Per
una chiesa della convivialità delle differenze
A)
Ciò che fa problema in alto è l'esperienza comunitaria
Il
vescovo fino ad ora non mi ha comunicato nulla e non ha accolto la richiesta di
un dialogo con la comunità e con me. Cerco quindi di dialogare e spiegarmi
attraverso queste righe. Esse, certo, non mi permettono di articolare un
discorso, ma di procedere per accenni.Vorrei premettere che questo provvedimento
va inserito nell'attuale momento in cui il Vaticano sollecita i vescovi a
"vigilare". E i vescovi, in stragrande maggioranza, sono estremamente
obbedienti. Ovviamente non è un "tapino" come me che rappresenta una
destabilizzazione per l'istituzione ecclesiastica o per l'ortodossia. Chi mi
conosce sa la pochezza della mia persona e delle mie azioni, la fragilità che
caratterizza la mia vita, quanto riconosco di aver bisogno di tenerezza, di
preghiera e di aiuto per perseverare sul sentiero di Gesù.
Ciò
che allarma in alto è l'esperienza di comunità cristiane i cui membri, con
tutti i loro limiti, sono profondamente inseriti nella ricerca biblica e
teologica, nell'impegno sociale e politico, nel volontariato, nella difesa della
laicità dello Stato e delle sue istituzioni, nella promozione della convivialità
delle differenze. Sempre di più si tratta di comunità collegate tra di loro,
nelle quali le donne hanno preso voce e spazio, dove le strutture maschiliste e
autoritarie vengono radicalmente destituite di autorevolezza perché prive di
rappresentanza reale, dove la "narrazione" della fede sta superando
una visione dogmatica. A mio avviso, la gerarchia è turbata dal fatto che le
piccole e fragili realtà di base hanno collegamenti costanti con centinaia di
preti, con centri teologici, con molte esperienze interne all'istituzione. In più
un lavoro collettivo di dialoghi, di viaggi, di traduzioni, di convegni, di
scritti allarga orizzonti fino a pochi anni fa impensabili.
La
nostra comunità, che non è nulla di grande o di esemplare, vive in rapporto di
scambio, di dialogo e di amicizia con oltre 500 preti italiani e stranieri, con
teologi e teologhe di varie chiese cristiane. Se penso al mio quotidiano vagare
tra un gruppo e una comunità, tra una associazione ed un convegno, ringrazio
Dio perché mi ha regalato tanti laboratori comunitari in cui imparare,
ascoltare, crescere insieme nella fede e nell'impegno. Che bello vedere amori
che nascono, sederci vicino per pregare, per studiare, per piangere di gioia o
di dolore. Che bello sentire la forza ed il calore dell'abbraccio dell'uomo e
della donna con cui cerchi i segni dell'amore di Dio in tante esistenze
"sconfitte e maledette". Non capisco quando il vescovo mi ammonisce
"circa la dottrina predicata". In modo assolutamente indegno ed
inadeguato ma almeno sincero, io cerco di predicare il Vangelo, mai una
dottrina. Questo ho imparato camminando con tanti uomini e tante donne. Non mi
interessa nemmeno una nuova dogmatica o una nuova teologia. Cerco di lavorare
perché fioriscano molte narrazioni della fede che amino confrontarsi con
spirito accogliente. Non sogno né una comunità ideale in cui tutti la pensino
alla mia maniera né mi ritengo migliore di altri.
B)
Non nego affatto i principali misteri della fede
Su
questo punto sento la necessità di esprimermi più compiutamente, sia pure
nell'esiguità di questo spazio. Qualche accenno alla riflessione cristologica e
trinitaria.
Le
riflessioni che qui propongo vogliono evitarci di cadere nell'errore di chi non
tiene conto della tradizione dogmatica che, ad una lettura storica, risulta
comprensibile e, spesso, anche apprezzabile. Essa ha rappresentato un
significativo modello di mediazione culturale dell'annuncio cristiano, per
quanto parziale e provvisorio. Ho più volte sottolineato che "Nicea e
Calcedonia, pur con tutte le loro ambiguità, hanno il grande "merito"
di aver tentato di "tenere insieme" Dio e Gesù "nel senso che,
per noi cristiani, Gesù è la via che conduce a Dio e la strada e la
causa di Gesù sono la strada e la causa di Dio. Nell'esistenza storica del
profeta di Nazareth noi incontriamo davvero il testimone di Dio, colui che ci
manifesta la volontà, le scelte e l'amore con cui Dio ama" (1). Ma è del
tutto evidente che, fermarci a tali formulazioni, significa imbalsamarle, mentre
siamo chiamati a ridire la fede riscrivendola nei linguaggi del nostro tempo. Da
queste constatazioni nascono la libertà e l'impulso verso nuovi sentieri.
