INCONTRO CON PAOLO DEBENEDETTI
IL PATRIMONIO COMUNE DEI FIGLI DI ABRAMO
terza "Giornata della memoria"
per non dimenticare gli orrori
della Shoà, dello sterminio degli ebrei.
E' un argomento che trattiamo -
nel quadro del dialogo inter-
religioso -con Paolo De Be-
nedetti, un teologo cattolico,
particolarmente impegnato
nel far conoscere l'ebraismo.
Docente di Giudaismo alla
Facoltà Teologica dell'ltalia
Settentrionale, di Antico
Testamento a Urbino e a
Trento, il professor Paolo
De Benedetti unisce rigore
e competenza ad un modo
narrativo così leggero e
così ebraico che rende
ogni sua lezione o
conferenza qualcosa
di affascinante e
di coinvolgente.
Ecumenismo e dialogo inter-
religioso sono parole che
sembrano essere definitiva-
mente entrate nel vocabolario dei
credenti...
«Questo è molto bello e impor-
tante, a patto che ci sia la neces-
saria chiarezza. Personalmente,
ho fatto inserire nei documenti
del Sinodo milanese tre tipi di
dialogo, da non confondere o so-
vrapporre l'uno con l'altro: l'ecu-
menismo intracristiano, che ha
come scopo la futura unità delle
chiese ed è I'ecumenismo in sen-
so proprio; il rapporto con Israele
che non mira alla conversione di
Israele ma è piuttosto un dialogo
delle chiese con se stesse al co-
spetto di Israele; infine le relazio-
ni con le altre religioni in cui si
cerca un terreno di intesa sui di-
ritti umani, su tante cose che non
sono propriamente religiose»,
Qualcuno contesta la linea del
dialogo, dicendo che questo mette
a rischio l'identità.
«Credo che quanti affermano
questo hanno una grande sfidu-
cia nella propria identità: hanno
una identità debole che vuole
reggersi sull'assenza dell'altro».
Siamo in una stagione particola-
re. Da una parte si sente sempre
più l'esigenza che le diverse tradi-
zioni religiose comincino a dialo-
gare più da vicino, dall'altra sem-
bra invece che questo dialogo sia
sempre più difficile. Come mai?
«Le cause sono diverse. Una,
forse banale ma secondo me im-
portante, è che tutte le grandi ini-
ziative dopo un po' si afflosciano:
un po' come il popolo ebraico che
dopo l'Esodo si normalizza. Una
altra ragione è che effettivamente
c'è stato in alcune Chiese -com-
presa quella cattolica -un riflus-
so di tipo, diciamolo in maniera
simbolica, "non conciliare". Infi-
ne, ho l'impressione che, molto
spesso, il dialogo ecumenico è
stato più un fatto di vertice e di
gesti simbolici che di popolo e di
comunità. Proprio in questi gior-
ni ho letto un documento dioce-
sano che chiede che siano le sin-
gole chiese a prendere le iniziati-
ve ecumeniche. Che a muoversi
non siano solo i vertici e che le
chiese abbiano una maggiore li-
bertà di movimento e di inven-
zione».
È ben strano però che il dialogo
appaia più una necessità di vertice
che non della base.
«Credo che in realtà ci sia un
dialogo di base che non viene ab-
bastanza pubblicizzato.Se il papa
abbraccia un patriarca, per esem-
pio, la notizia assume grande ri-
lievo, mentre se cattolici e rifor-
mati si riuniscono a studiare in-
sieme la Bibbia la cosa appare
scontata. È un motivo da tenere
presente. Inoltre, i grandi gesti
rientrano nel disegno di pubbli-
cità della nostra società: non co-
stano molto cari. Tenga conto
che l'abbraccio con il patriarca
non comporta di per se che ognu-
na delle due parti senta il bisogno
di cambiare. Sono gesti che di
per se non significano conversio-
ne, significano solo ritorno alle
buone maniere».
Anche il dialogo ebraico-cristia-
no pare attraversare un momento
di stanca. Quali sono le ragioni?
«Personalmente, sono molto
contrario che si usi l'espressione
dialogo ebraico-cristiano o dialo-
go cristiano-ebraico perche è un
termine improprio. Lo scopo, in-
fatti, è la conversione delle chie-
se. Non è -se non indirettamen-
te -quello di avere buoni rappor-
ti con gli ebrei o spiegare meglio
l'ebraismo o abbandonare le po-
sizioni ingiuriose nei loro riguar-
di. Sono tutte cose essenziali ma,
come ha ripetuto spesso il cardi-
nal Martini, lo scopo primo del
dialogo con l'ebraismo è che
cambi la Chiesa, la comprensio-
ne che la Chiesa ha di se, dell'ec-
clesiologia, della cristologia. Il
rapporto sembra bilaterale ma
non lo è. Siamo noi ad aver biso-
gno dell'ebraismo più di quanto
loro abbiano bisogno di noi».
