INCONTRO CON PAOLO DEBENEDETTI

IL PATRIMONIO COMUNE DEI FIGLI DI ABRAMO

  Il 27 gennaio si celebra la

terza "Giornata della memoria"

per non dimenticare gli orrori

della Shoà, dello sterminio degli ebrei.

E' un argomento che trattiamo -

nel quadro del dialogo inter-

religioso -con Paolo De Be-

nedetti, un teologo cattolico,

particolarmente impegnato

nel far conoscere l'ebraismo.

Docente di Giudaismo alla

Facoltà Teologica dell'ltalia

Settentrionale, di Antico

Testamento a Urbino e a

Trento, il professor Paolo

De Benedetti unisce rigore

e competenza ad un modo

narrativo così leggero e

così ebraico che rende

ogni sua lezione o

conferenza qualcosa

di affascinante e

di coinvolgente.

 

Ecumenismo e dialogo inter-

religioso sono parole che

sembrano essere definitiva-

mente entrate nel vocabolario dei

credenti...

«Questo è molto bello e impor-

tante, a patto che ci sia la neces-

saria chiarezza. Personalmente,

ho fatto inserire nei documenti

del Sinodo milanese tre tipi di

dialogo, da non confondere o so-

vrapporre l'uno con l'altro: l'ecu-

menismo intracristiano, che ha

come scopo la futura unità delle

chiese ed è I'ecumenismo in sen-

so proprio; il rapporto con Israele

che non mira alla conversione di

Israele ma è piuttosto un dialogo

delle chiese con se stesse al co-

spetto di Israele; infine le relazio-

ni con le altre religioni in cui si

cerca un terreno di intesa sui di-

ritti umani, su tante cose che non

sono propriamente religiose»,

Qualcuno contesta la linea del

dialogo, dicendo che questo mette

a rischio l'identità.

«Credo che quanti affermano

questo hanno una grande sfidu-

cia nella propria identità: hanno

una identità debole che vuole

reggersi sull'assenza dell'altro».

Siamo in una stagione particola-

re. Da una parte si sente sempre

più l'esigenza che le diverse tradi-

zioni religiose comincino a dialo-

gare più da vicino, dall'altra sem-

bra invece che questo dialogo sia

sempre più difficile. Come mai?

«Le cause sono diverse. Una,

forse banale ma secondo me im-

portante, è che tutte le grandi ini-

ziative dopo un po' si afflosciano:

un po' come il popolo ebraico che

dopo l'Esodo si normalizza. Una

altra ragione è che effettivamente

c'è stato in alcune Chiese -com-

presa quella cattolica -un riflus-

so di tipo, diciamolo in maniera

simbolica, "non conciliare". Infi-

ne, ho l'impressione che, molto

spesso, il dialogo ecumenico è

stato più un fatto di vertice e di

gesti simbolici che di popolo e di

comunità. Proprio in questi gior-

ni ho letto un documento dioce-

sano che chiede che siano le sin-

gole chiese a prendere le iniziati-

ve ecumeniche. Che a muoversi

non siano solo i vertici e che le

chiese abbiano una maggiore li-

bertà di movimento e di inven-

zione».

È ben strano però che il dialogo

appaia più una necessità di vertice

che non della base.

«Credo che in realtà ci sia un

dialogo di base che non viene ab-

bastanza pubblicizzato.Se il papa

abbraccia un patriarca, per esem-

pio, la notizia assume grande ri-

lievo, mentre se cattolici e rifor-

mati si riuniscono a studiare in-

sieme la Bibbia la cosa appare

scontata. È un motivo da tenere

presente. Inoltre, i grandi gesti

rientrano nel disegno di pubbli-

cità della nostra società: non co-

stano molto cari. Tenga conto

che l'abbraccio con il patriarca

non comporta di per se che ognu-

na delle due parti senta il bisogno

di cambiare. Sono gesti che di

per se non significano conversio-

ne, significano solo ritorno alle

buone maniere».

Anche il dialogo ebraico-cristia-

no pare attraversare un momento

di stanca. Quali sono le ragioni?

«Personalmente, sono molto

contrario che si usi l'espressione

dialogo ebraico-cristiano o dialo-

go cristiano-ebraico perche è un

termine improprio. Lo scopo, in-

fatti, è la conversione delle chie-

se. Non è -se non indirettamen-

te -quello di avere buoni rappor-

ti con gli ebrei o spiegare meglio

l'ebraismo o abbandonare le po-

sizioni ingiuriose nei loro riguar-

di. Sono tutte cose essenziali ma,

come ha ripetuto spesso il cardi-

nal Martini, lo scopo primo del

dialogo con l'ebraismo è che

cambi la Chiesa, la comprensio-

ne che la Chiesa ha di se, dell'ec-

clesiologia, della cristologia. Il

rapporto sembra bilaterale ma

non lo è. Siamo noi ad aver biso-

gno dell'ebraismo più di quanto

loro abbiano bisogno di noi».