In
questo "maledetto" tempo ci sono non poche benedizioni per la
nostra esperienza cristiana.
Il
castello dogmatico, tutto perfettamente sagomato, definito e custodito (e
perfino ferocemente difeso), lascia trasparire il peso dei suoi anni. La
ripetizione di quelle formule di Nicea e Calcedonia, fuori dal contesto e dalla
discussione che le ha prodotte, fa pensare ad una vera e propria imbalsamatura
di Gesù, ad una fotografia della stessa vita intima di Dio (la Trinità
ontologica e le sue operazioni). Infatti le "costruzioni teologiche sono
'case' in cui vivere per un tempo, con finestre semiaperte e porte socchiuse;
diventano prigioni quando non ci consentono più di andare e venire, di
aggiungere una stanza o di toglierne una o, se necessario, di lasciarle e
costruirci una casa nuova" (1bis).
Per
molti cristiani, sulla scia dell'insegnamento ufficiale, le formule dogmatiche
cristologiche e trinitarie sono la fedele traduzione ed esplicitazione delle
Scritture. Una parte, in verità molto consistente e pubblicizzata, delle
trattazioni dogmatiche si esprime in questa direzione, senza lasciar spazio
alcuno a quelle domande che emergono dalla consapevolezza della storicità del
dogma, dalla "contingenza e parzialità" dei linguaggi e degli
immaginari umani. Lo studioso Bernard Sesboué arriva a dire che "Nicea non
è altro che una conclusione tratta a partire dal Vangelo" (2). Sia pure
con sfumature diverse, questo è l'orizzonte ideologico assolutamente
pacifico della manualistica più nota e del "Catechismo della Chiesa
Cattolica" appena edito (3). La persona che percorre il suo itinerario
di iniziazione cristiana normalmente introietta questo dato catechistico:
analizza la Bibbia e spremila e ne ottieni il succo trinitario e cristologico
ufficiale. Fuori da questo "spazio della verità" esiste il nulla o
l'eresia. La visione storica dell'intrecciarsi continuo di mille ricerche e la
permanente realtà plurale delle teologie cristiane vengono completamente
rimosse.
Questa
operazione continuista, un vero e proprio falso storico (4), trova ampia
diffusione perché la censura vaticana pratica la sistematica persecuzione o
emarginazione dei dissenzienti, ma anche perché la maggioranza degli
intellettuali "laici", quando si addentra in argomentazioni religiose
e in ambiti dogmatici, recita le formule del catechismo di prima comunione, con
qualche abbellimento linguistico (Eugenio Scalfari in testa…).Così la
versione televisiva e giornalistica è sostanzialmente papalina.
Come
è squallidamente evidente in questi mesi, il martellamento e l'inquinamento
giubilare cattolico sono presenti su tutti i canali televisivi, senza che arrivi
alle nostre orecchie qualche consistente analisi critica.
L'illusione
continuista ha una funzione inibitoria anche rispetto al futuro dell'esperienza
cristiana. Se vengo abituato a nutrirmi di pillole dogmatiche anziché di
proteine bibliche, se vengo defraudato del plurale, di quella comunione delle
differenze, di quel ventaglio esplosivo, di quei mille frammenti (5) che
caratterizzarono il movimento di Gesù fin dal suo nascere, la struttura della
mia fede è esposta al rischio di identificarsi con quel solo modello,
con pericolose tentazioni di possesso e di esclusività (6). Poste tali
premesse, la mia tentazione sarà quella di leggere il mosaico delle Scritture
con occhiali dogmatici. Ciò mi renderà molto più difficile gioire
della perla preziosa delle mille diversità cristiane, della positiva "babelicità"
che non necessariamente diventa contrapposizione. Come farò a dirmi che molto
spesso è stata dichiarata "eretica" la posizione non funzionale al
potere e, invece, è stata ufficializzata come verità di fede l'opinione del
partito vincente? Che altro è l'ortodossia?
Né
questa dottrina ufficiale può accaparrarsi il monopolio della tradizione. La
tradizione cristiana, infatti, è anch'essa molto più ricca, molto più
variegata, molto più viva, bella e plurale. Le teologie che hanno costruito la grande
e contradditoria tradizione cristiana sono la smentita più sonora del
monolitismo e dell'uniformità (7). Kueng, nel suo Cristianesimo, scrive così:
"Se si volessero giudicare tutti i cristiani dell'età prenicena alla luce
del concilio di Nicea (e delle sue interpretazioni), sarebbero eretici (almeno
dal punto di vista materiale) non soltanto i giudeocristiani, ma anche quasi
tutti i Padri della chiesa greci; essi, infatti, insegnarono con tutta
naturalezza una subordinazione del 'Figlio' rispetto al 'Padre', che secondo il
successivo criterio della definizione equiparatrice di una 'uguaglianza di
sostanza', stabilito dal Concilio di Nicea, è da considerarsi eretica. Di
fronte a questa situazione non si può evitare il seguente interrogativo: se
invece del Nuovo Testamento si vuole elevare a criterio semplicemente il
concilio di Nicea, chi nella chiesa antica dei primi secoli era ancora ortodosso
?" (Hans Kueng, Cristianesimo, Rizzoli, Milano, pag.112).