Questo perchè non si dà fede
cristiana se non in una piena com-
prensione della fede ebraica?
«Su questo tema negli ultimi
decenni si è scritto moltissimo. Il
cristianesimo nasce come una
forma di ebraismo e ha alle sue
spalle la stessa realtà fondante
dell'ebraismo, cioè la Bibbia. La
Bibbia di Gesù, di Paolo è quella
che noi chiamiamo Antico Testa-
mento. Gesù ragiona con concet-
ti, mentalità, genere letterari, ti-
picamente ebraici. Il problema è
nato quando la Chiesa -lo dice
molto bene Rossi De Gasparis -è
diventata a schiacciante maggio-
ranza pagana ed ha sviluppato
una teologia dentro la quale la
mediazione ebraica non è più ne-
cessaria. Ha iniziato cioè a legge-
re l'antica Alleanza solo come
una prefigurazione della nuova.
Là, dunque, la profezia e, nel
Nuovo Testamento, il compimen-
to definitivo» .
Tutto ciò, dunque, secondo lei,
ha condotto al sorgere di numero-
si equivoci...
«Giovanni Paolo II ha detto
una cosa molta giusta: l'ebraismo
e il cristianesimo sono legati al li-
vello della loro stessa identità. Lo
dico con altre parole: non sono
due religioni, sono due forme
dell'alleanza. Dire questo signifi-
ca dire che non si può più soste-
nere (e praticare) la teologia del-
la sostituzione. Ancora oggi nella
liturgia e in tante prediche noi
sentiamo dire che la chiesa è il
"nuovo popolo di Dio". La chiesa
non è il nuovo popolo di Dio. C'è
un solo popolo di Dio, che è
Israele, che è sempre popolo di
Dio (questo lo dicono anche i do-
cumenti vaticani) e quindi le pro-
messe di Dio ad Israele (come af-
ferma l'apostolo Paolo nella lette-
ra ai Romani) valgono sempre».
Dove sta allora la specificità del-
la fede cristiana ?
«La rivelazione cristiana è una
persona: Gesù, il Cristo. Non è un
caso che i Vangeli siano quattro e
non uno solo (come una volta
quando si faceva il vangelo "uni-
ficato"). Ossia che questo uno -
secondo il modo ebraico -viene
interpretato in varie maniere.
Non c'è mai una sola interpreta-
zione di un testo biblico e così su
questa parola fatta carne ci sono
almeno cinque interpretazione: i
quattro vangeli e Paolo. Non è
neanche giusto dire che il cristia-
nesimo perfeziona l'ebraismo. Il
superamento cristiano dell'ebrai-
smo ha un senso geografico, non
storico, nel senso che rende uni-
versale il messaggio».
Eppure è incontestabile che la
rivelazione, da questo punto di vi-
sta, introduce una rottura.
«Certamente introduce una di-
stinzione tra quelli che vedono in
Gesù la Parola e quelli che non la
vedono. Gli uni sono i cristiani,
gli altri gli ebrei. Questa distin-
zione è difficile trattarla in ma-
niera non polemica. Per questo si
è spesso parlato della "durezza di
cuore" degli ebrei e del loro rifiu-
to. Ma storicamente non è avve-
nuto così: al tempo di Gesù mi-
lioni di ebrei non s'erano nean-
che accorti della sua esistenza.
Quando la predicazione verso gli
ebrei è cominciata è stata coatta
e ingiuriosa, e questo non aiutava
certo la mutua comprensione. È
stata anche una rottura culturale,
linguistica e geografica perchè
dopo la distruzione di Gerusa-
lemme i nuclei ebraici che hanno
resistito erano quelli in Babilonia
dove il cristianesimo era quasi
inesistente. Il cristianesimo è an-
dato verso Occidente, l'ebraismo
verso Oriente e si sono consolida-
ti come due entità separate».
Lei conosce da vicino il mondo
ebraico. Quali ricchezze potrebbe
portare all'esperienza cristiana?
«Il primo dato, in parte già ab-
bastanza recepito, è un grande
arricchimento nella lettura della
Scrittura, soprattutto valorizzan-
do il pluralismo delle interpreta-
zioni. In secondo luogo, l'ebrai-
smo insegna a valorizzare la si-
tuazione terrestre, a vivere cioè la
vita di quaggiù non come un pas-
saggio ma come il vero luogo do-
ve Dio ci ha messi e a riconoscer-
lo come un dono di Dio. Nel gior-
no del giudizio, dice un racconto
talmudico, ad ogni uomo verrà
chiesto conto dei piaceri che gli
sono stati offerti ma che non ha
goduto.
