete i tratti di una personalità mana,
ovvero lo avvicina all’archetipo del medico divino; qui sta uno dei pilastri
più importanti su cui poggia il potere psicologico di Madre Chiesa sulle anime
dei suoi "figli."
Ecco perché il
fallimento pastorale, assai frequente in società adulte, meno disposte a
idealizzare e più scaltre nel valutare realisticamente le funzioni del
prete-religioso, si può tradurre in una tragedia psicologica, dato che
l’identificazione dell’Io con un ruolo professionale e con Dio si è
dimostrata fallace.
PSICOGENESI DELLA
VOCAZIONE CLERICALE
Per spiegare
l’inclinazione di milioni di chierici e religiose ad entrare in una
"milizia" cristiana che si distanzia spesso anni luce dal discepolato
di Gesù occorre, dice D., fare un cammino a ritroso nella storia personale di
queste persone e non limitarsi a cercare spiegazioni esclusivamente
sociologiche, come il potere, la sicurezza economica, ecc. Egli ritiene che nei
primi anni della vita il chierico religioso-suora abbia sperimentato, senza
esserne cosciente, un rifiuto da parte dei genitori, non tanto voluto, quanto
"involontario", rifiuto che può nascere, ad esempio, da un
sovraccarico del genitore o da un suo limite affettivo. Frequente è il caso di
una madre che vuole amare il proprio figlio, ma è emotivamente incapace di
amarlo.
"Di
conseguenza tutto il rapporto tra madre e figlio manca di un autentico calore
umano. Per far fronte all’assenza di affetto spontaneo si aumentano quindi gli
sforzi di volontà che a loro volta rafforzano i sentimenti di fondo
dell’originario rifiuto, questa situazione mobilita nella madre sensi di colpa
che non possono che rafforzare ulteriormente il comportamento all’insegna
della correttezza obbligatoria: un primo circolo vizioso di sentimenti repressi
e di una tendenza alla riparazione dettata da sensi di colpa e da doveri
morali."
Agli inizi della
vita il chierico avrebbe sperimentato un contatto con una madre abbastanza
vicina da poter risvegliare le speranze più intense e contemporaneamente
abbastanza lontana da deludere tali speranze in modo traumatico. "Solo in
presenza di questa esperienza contraddittoria nasce l’ambivalenza tipica della
psiche clericale". In sostanza l’ambivalenza materna viene inconsciamente
introiettata dal figlio e altrettanto inconsciamente proiettata su Dio, fino al
punto da essere legittimata teologicamente. In fondo anche Dio, sempre secondo
tale "teologia", mette al mondo l’uomo, ma poi lo caccia; gli è
vicino , ma gli è anche lontano; lo ama ma lo rigetta. E così il Dio dei
chierici è diventato ambivalente: crea l’uomo libero ma lo vuole dipendente;
lo accoppia con una donna ma ecco che i due cominciano a litigare e a
rinfacciarsi la colpa. Il dio "clericale" è un Dio meraviglioso che
per l’uomo fabbrica galassie, mari, montagne, piante ed animali. alla prima
mancanza però, diventa intollerante e vendicativo fino all’ultima
generazione. Questo zoccolo duro della teologia cattolica, che viene riversato
da secoli in miliardi di prediche e di libri di pietà, deve essere letto alla
luce della proto-esperienza attraversata inconsciamente dal chierico, per cui il
fatto stesso di essere al mondo è una colpa. Non a caso si parla di peccato
originale, anche se nessuno sa spiegare in che cosa consista e come si trasmetta
tale maledizione che raggiungerebbe l’uomo appena concepito. Sfortunatamente
è proprio la rimozione di quelle proto-esperienze personali che dà l’avvio
alla loro proiezione su Dio, per cui il chierico ha, paradossalmente, bisogno
proprio di Dio affinché questi porti la croce delle ambivalenze personali che
il Super Io non gli consente di riconoscere come proprie.
Scrive Drewermann:
"Per capire
come un bambino diventi chierico, bisogna pensare psicologicamente proprio
secondo lo schema della dottrina sostenuta dalla teologia cristiana; tutto
l’esserci si fonda su un sacrificio primario che a sua volta comporta
l’obbligo di essere infinitamente grati, in quanto tale sacrificio rivela e
toglie la colpa altrimenti inestinguibile dell’origine, ossia il "peccato
originale."