Se,
ritornando più succintamente al nostro tema, osserviamo la questione
cristologica nel lungo dipanarsi della matassa storica e teologica e poniamo
attenzione al continuo "affanno" storico, esegetico e dogmatico
attorno all'evento Gesù di Nazareth, ci accorgiamo che si tratta di una
"ebollizione" mai sedata, di una ricerca incessante e mai paga
del già "definito", del già detto. Attorno a Gesù, al suo
ministero, alla sua funzione, alla sua persona, alla sua storia, al suo
messaggio… la discussione non si è mai spenta. Ad onta di tutte le
versioni ufficiali e di tutte le definizioni conciliari, le cristologie non sono
mai diventate uno stagno, ma sono rimaste sempre un mare aperto, mosso e
vitalmente attraversato da molte correnti diverse, ora visibili ora sotterranee,
e da forti conflitti. Se gli stessi concilii di Nicea, di Efeso e di Calcedonia
sono stati spazi di ebollizione mai sedata, l'ideologia del continuismo
cristologico ufficiale nasconde un fatto storico oggi incontestabile: da
Nicea a Calcedonia, e ben oltre, un concilio innesca la miccia che rende
necessario un altro concilio perché il fuoco cristologico delle questioni
irrisolte e controverse cresce di volta in volta. Ad un singolo concilio non
riesce mai di esprimere compiutamente la ricerca pluriforme delle comunità,
delle chiese, dei teologi, delle scuole teologiche e molti interrogativi
ricompaiono puntualmente dopo ogni tentativo di sistemazione dottrinale.
Quello
che Dio ha operato e manifestato nell'uomo Gesù di Nazareth sembra far
scoppiare i nostri presuntuosi contenitori dogmatici. Il dibattito sulle
teologie cristologiche e, conseguentemente, trinitarie sta esplodendo con grande
vivacità e consapevolezza. Le grandi accademie dell'ufficialità cattolica,
protestante e ortodossa continuano a recitare, difendere e reinterpretare le
formulazioni dogmatiche di Nicea, Costantinopoli e Calcedonia, ma i più fecondi
laboratori storici, esegetici e teologici sembrano aver "cambiato
casa". Centinaia di teologi e teologhe lavorano in modo più sotterraneo,
coraggioso e documentato in ben altre direzioni (8), valorizzando al massimo
livello sia gli strumenti degli studi accademici, sia le domande poste dai
credenti e, soprattutto, dalle credenti di oggi. Il giusto rispetto per le tappe
del passato si congiunge alla responsabilità dei nuovi linguaggi con cui dire
Dio oggi.
La
"rottura culturale" che, come svolta profonda, ha segnato il nostro
tempo "postmoderno" ha anche registrato l'irruzione di molti stimoli
positivi: il dialogo ebraico-cristiano, il cammino ecumenico, le teologie della
liberazione, le teologie femministe, il dialogo con le religioni, un nuovo
fiorire di ricerche esegetiche, storiche e dogmatiche. Lo stesso Concilio
Vaticano II ha rappresentato, pur con il compromesso delle formule che lo ha
caratterizzato, un momento in cui si sono aperti spazi nuovi. La ricerca
cristologica vive da almeno cento anni una stagione straordinariamente viva e
feconda (9).
Dunque,
pur in mezzo a guerre e drammi, anche se stretti da tutte le parti da una
politica vaticana oppressiva, Dio non ha cessato di offrirci nuove opportunità.
Voglio dire che tutto questo travaglio e questo fermento ai quali ho fatto cenno
possono rappresentare un Kairòs. "Kairòs è un punto della storia
in cui, a motivo della particolare costellazione di eventi e di personalità,
sono latenti possibilità e progressi genuinamente nuovi. Esso non è
soltanto una situazione, ma è anche una opportunità. Se lo perdiamo,
perdiamo qualcosa di molto importante" (10). Se noi, al crocevia di queste
rilevanti opportunità, non assumiamo la responsabilità che il Kairòs ci
affida e ci rifugiamo nella ripetizione del passato, rischiamo di "porre la
luce del Vangelo sotto il moggio e di rendere più difficile la fede nella buona
novella" (11). Cogliere questo Kairòs significa per il cristianesimo ,
secondo questo orientamento di prassi e di pensiero, valorizzare
"l'opportunità di crescere e di evolversi in maniera genuina e di
comprendere il Vangelo in modo nuovo, in una maniera che permette alla potenza
del Vangelo di continuare a brillare in forme fresche e più comprensibili"
(12).