Questo perchè non si dà fede

cristiana se non in una piena com-

prensione della fede ebraica?

«Su questo tema negli ultimi

decenni si è scritto moltissimo. Il

cristianesimo nasce come una

forma di ebraismo e ha alle sue

spalle la stessa realtà fondante

dell'ebraismo, cioè la Bibbia. La

Bibbia di Gesù, di Paolo è quella

che noi chiamiamo Antico Testa-

mento. Gesù ragiona con concet-

ti, mentalità, genere letterari, ti-

picamente ebraici. Il problema è

nato quando la Chiesa -lo dice

molto bene Rossi De Gasparis -è

diventata a schiacciante maggio-

ranza pagana ed ha sviluppato

una teologia dentro la quale la

mediazione ebraica non è più ne-

cessaria. Ha iniziato cioè a legge-

re l'antica Alleanza solo come

una prefigurazione della nuova.

Là, dunque, la profezia e, nel

Nuovo Testamento, il compimen-

to definitivo» .

Tutto ciò, dunque, secondo lei,

ha condotto al sorgere di numero-

si equivoci...

«Giovanni Paolo II ha detto

una cosa molta giusta: l'ebraismo

e il cristianesimo sono legati al li-

vello della loro stessa identità. Lo

dico con altre parole: non sono

due religioni, sono due forme

dell'alleanza. Dire questo signifi-

ca dire che non si può più soste-

nere (e praticare) la teologia del-

la sostituzione. Ancora oggi nella

liturgia e in tante prediche noi

sentiamo dire che la chiesa è il

"nuovo popolo di Dio". La chiesa

non è il nuovo popolo di Dio. C'è

un solo popolo di Dio, che è

Israele, che è sempre popolo di

Dio (questo lo dicono anche i do-

cumenti vaticani) e quindi le pro-

messe di Dio ad Israele (come af-

ferma l'apostolo Paolo nella lette-

ra ai Romani) valgono sempre».

Dove sta allora la specificità del-

la fede cristiana ?

«La rivelazione cristiana è una

persona: Gesù, il Cristo. Non è un

caso che i Vangeli siano quattro e

non uno solo (come una volta

quando si faceva il vangelo "uni-

ficato"). Ossia che questo uno -

secondo il modo ebraico -viene

interpretato in varie maniere.

Non c'è mai una sola interpreta-

zione di un testo biblico e così su

questa parola fatta carne ci sono

almeno cinque interpretazione: i

quattro vangeli e Paolo. Non è

neanche giusto dire che il cristia-

nesimo perfeziona l'ebraismo. Il

superamento cristiano dell'ebrai-

smo ha un senso geografico, non

storico, nel senso che rende uni-

versale il messaggio».

Eppure è incontestabile che la

rivelazione, da questo punto di vi-

sta, introduce una rottura.

«Certamente introduce una di-

stinzione tra quelli che vedono in

Gesù la Parola e quelli che non la

vedono. Gli uni sono i cristiani,

gli altri gli ebrei. Questa distin-

zione è difficile trattarla in ma-

niera non polemica. Per questo si

è spesso parlato della "durezza di

cuore" degli ebrei e del loro rifiu-

to. Ma storicamente non è avve-

nuto così: al tempo di Gesù mi-

lioni di ebrei non s'erano nean-

che accorti della sua esistenza.

Quando la predicazione verso gli

ebrei è cominciata è stata coatta

e ingiuriosa, e questo non aiutava

certo la mutua comprensione. È

stata anche una rottura culturale,

linguistica e geografica perchè

dopo la distruzione di Gerusa-

lemme i nuclei ebraici che hanno

resistito erano quelli in Babilonia

dove il cristianesimo era quasi

inesistente. Il cristianesimo è an-

dato verso Occidente, l'ebraismo

verso Oriente e si sono consolida-

ti come due entità separate».

Lei conosce da vicino il mondo

ebraico. Quali ricchezze potrebbe

portare all'esperienza cristiana?

«Il primo dato, in parte già ab-

bastanza recepito, è un grande

arricchimento nella lettura della

Scrittura, soprattutto valorizzan-

do il pluralismo delle interpreta-

zioni. In secondo luogo, l'ebrai-

smo insegna a valorizzare la si-

tuazione terrestre, a vivere cioè la

vita di quaggiù non come un pas-

saggio ma come il vero luogo do-

ve Dio ci ha messi e a riconoscer-

lo come un dono di Dio. Nel gior-

no del giudizio, dice un racconto

talmudico, ad ogni uomo verrà

chiesto conto dei piaceri che gli

sono stati offerti ma che non ha

goduto.