«Un'altra idea fondamentale
che l'ebraismo ha sempre avuto è
che la salvezza delle genti non ri-
chiede conversione ad un'altra
religione. Non crede cioè che i
pagani per salvarsi debbano di-
ventare ebrei: soltanto, secondo
le cosiddette "leggi di Noè", non
devono essere idolatri. E poi la
fedeltà: la fedeltà di Israele al suo
Dio, nonostante tutto quello che
è successo, resta un fatto straor-
dinario».
Il 27 gennaio si celebra, in Ita-
lia, la terza «giornata della memo-
ria». In che modo la shoà è stata
davvero un unicum nella storia
umana?
«Perché essa non era spinta da
logiche di conquista o da ragioni
di guerra. La condizione per es-
sere uccisi era semplicemente
quella di nascere. Questo secon-
do me, in modo programmatico,
non è mai avvenuto. Pensi alla fa-
tica che i nazisti hanno fatto nel-
l'andare a scovare ebrei dapper-
tutto. Probabilmente ciò ha ab-
breviato la guerra, perché questa
ricerca li distoglieva dagli scopi
bellici. Anche quando oramai
erano certi della sconfitta milita-
re hanno voluto, sino alla fine,
deportare gli ebrei nei campi di
sterminio».
Perché bisogna continuare a ri-
cordare?
«Per un fondamentale dovere
civile, anzitutto. E poi, perché la
conversione delle Chiese è stata
provocata in massima parte non
da un ripensamento teologico ma
dalla Shoà. È da fuori, non da
dentro, che è venuto il nuovo at-
teggiamento delle Chiese. Pensia- .
mo a tutta la storia cristiana e al
profondo antigiudaismo di cui
essa è stata pervasa. A partire dai
Padri della Chiesa. Giovanni Cri-
sostomo scriveva che gli ebrei
hanno recalcitrato come un ani-
male ribelle e gli animali ribelli al
giogo sono degni del macello.
Certo, erano figure retoriche,
però, a forza di retorica...»
Dov'era Dio ad Auschwitz? La
domanda è risuonata molte volte
nei campi di sterminio...
«Ho più volte ripetuto che una
delle colpe di Hitler è stata quel-
la di costringere gli ebrei a inter-
rogarsi su Dio, perche questo è
estraneo all'ebraismo. L'altro
giorno ho ricevuto un fax da un
anziano signore ebreo che vive a
Gerusalemme. Si chiama Jaques
Stroumsa e qualche anno fa,
presso la Morcelliana, gli ho pub-
blicato un libro che si intitola
Violinista ad Auschwitz. Stroum-
sa si è salvato ad Auschwitz ap-
punto perche suonava il violino
nell'orchestra che i nazisti, perfi-
damente, in alcune occasioni, fa-
cevano suonare al campo.
«L'anno scorso è venuto a Bre-
scia a presentare il libro: c'era
moltissima gente. Ad un certo
punto, ha preso quel violino e ci
ha suonato un pezzo di quello
che suonava ad Auschwitz. E sta-
ta un'esperienza insieme meravi-
gliosa e terribile. Adesso mi man- :
da un fax dicendomi: "Sono tor-
mentato. Come si fa a credere in
Dio dopo tutto quello che è suc-
cesso?" e mi prega di dialogare
con lui su questo tema. [Un lun-
go silenzio. ..] Dio pretende molto
da noi, moltissimo. Moltissimo».
Che dirà a quel violinista?
«Non so, adesso gli ho scritto
una lettera in cui gli riconfermo
il mio tormento. ..[Lungo silen-
zio. ..]. Gli ho ricordato una frase
ebraica: "Insegna alla tua lingua
a dire non so"».
Può essere sufficiente?
«No, no. Per questo io ho scrit-
to tante volte che la vita futura è
un'esigenza di Dio, non nostra. I
patriarchi, per esempio, moriva-
no beati e contenti senza avere la
più pallida idea della vita futura
a quell'epoca. È un'esigenza di
Dio nel senso che è la possibilità
che lui avrà di spiegarsi. Perché
quaggiù non ci spiega proprio
niente».
A proposito di "Giornata della
memoria", cosa è la memoria nel
mondo ebraico?
«È come la famiglia. È il mio
essere. È il mio collegamento con
la storia, con gli altri, con Dio.
Senza memoria io non sono. Ed è
sempre memoria raccontata. Che
racconta anche il futuro. Ma non
in termini di visioni: racconta il
futuro nel senso che io so (anche
se non so come) che si arriverà al
futuro di Dio».
Daniele Rocchetti
da "Il Cenacolo" del 1.2003