Noi,
in questo passaggio, non stiamo "rompendo" con la fede dei nostri
padri. Talune discontinuità teologiche non negano una sostanziale continuità
nella fede.
Non
stiamo nemmeno "inventando" un'operazione inedita. Nel corso della
lunga esistenza del movimento di Gesù i linguaggi cristiani hanno più volte
dovuto fare i conti con il mutevole contesto storico. Semmai è il fatto che noi
oggi ci siamo fermati alle formule di Nicea e Calcedonia e le abbiamo
imbalsamate a costituire problema. I nostri "padri" hanno cercato di
dire per il loro tempo – in bene e in male – il cuore della loro fede. Noi,
in un contesto completamente e radicalmente mutato, ci permettiano di ripetere
pigramente quelle formule, storicamente situate e linguisticamente contingenti,
figlie di una cultura e di un immaginario che abbiamo in larga misura alle
spalle. Questo aggrapparci a tali formulazioni, come se esse fossero la
fotografia della verità e delle reliquie intangibili, offende lo spirito di
ricerca di quelle generazioni di credenti.
La
genesi storica di quegli antichi linguaggi, sia pure con le ombre che i secoli
non ci permettono di dissipare, ha ragioni ben comprensibili. Quando le comunità
primitive entrarono nell'area della cultura greco-romana e persero
progressivamente contatto con le loro radici ebraiche (13), le immagini mitiche
e le categorie funzionali di "figlio di Dio" e di
"incarnazione" furono ontologicizzate e trasformate in categorie
assolute ed esclusive. Il linguaggio mitico, poetico, narrativo "si
trasformò in prosa solida e passò da un metaforico figlio di Dio a indicare un
metafisico Dio Figlio, della stessa sostanza del Padre" (J. Hick).
Oggi
siamo diventati più coscienti che questi dogmi cristologici e trinitari hanno
alle loro spalle una storia e si sono storicamente "costruiti",
in bene e in male, anche in risposta a situazioni culturali, comunitarie,
pastorali e politiche del tempo in cui furono redatte. Quindi lo schema
trinitario che si è insediato nella dogmatica e nella liturgia va compreso ed
eventualmente superato o reinterpretato a partire da questa consapevolezza.
Si
tratta di un percorso storico e culturale che oggi molti studiosi e studiose
hanno ricostruito con sufficiente chiarezza. Mi permetto di citarne uno tra
mille: "Gli studiosi del Nuovo Testamento oggi sono tutti ampiamente
d'accordo, compresi anche i più conservatori fra essi, che il Gesù storico
stesso non insegnava che Egli era Dio Figlio, la seconda persona della Trinità
divina, vivente una vita umana. Egli era profondamente cosciente che Dio era il
Padre celeste, la sua vita (certamente durante i due o tre anni del suo
ministero) era dedicata alla proclamazione dell'imminente arrivo del regno di
Dio e alla manifestazione del suo potere negli atti di guarigione, era dedicata
pure all'insegnamento di come vivere per poter diventare parte del regno che
stava per essere stabilito. Egli probabilmente si considerava l'ultimo profeta,
che aveva la missione d'essere l'araldo della fine di un'epoca. Forse si fregiò
di uno dei due titoli principali che la tradizione ebraica offriva a colui che
avrebbe ricoperto questo ruolo – quello del figlio dell'uomo che doveva
giungere in gloria sulle nubi celesti, e quello del messia che doveva governare
il mondo dal suo nuovo centro, Gerusalemme. Nessuno dei due ruoli, si noti bene,
voleva indicare la divinità; entrambe le figure erano quelle di glorificati
servitori umani di Dio. Ma è ugualmente possibile che Gesù abbia rifiutato
tutte le identificazioni, e forse furono i suoi seguaci a conferirgli questi e
altri titoli. Oppure egli avrebbe potuto usare il termine "figlio
dell'uomo" semplicemente come un ebraismo, un termine che poteva essere
rivendicato da chiunque.
Il
titolo "figlio di Dio", che è diventato standard nella
teologia della chiesa, probabilmente ebbe inizio nell'Antico Testamento e un uso
più ampio si ritrovava nell'antico Vicino Oriente in cui significava servitore
speciale di Dio. In questo senso i re, gli imperatori, i faraoni, i grandi
filosofi, coloro che compivano cose strabilianti, e gli altri uomini santi erano
comunemente chiamati figli di Dio. Ma quando il vangelo travalicò il suo
ambiente giudaico verso il mondo non-cristiano dell'impero romano, questa poesia
si trasformò in prosa e la metafora vivente venne congelata in un dogma rigido
e letterale. Era per trovare un posto a questa figliolanza metafisica che la
chiesa, dopo ben tre secoli di dibattiti contrastanti, si decise a teorizzare
che Gesù aveva due nature, una divina e l'altra umana: attraverso quella divina
era una sola sostanza con Dio Padre e in quella umana era una cosa sola con
l'umanità – una costruzione filosofica così lontana dal mondo del pensiero e
dell'insegnamento di Gesù stesso come in modo parallelo la dottrina buddhista
mayahana del Trikaya, da quella dello storico Gautama.