«Un'altra idea fondamentale

che l'ebraismo ha sempre avuto è

che la salvezza delle genti non ri-

chiede conversione ad un'altra

religione. Non crede cioè che i

pagani per salvarsi debbano di-

ventare ebrei: soltanto, secondo

le cosiddette "leggi di Noè", non

devono essere idolatri. E poi la

fedeltà: la fedeltà di Israele al suo

Dio, nonostante tutto quello che

è successo, resta un fatto straor-

dinario».

Il 27 gennaio si celebra, in Ita-

lia, la terza «giornata della memo-

ria». In che modo la shoà è stata

davvero un unicum nella storia

umana?

«Perché essa non era spinta da

logiche di conquista o da ragioni

di guerra. La condizione per es-

sere uccisi era semplicemente

quella di nascere. Questo secon-

do me, in modo programmatico,

non è mai avvenuto. Pensi alla fa-

tica che i nazisti hanno fatto nel-

l'andare a scovare ebrei dapper-

tutto. Probabilmente ciò ha ab-

breviato la guerra, perché questa

ricerca li distoglieva dagli scopi

bellici. Anche quando oramai

erano certi della sconfitta milita-

re hanno voluto, sino alla fine,

deportare gli ebrei nei campi di

sterminio».

Perché bisogna continuare a ri-

cordare?

«Per un fondamentale dovere

civile, anzitutto. E poi, perché la

conversione delle Chiese è stata

provocata in massima parte non

da un ripensamento teologico ma

dalla Shoà. È da fuori, non da

dentro, che è venuto il nuovo at-

teggiamento delle Chiese. Pensia- .

mo a tutta la storia cristiana e al

profondo antigiudaismo di cui

essa è stata pervasa. A partire dai

Padri della Chiesa. Giovanni Cri-

sostomo scriveva che gli ebrei

hanno recalcitrato come un ani-

male ribelle e gli animali ribelli al

giogo sono degni del macello.

Certo, erano figure retoriche,

però, a forza di retorica...»

Dov'era Dio ad Auschwitz? La

domanda è risuonata molte volte

nei campi di sterminio...

«Ho più volte ripetuto che una

delle colpe di Hitler è stata quel-

la di costringere gli ebrei a inter-

rogarsi su Dio, perche questo è

estraneo all'ebraismo. L'altro

giorno ho ricevuto un fax da un

anziano signore ebreo che vive a

Gerusalemme. Si chiama Jaques

Stroumsa e qualche anno fa,

presso la Morcelliana, gli ho pub-

blicato un libro che si intitola

Violinista ad Auschwitz. Stroum-

sa si è salvato ad Auschwitz ap-

punto perche suonava il violino

nell'orchestra che i nazisti, perfi-

damente, in alcune occasioni, fa-

cevano suonare al campo.

«L'anno scorso è venuto a Bre-

scia a presentare il libro: c'era

moltissima gente. Ad un certo

punto, ha preso quel violino e ci

ha suonato un pezzo di quello

che suonava ad Auschwitz. E sta-

ta un'esperienza insieme meravi-

gliosa e terribile. Adesso mi man- :

da un fax dicendomi: "Sono tor-

mentato. Come si fa a credere in

Dio dopo tutto quello che è suc-

cesso?" e mi prega di dialogare

con lui su questo tema. [Un lun-

go silenzio. ..] Dio pretende molto

da noi, moltissimo. Moltissimo».

Che dirà a quel violinista?

«Non so, adesso gli ho scritto

una lettera in cui gli riconfermo

il mio tormento. ..[Lungo silen-

zio. ..]. Gli ho ricordato una frase

ebraica: "Insegna alla tua lingua

a dire non so"».

Può essere sufficiente?

«No, no. Per questo io ho scrit-

to tante volte che la vita futura è

un'esigenza di Dio, non nostra. I

patriarchi, per esempio, moriva-

no beati e contenti senza avere la

più pallida idea della vita futura

a quell'epoca. È un'esigenza di

Dio nel senso che è la possibilità

che lui avrà di spiegarsi. Perché

quaggiù non ci spiega proprio

niente».

A proposito di "Giornata della

memoria", cosa è la memoria nel

mondo ebraico?

«È come la famiglia. È il mio

essere. È il mio collegamento con

la storia, con gli altri, con Dio.

Senza memoria io non sono. Ed è

sempre memoria raccontata. Che

racconta anche il futuro. Ma non

in termini di visioni: racconta il

futuro nel senso che io so (anche

se non so come) che si arriverà al

futuro di Dio».

Daniele Rocchetti

da "Il Cenacolo" del 1.2003