E’ ovvio che gli
stessi desideri del figlio (futuro chierico) costituiscano per la madre una
pretesa eccessiva (come per Dio è una pretesa eccessiva quella di Adamo di
andare dove più gli piaceva): ma è proprio tale pretesa filiale ad obbligare
la madre a votarsi al sacrificio in nome dell’amore per lui, così come Dio
dovrà sacrificarsi fino all’autoimmolazione per salvare i propri figli. Nel
linguaggio psicoanalitico tali concetti possono essere così espressi, secondo
Drewermann:
"l’identificazione
(inconscia) del figlio con la madre , ossia con il suo spirito di sacrificio,
spinge il figlio più tardi ad assumere il mandato di chierico. Deve imitare il
comportamento della madre e assumere i suoi principi e la sua mentalità per
mantenerla letteralmente in vita e salvarla dalla prigionia della morte. Solo
nel sacrificio di sé offerto (liberamente) dal figlio, si compie
"l’opera della madre "...; solo facendo propria la mentalità della
madre fatta di abdicazione e autorepressione, il figlio sente di essere
realmente "redento" dalla colpa di esserci."
In tutto ciò ha
una rilevanza capitale il coinvolgimento di Maria e la sua opera corredentrice:
il sacrificio redentore richiesto alla "madre" e al "figlio"
per salvare il mondo del "padre" formano un elemento unico, ma
tripolare nella predicazione cattolica che combacia con l’esperienza primaria
del chierico, dove il sacrificio è richiesto dalla madre al figlio, a vantaggio
di un padre assente o lontano.
"Nel
contesto della nostra problematica l’aspetto decisivo è però il fatto che,
in sostituzione del padre assente, il figlio acquista un’importanza fondamentale per la vita
della madre fino a diventare letteralmente il "salvatore" che dà
senso e contenuto alla vita di lei."
Altre volte è
l’opprimente vicinanza del padre a causare nella madre angosce tali da segnare
il figlio e predisporlo ad una vita sacrificale.
"Dall’opposizione
reciproca tra il padre e la madre deriva l’importanza emotiva di un altro
teorema teologico che nella dogmatica cattolica occupa un ruolo centrale. Se
osserviamo la pietà, che di fatto caratterizza la maggior parte dei chierici,
ci rendiamo conto che loro vivono in fondo come se ci fossero due déi in netto
contrasto l’uno con l’altro: da una parte credono in Gesù Cristo che
rappresenta insieme con sua madre la quintessenza dell’amore, dall’altra
credono nel Padre quale quintessenza della giustizia, della severità e della
punizione. E’ vero che la Chiesa ha respinto già da molto tempo la dottrina
di Marcione secondo la quale il Dio della creazione sarebbe radicalmente diverso
dal Dio della redenzione, ma a livello dei sentimenti questa scissione è
tuttora abbastanza efficace e influenza perfino la preghiera in seno alla Chiesa
cattolica; tale scissione emerge per esempio nelle litanie e nei canti con i
quali i fedeli supplicano la Madre di Dio di intercedere accanto a suo figlio
presso il trono di Dio per l’umanità minacciata, sofferente e peccatrice
affinché Egli le conceda protezione e aiuto."
Nel corso di tale
excursus è possibile che si siano affacciate più obiezioni, ma una è quasi
inevitabile: ammettendo che le cose stiano in questo modo, è pur vero che ci
sono preti e suore che non solo non hanno un Io debole, ma sono ammirati per il
loro coraggio. Si potrebbe obiettare a tale verità indiscutibile che una
rondine non fa primavera. La realtà, comunque, conferma l’analisi di D.,
perché tali "chierici forti" non hanno un peso nell’organizzazione
ecclesiale. Tutti costoro vivono fuori dell’organizzazione ecclesiastica, (non
fuori della Chiesa!), al massimo in zone di frontiera, se non in recinti con
precisi divieti a parlare in sinodi, assemblee pubbliche e persino in chiese o
sale appartenenti all’ambito ecclesiastico. La stessa cosa può valere per
vescovi scomodi: quelli con un Io forte vengono tallonati, sorvegliati,
ammansiti con "ausiliari", se non rimossi e inviati nel limbo di
" Partenia" (vedi il caso istruttivo di Mons. Gallot).