Ma
vi sono sempre state altre linee di pensiero cristologico, anche se le
variazioni erano ufficialmente oppresse durante il lungo e relativamente
monolitico periodo della cristianità medievale" (13bis).
Era
naturale che le comunità primitive, nel contesto della nuova cultura,
cercassero di esprimere la loro esperienza di Gesù con questi concetti
filosofici e nel liguaggio degli assoluti (14). "Quei padri conciliari
parlavano da cristiani, ma pensavano da greci", ma "noi non siamo
obbligati ad accettare i presupposti filosofici e antropologici di quei concili
greci come condizione di una fede viva…In essi l'uomo Gesù, ebreo di
Nazareth, scomparve… . Inoltre, ciò che quei concili intendevano dire fu
essenzialmente indurito e spesso distorto nella catechesi, nella predicazione e
nella teologia" (15). Ecco perché diventa antistorico mantenere
ossessivamente l'intangibilità di quelle formulazioni: "Il modello di
Calcedonia non parla più in termini umani ed è di solito incomprensibile"
(16). Basti pensare alla distanza che esiste tra l'attuale concetto di persona
rispetto all'ipostasi del passato. Oggi, nella mutata costellazione
dell'esperienza umana soggettiva e oggettiva, la dottrina cristiana delle due
nature dà luogo ad una vera "fallacia ipostatica" con "il
rischio di ridurre Gesù a un semplice manichino guidato da un burattinaio
invisibile. In tale modo la cristologia dei Vangeli viene inserita in un modello
a lei estraneo e di fatto la figura umana di Gesù è completamente
falsata" (17).
Oggi,
riprendendo un contatto mai completamente interrotto con molte cristologie di
tutti i secoli passati, fiorisce una ricerca cristologica che non parte più
dalla questione del rapporto tra le due nature in Gesù, ma da ciò che è
centrale nella testimonianza dei Vangeli: Gesù è vissuto in una comunicazione
profonda con Dio e , per noi cristiani, in forza della chiamata che Dio gli ha
rivolto, in forza della missione particolarissima che Dio gli ha affidato, egli
è il testimone, l'epifania, la icona, la sapienza di Dio, la parabola di Dio,
il "figlio prediletto" (18). Egli è cresciuto in totale obbedienza e
dedizione al regno di Dio. "Gesù non ha mai fatto della sua persona la
realtà ultima e centrale…Gesù addita oltre se stesso, a un mistero
carico di senso… che egli chiama "Padre più grande di me" (19).
Gesù,
dunque, non è un semidio o un essere metastorico, una persona con due nature.
Egli è esclusivamente uomo "e non ha alcuna maggiorazione che lo faccia
diverso da noi. Gesù, perciò non ha rivelato Dio perché nella sua natura
umana fosse divino, ma perché era stato reso così umano da diventare
traduzione del progetto che Dio ha dell'uomo, era diventato così trasparente
alla presenza di Dio da consentirne la piena manifestazione nella carne"
(20).
Certo,
tutto questo ad intra per noi cristiani, senza vantare nessun monopolio
dell'epifania, delle testimonianze di Dio in altre vie di salvezza.
Ecco
perché "è impossibile vincolare l'esperienza cristiana alla concezione
teologica della divinità di Gesù " (21) e perché "identificare
Gesù Cristo con Dio va oltre la testimonianza delle scritture cristiane"
(22).
Sarebbe
fuorviante pensare che questo orizzonte teologico "diminuisca" il
ruolo e la rilevanza di Gesù nella nostra vita cristiana (23).
E'
proprio Gesù che ha messo i suoi discepoli sulla strada della diocentralità.
Il suo richiamarsi a Dio è profondo e costante.
Questa
prospettiva, saldamente ancorata all'evangelo, che riconduce tutta l'opera e
l'esistenza dell'artigiano e profeta di Nazareth nel servizio della
signoria-regno di Dio, non diminuisce di un millimetro l'importanza essenziale
di Gesù per un cristiano/a, ma fa propria la consapevolezza, felice e
liberante, che il fenomeno cristiano non esaurisce il campo e l'azione salvifica
di Dio.
Dio
e la Sua salvezza sono più grandi anche del cristianesimo, sono più grandi di
Gesù.
