I predatori
dell'ordine mondiale
«Il potere mondiale è
nelle mani delle grandi multinazionali e di alcuni governi nazionali, come
quello degli Stati uniti». Intervista a John Pilger, autore del volume «I
nuovi padroni del mondo»
STEFANO LIBERTI
Inviato di guerra in Vietnam, Cambogia, Egitto, India e
Palestina, sempre in prima linea a svelare le verità omesse dai grandi circuiti
mediatici internazionali, John Pilger è un reporter di razza. I suoi articoli,
i suoi numerosi libri, i suoi documentari sono altrettanti atti di accusa nei
confronti di quei potenti del mondo che, controllando anche i grandi circuiti
dell'informazione, possono portare avanti le loro ciniche politiche in perfetta
impunità. Un attivismo rigoroso che Pilger conferma anche nel suo ultimo libro
appena pubblicato in Italia, in cui fin dal titolo si scaglia contro quelli che
definisce «i nuovi padroni del mondo».
Chi sono i nuovi padroni del mondo?
I nuovi padroni del mondo sono una conventicola di affaristi e strateghi che,
oggi come oggi, reggono e definiscono le sorti del pianeta. Detto in parole
semplici, questi nuovi padroni sono il frutto dell'unione tra le grandi
multinazionali e i governi dei paesi dominanti. Tuttavia, io non condivido
l'idea di molti attivisti del movimento contro la globalizzazione neo-liberista,
secondo cui lo stato è ormai svanito e ha delegato i suoi poteri alle grandi corporation.
Il nuovo grande sistema di dominio nasce proprio dalla commistione e dalla
compenetrazione tra questi due attori.
L'allenza tra grandi corporation e poteri statuali non è però un
elemento strutturale del capitalismo fin dai suoi esordi? Qual è l'elemento di
novità?
E' vero che le grandi società si sono sempre appoggiate ai governi per
esercitare il proprio potere. Ma è pur vero che la crescita sempre più
marcata, a partire dagli anni Settanta, delle grandi multinazionali rappresenta
indubbiamente un fenomeno di tipo nuovo. Per riassumere in poche parole questo
concetto, possiamo dire che oggi assistiamo alla rigenerazione in una forma
nuova e più violenta di un sistema di vecchio tipo.
La guerra al terrorismo non sarebbe quindi altro che una riedizione delle
classiche guerre imperialiste del XIX secolo?
Per quanto riguarda gli obiettivi che si prefigge, ossia il controllo delle
riserve strategiche del pianeta, sicuramente sì. Quello che cambia, tuttavia,
sono i termini in cui si estrinseca il nuovo apparato della propaganda. Oggi,
dopo l'11 settembre, il nuovo grande nemico è il terrorismo non statuale. Il
che spinge a passare completamente sotto silenzio un altro tipo di terrorismo,
ugualmente se non più nocivo: quello perpetrato dagli stati. Dalla seconda
guerra mondiale in poi la politica estera degli Stati uniti è costellata di
atti di terrorismo puro contro le popolazioni civili dei paesi non allineati ai
loro interessi: il barbaro bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki ha
inaugurato una lunga scia di sangue e di violenze.
Gli attori internazionali sono ormai definiti «terroristi» sulla base del loro
livello di adesione agli interessi strategici degli Stati uniti o delle potenze
dominanti. La cosa interessante è che la parola è stata per la prima volta
utilizzata dagli inglesi negli anni Quaranta per descrivere le azioni delle
organizzazioni clandestine sioniste nella Palestina sotto mandato britannico.
Ora, come per magia, la situazione si è rovesciata: Israele - che viola diverse
risoluzioni internazionali, si macchia impunemente di esecuzioni
extra-giudiziarie e continua a portare avanti un'occupazione omicida - non è
terrorista, mentre i palestinesi sono sempre e comunque terroristi. La
propaganda si basa proprio su questo: sulla demonizzazione del nemico o del
dissidente.
Che ruolo hanno i media nel diffondere tale propaganda?
I media sono parte integrante di quelli che ho definito i «nuovi padroni del
mondo». Il loro potere è effettivamente di tipo nuovo, viste le capacità
tecnologiche e la possibilità di influenzare l'opinione pubblica che hanno
acquisito negli ultimi anni. Basti pensare al tentato putsch in Venezuela contro
Hugo Chavez dell'aprile scorso: è stato orchestrato e organizzato
prevalentemente dai media, che hanno scatenato una furiosa campagna di
diffamazione contro il presidente. O, per rimanere in Italia, basti pensare a
Silvio Berlusconi, che controlla direttamente i media privati e influenza la
programmazione di quelli pubblici. Gli stessi Stati uniti, che tanto si vantano
della loro «informazione libera», hanno forse il sistema mediatico più chiuso
del mondo. I media sono ormai totalmente controllati dal capitale e
rappresentano un vero e proprio potere politico. La loro capacità di penetrale
nella società civile è un elemento nuovo e estremamente pericoloso.