A mo’ di
conclusione, citiamo l’ultima "indiscrezione" apparsa su Adista (23
sett.95), consistente in un documento non ufficiale dell’episcopato
nordamericano firmato da 12 vescovi e appoggiato da altri 40. Il testo, frutto
del lavoro di una riunione annuale con teologi e laici, pubblicato su "Origins’s"(Luglio
95), rivista ufficiosa dell’episcopato USA, fa un’analisi della conferenza
che conferma la gravità della situazione psicodinamica, oltre a mettere in
luce, ovviamente, gli aspetti positivi. Nel testo si legge:
"A nessuno,
certo, viene impedito realmente di parlare, ma perdiamo di fatto l’opportunità
di aver quello scambio aperto che riflette i pensieri e i sentimenti che si
comunicano privatamente."
"Le parrocchie
e le diocesi registrano una diminuzione di praticanti.. Siamo riusciti ad
istruire i cattolici sulle verità di base... ma non a trasmettere la nostra
relazione di fede con un Dio che ci ama."
"Di fatto
attualmente succede che alcuni vescovi dicono spesso la loro opinione, molti
(forse l’80%) parlano assai raramente o non parlano affatto."
" Nelle
questioni vitali di natura pastorale i vescovi talvolta si sentono ignorati. Un
recente esempio è stata la traduzione inglese del Catechismo. Questo è stato
completamente strappato di mano a noi e ai vescovi delle altre Conferenze di
lingua inglese...Noi aspettiamo pazientemente, quasi come bambini.."
" La guida per
i preti è stata emessa dalla Congregazione per il clero senza collaborazione da
parte delle Conferenze dei vescovi."
"La
ristrutturazione della Conferenza e delle sue procedure non arriverà al suo
scopo se i vescovi sono incapaci di parlarsi sinceramente gli uni gli
altri."
"Certe
questioni non vengono mai sul tappeto perché sono troppo delicate e
controverse.."
"I vescovi
possono essere tentati di scivolare nel ruolo di funzionari o di accontentarsi
del minimo indispensabile."
"...c’è la
sensazione che tra i criteri per la selezione dei vescovi le qualità di
leadership siano considerevolmente messe in ombra da un interesse prevalente per
le caratteristiche che permettono di identificare un candidato come
"innocuo."
Lo psicogramma del
chierico, per di più vescovo, tracciato dai vescovi americani, non si discosta
da quello di Drewermann: in fondo c’è una convergenza fondamentale sul fatto
che i vescovi sono "bambini che aspettano", che non sanno parlarsi
sinceramente, né affrontare apertamente problemi scottanti e controversi. Salvo
eccezioni alla Gallot, questo è quello che passa ...il convento!
Non meraviglia,
dunque, che essendo "bambini" siano incapaci di trasmettere la loro
"relazione di fede con un Dio che ama" mentre essi riescono a svolgere
la funzione superegoica di "istruire" i cattolici sulle verità di
fede, sulle leggi e le pratiche della Chiesa", proprio perché la funzione
mentale ipertrofizzata è quella del Super Io. Quindi vescovi con un Io
infantile, governati da un Super Io "romano" che dispone a suo
piacimento di quello che essi debbono pensare e fare e di cui diventano i
ripetitori. Vescovi come burocrati? Questa è la conclusione di Drewermann e
questa è la constatazione di un manipolo di vescovi americani, che, però, non
possono dire apertamente quanto pensano alla comunità ecclesiale.
Fino a quando potrà
reggere una struttura infantile burocratizzata?
Contributo di Luigi De Paoli
*EUGEN DREWERMANN è teologo e terapeuta. È nato
nel 1940 a Bergkamen in Germania, ha studiato filosofia, teologia e psicanalisi,
è dottore in teologia ed è uno degli scrittori più letti del nostro
tempo.Presso l'Editrice Queriniana ha pubblicato: Psicanalisi e teologia morale;
-Il vangelo di Marco. Immagini di redenzione; -Parola che salva parola che
guarisce. La forza liberatrice della fede; -Il cammino pericoloso della
redenzione. La leggenda di Tobia interpretata alla luce della psicologia del
profondo; - Il messaggio delle donne. Il sapere dell'amore; -L'essenziale è
invisibile. Una interpretazione psicanalitica del Piccolo Princtpe; - Parole per
una terra da scoprire; -I tempi dell'amore.