Ma,
per preservare i nuovi linguaggi dalle diffuse patologie catechistiche, è
importante sapere che nessuna cristologia è universalmente "parlante"
e che di nessuna formulazione occorre fare un idolo. Le nostre elaborazioni
restano sempre approssimazioni. Anche in teologia possiamo "innalzare idoli
nel nostro cuore", come dice il profeta Ezechiele. Ma c'è di più:
l'elemento decisivo è sempre, come ha fatto e insegnato Gesù, accogliere in
noi l'amore con cui Dio ama il mondo e compiere la Sua volontà. Su questo
terreno le diverse teologie, anziché minacciare l'unità della fede, la
costruiscono facendone brillare i molteplici colori. Ma il problema non può
essere rimosso: "Poche cose hanno contribuito all'irrilevanza del
cristianesimo come la scuola di catechismo… La potenza originaria dei
grandi simboli cristiani è andata perduta… Ora sono delle pietre di
inciampo… L'impossibilità della persona moderna di comprendere il linguaggio
della tradizione riguarda quasi tutti i simboli cristiani… Essi hanno perso
il potere di trafiggere l'anima…" (24).
Non
possiamo sottrarci a questo impegno di ridire, con parole sia vecchie che nuove,
l'evento della salvezza, l'amore di Dio per questo mondo. Non si tratta di
maledire le istituzioni ecclesiastiche, ma di accettare il rischio che la fede
nel Dio di Gesù ridiventi la più radicale messa in crisi anche della religione
e della dogmatica ufficiale (25). Senza mai dimenticare che, per noi, ciò che
è decisivo non è la nostra cristologia, ma la sequela di Gesù nella vita di
ogni giorno. La teologia vive a servizio dell'amore, oppure è parola vana,
vuota dottrina.
Note
(al punto B)
Sono
costretto a citare soltanto alcune delle ricerche cristologiche più recenti
data la natura del presente scritto. La bibliografia è quasi immensa.
(1)
AA. VV., Gesù di Nazareth, CNT, Roma 1991, pag. 75. (1bis) SALLIE
McFAGUE, Modelli di Dio, Claudiana, Torino 1998, pag. 49. (2) B. BESBOUE',
Gesù Cristo nella tradizione della chiesa, Paoline, Cinisello Balsamo 1987,
pag. 106. Sostanzialmente convergenti le opere di Alois Grillmeier, di Marcello
Bordoni, di Bruno Forte e di gran parte della produzione protestante più legata
al pensiero barthiano. (3) Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria
Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992. (4) Fondamentali tutte le opere -
ben note ai lettori – di Hans Kung, Eduard Schillebeeckx, John Hick e Paul
Knitter. Si tratta di oltre quaranta impegnative pubblicazioni nell'arco deglil
ultimi 30 anni. In particolare HANS KUNG, Cristianesimo, Rizzoli, Milano
1997 e PAUL KNITTER, Una terra molte religioni, Cittadella, Assisi 1998.
(5) Si veda "La chiesa in frammenti" (Concilium 3/97); "La
riscoperta di Gesù" ( Concilium 1/97); MAURO PESCE in Annali di
storia dell'esegesi 14/97, pag. 11-38; ELENA LOEWENTHAL, Gli ebrei questi
sconosciuti, Baldini & Castoldi; "Questioni non risolte"
(Concilium 1/99); DAVID FLUSSER, Jesus, Morcelliana; SALVATORE NATOLI, Dio
e il divino, Morcelliana, Brescia 1999. (6) ERICH ZENGER, Il primo
testamento, Queriniana, Brescia 1997; J. HICK – P. KNITTER, L'unicità
cristiana: un mito?, Cittadella, Assisi 1994; ROLF RENDTORFF, Cristiani
ed ebrei oggi, Claudiana, Torino 1999; KARL JOSEF KUSCHEL, Generato prima
di tutti i secoli?, Queriniana, Brescia 1996. Interessanti le riflessioni di
Ortensio da Spinetoli comparse in riviste teologiche di base e le opere di Eugen
Drewermann. (7) Si veda ADOLF HOLL, Gesù in cattiva compagnia, Einaudi,
Torino 1991 (la prima edizione è del 1971); AA.VV., Gesù di Nazareth,
CNT, Roma 1991; JON SOBRINO, Gesù Cristo liberatore, Cittadella, Assisi
1990; JULIE M. HOPKINS, Verso una cristologia femminista, Queriniana,
Brescia 1996; E. SCHUSSLER FIORENZA, Gesù figlio di Miriam, profeta della
sofia, Claudiana, Torino 1996; E. P. SANDERS, Gesù, Mondadori
1995; J R. GUERRERO, L'altro Gesù, Borla, Roma 1977; C. MOLARI, La
fede nel Dio di Gesù, Edizioni Camaldoli 1991; di grande interesse ROBERTO
DE MATTEI, A sinistra di Lutero, Città Nuova, Roma 1999, che registra il
plurale della tradizione. (8) Si veda l'opera stupenda della suora e teologa
cattolica ELISABETH A. JOHNSON, Colei che è, Queriniana, Brescia 1999.