Nel suo libro insiste nel sottolineare come il sistema politico americano sia
bloccato in una sorta di competizione fittizia tra democratici e repubblicani.
Davvero crede che non ci sia alcuna differenza tra i due schieramenti?
Il grande errore in cui incorrono anche i pensatori più progressisti sta nel
cercare di fare distinzioni tra le diverse amministrazioni americane. Io sono
pronto a scommettere che, se l'11 settembre al potere ci fosse stato Bill
Clinton, avrebbe seguito più o meno la stessa politica di Bush. Basta guardare
il bilancio della sua amministrazione, che è costellato di violenze,
intimidazioni e attacchi unilaterali nei confronti di paesi terzi. E' stato
Clinton ad aver avviato lo spaventoso incremento del budget militare. E' stato
sempre lui ad aver completato l'opera di smantellamento dello stato sociale
avviata durante la presidenza di Ronald Reagan. Madeleine Albright è stata
probabilmente il segretario di stato più unilateralista che abbiano avuto gli
Stati uniti negli ultimi decenni, e si colloca decisamente più a destra di
Colin Powell. Anche il bilancio dell'ex presidente Jimmy Carter, che ha appena
ricevuto il premio Nobel per la pace, è tutt'altro che roseo da questo punto di
vista: tra le altre cose è stato lui a chiamare come consigliere alla sicurezza
nazionale Zbigniew Brzezinski, un fiero sostenitore dell'egemonia imperiale Usa
molto apprezzato oggi dal'amministrazione Bush. Lo stesso discorso vale per la
Gran Bretagna: la distinzione tra i governi Tory e l'attuale governo Labour è
assolutamente fuorviante. Per molti aspetti, Tony Blair è molto più estremista
di Margaret Thatcher.
Questa distinzione fa parte di una precisa ideologia di stato, basata su una
falsa competizione tra due fazioni, che in realtà non sono altro che due facce
della stessa medaglia. L'idea secondo cui esistono differenze tra democratici e
repubblicani o tra conservatori e laburisti è un'idea romantica.
Eppure, è innegabile che l'amministrazione Bush ha impresso una notevole
accelerazione sulla questione irachena...
La nuova amministrazione è dominata da persone legate a grandi compagnie
petrolifere, interessate per lo più ad accaparrarsi il petrolio iracheno, che
rappresenta la seconda più importante riserva per quantità e la prima per
qualità del greggio. Ma Washignton ha sempre voluto controllare l'Iraq. Fino al
1991 Saddam Hussein ha svolto egregiamente il compito per cui era stato messo a
quel posto dalla Cia: evitare la disgregazione del paese e dare facile accesso
alle riserve petrolifere. Oggi, gli Stati uniti stanno semplicemente cercando un
nuovo Saddam, ed è grottesco il balletto di candidati che vanno e vengono da
Washington e Londra per essere assunti a coprire tale incarico: ex generali,
affaristi, traffichini di ogni sorta, come i membri dell'Iraqi National
Congress di Ahmed Chalabi. Al di là di questo, gli obiettivi della politica
Usa nei confronti dell'Iraq sono sempre gli stessi: evitare la formazione di uno
stato kurdo nel nord e di un'entità sciita al sud che potrebbe unirsi all'Iran.
E, al contempo, assicurarsi il pieno e totale controllo delle riserve
petrolifere del Medioriente.
Che ruolo ha Israele in questo disegno strategico?
Israele ha un ruolo ben preciso, che è quello di fedele alleato di Washington
nella regione. Lo stato israeliano rappresenta una costante minaccia e un
elemento di permanente e continua intimidazione per tutti i paesi circostanti:
l'Egitto, la Siria, la Giordania. E non per altro gli Stati uniti appoggiano
incondizionatamente i governi israeliani, siano essi del Likud o dei laburisti,
che ancora una volta - come nel caso degli Stati uniti e del Regno unito di cui
abbiamo parlato prima - non sono altro che due facce di un'identica medaglia.
Quanto ai palestinesi, non hanno petrolio e sono quindi per l'amministrazione
statunitense privi di qualsiasi interesse.