L'autrice rilegge tutta la dottrina trinitaria in chiave simbolica denunciando
le deviazioni che la ripetizione delle formule conciliari ha causato e la loro
inintelligibilità ed inadeguatezza per il nostro tempo. Nelle pagine di questo
volume a più riprese viene illustrato il processo storico che ha portato alla
costruzione del dogma trinitario, "un pensiero che fu elaborato in una
cornice speculativa ellenistica" (pag. 387) e viene rilanciata la
consapevolezza dei linguaggi allusivi, simbolici, analogici del nostro parlare
di Dio per evitare di credere che i nostri linguaggi teologici
"descrivano" la vita interna di Dio. Si veda JOHN HICK in "L'unicità
cristiana: un mito?", op. cit. pagg. 104-105. In quest'opera si trova
un vasto panorama bibliografico. Mi permetto qui di raccogliere alcune
osservazioni di una notissima teologa protestante, J. M. HOPKINS, tratte dal suo
volume "Verso una cristologia femminista" (op. cit.). Un libro
assolutamente da leggere. Le riflessioni cristologiche al femminile vengono
ripercorse con grande ampiezza e competenza. Molto vivace e coraggiosa la
rimessa in discussione delle formulazioni di Nicea e Calcedonia, nella
consapevolezza che "una cristologia dogmatica universale non è
possibile" (pag. 24). "Le donne cristiane che formano la spina dorsale
delle loro comunità... non credono più nelle dottrine cristologiche che odono
ogni settimana esposte dal pulpito o liricamente descritte nel loro innario"
(pag. 32). Calcedonia, con la sua formula del "vero Dio e vero uomo"
può essere capita come "simbolo esistenziale" (pag. 97)
dell'incarnazione del divino nella nostra umanità. La "dottrina della
Trinità" per la nostra Autrice risulta essere un "dogma confuso"
(pag. 103). Anche le formule di Calcedonia devono essere rilette come simboli e
metafore: il dogma di Calcedonia, secondo cui Gesù era "vero Dio e vero
uomo", può essere interpretato intendendo che Gesù era un essere umano
veramente "divinizzato", cioè "invaso", guidato da Dio.
"Gesù è importante soltanto se era pienamente e unicamente umano.
Altrimenti parliamo di qualcosa-qualcuno che non aveva una relazione piena e
unicamente umana con Dio, con le sue sorelle e i suoi fratelli" (C. Heyward,
pag. 144). Per l'Autrice "la divinizzazione di Gesù cominciò quando nella
missione i cristiani cercarono di dare espressione al loro senso della salvezza
nel mondo greco-romano. In questo ambiente i miti discendenti e ascendenti di un
redentore, l'apparizione degli dei in forme umane, animali o di spiriti, le
speculazioni gnostiche su un Uomo Celeste o Divino e il culto dell'imperatore
erano all'ordine del giorno" (pag. 147). Se il dogma di Calcedonia "è
sorto come riflessione teologica sulla persona di Gesù di Nazareth e
sull'esperienza salvifica di Dio che la sua vita, la sua morte e la sua
risurrezione hanno generato fra i primi cristiani..." (pag. 150), noi oggi,
interrogandoci sulla nostra comprensione di Gesù, possiamo formulare
"comprensioni diverse" e usare altri linguaggi. La cristologia deve
riscoprirsi plurale, con "molte sfaccettature" (pag. 171). "Non
trovo che questa prospettiva faccia paura" (pag. 171). (9) Le ultime opere
di Kung forniscono una bibliografia che abbraccia tutte le aree culturali. Si
veda anche "La Teologia del XX secolo" di Rosino Gibellini (Queriniana)
e JACQUES DUPUIS, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso,
Queriniana, Brescia 1997. (10) P. KNITTER, Nessun altro nome?, pag. 47.
(11) IDEM, op. cit. Anche un'opera significativa (e fantasiosa per ciò che
riguarda l'ipotesi dell'Autore) come quella di Robert Kisor (Giovanni,
Claudiana, Torino 2000), che si colloca con coraggio sul piano esegetico e
tuttavia cerca di non uscire dal "tracciato" dogmatico ufficiale, in
realtà dimostra che la pratica tradizionale di piegare e usare l'esegesi
biblica ai fini delal dogmatica sta diventando sempre più "faticosa",
difficile e inconcludente. In essa, al di là della sottolineatura della divinità
di Gesù, l'Autore riconosce (pag. 58) come pienamente accreditate dalle
Scritture cristiane la "cristologia adozionista" e la
"cristologia dell'inviato" che escludono radicalmente la
possibilità di comprendere Gesù come Dio. Non solo l'Autore
sottolinea, a più riprese, che Gesù è una "creatura divina" (pag.
32), "comunque subordinato al Padre" (pag. 40), "il figlio
obbedisce al Padre" perchè il "Padre è più grande del Figlio"
(pag. 73), "l'equivalenza funzionale di Dio e di Cristo" (pag. 81), ma
riafferma che Gesù "è subordinato al Padre" (pag. 90), "gli è
subordinato" (pag. 91) così tante volte da lasciar capire che si aprono
vistose crepe nella concezione della divinità ontologica di Gesù e ci si può
avviare verso una cristologia funzionale. (12)
IDEM, op. cit. pag. 47. (13) Si
veda GEZA VERMES, Gesù l'ebreo, Borla, Roma 1984 e AA.VV., Il Gesù
storico, Piemme, Casale Monferrato 1988; H. KUNG, Ebraismo, Rizzoli,
Milano 1994. (13bis)
J. HICK - P. KNITTER, op. cit. pag. 105. (14) Si vedano gli studi di Christian
Duquoc, Nicholas Las, J. Gonzales Faus, Meinrod Hebga, Karl H. Schelkle e molti
altri. (15) EDWARD SCHILLEBEECKX,
Perché la politica non è tutto, Queriniana, Brescia 1988, passim pagg.
52-60. (16) IDEM, op. cit. (17) CARLO MOLARI, in Rocca 15/12/1999, pag.
48. (18) EDUARD SCHWEIZER, Gesù, la parabola di Dio, Queriniana, Brescia
1996 e soprattutto il suo capolavoro "Gesù Cristo: l'uomo di Nazareth e
il Signore glorificato", Claudiana, Torino 1992, pagg. 155-161. (19) F.
NOCKE, Parola e gesto, Queriniana, pag. 165. (20) CARLO MOLARI, Rocca,
pag. 49. (21) ST. SAMARTHA, L'unicità cristiana: un mito?, pag. 179 ss.
(22) IDEM e Concilium 1/1997, pagg. 81-116; F. BARBERO, Le mammelle di
Dio, Pinerolo 1999. Sono stupende le pagine che Ortensio da Spinetoli nel
suo recente volume "Bibbia e Catechismo" (Paideia 1999) dedica
al tema cristologico distinguendo nettamente Gesù da Dio. (23) Chi vedesse in
queste prospettive "molti discorsi superficiali di cristologia"
(Sergio Rostagno in Gesù, il Liberatore, pag. 46) si è confrontato
davvero con essi? Qui non si tratta affatto di "rispolverare la
contrapposizione tra un antico Gesù del dogma, che sopravvalutava la divinità,
e un Gesù più umano e moderno". Nulla di più estraneo di questa
contrapposizione che rappresenta una riduzione ed una grave semplificazione
delle ricerche cristologiche alle quali ho accennato. Anzi un travisamento. (24)
P. TILLICH, L'irrilevanza e la rilevanza del messaggio cristiano per l'umanità
oggi" , Queriniana, Brescia 1998, pagg. 42-43. (25) Sarà bene porre
attenzione agli studi di Maurice Sachot in "La predicazione del Cristo"
(Einaudi, Torino 1999). Lo studioso francese vede nel processo di
istituzionalizzazione del cristianesimo un passaggio dall'annuncio alla
"verità decretata" (pag. 183). "La verità è decretata....ma
questa è la definizione dell'ortodossia. Tale statuto della verità tramuta
d'acchito un disaccordo dottrinale ...in una rottura istituzionale: l'eresia
assume il volto dello scisma" (pag. 183). Il "colpo fatale"
portato all'annuncio cristiano avverrà progressivamente quando gli enunciati
dogmatici si presenteranno "in una sorta di blindatura sistemica che si
configura inevitabilmente come discorso di autorità" (pag. 185). Molto
stimolanti le riflessioni cristologiche di HERMANN HARING in Concilium
2/2000 (pagg. 137-154), di M. E. BOISMARD, All'alba del cristianesimo,
Editrice Piemme, Casale Monferrato 2000, di MARTIN WERNER, Le origini del
dogma cristiano, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997. Inoltre sono da
ricordare le recenti pubblicazioni dei teologi cattolici HANS JOACHIM SCHULZ,
TISSA BALASURIYA e ROGER HAIGHT.
C)
Fuori dalla comunione con le chiese, le comunità ecclesiali e fuori della
comunione con la chiesa cattolica?
Il
fatto che io da febbraio a marzo abbia ricevuto l'invito a svolgere ben quattro
predicazioni in una parrocchia della città e a svolgere due relazioni in
un'altra parrocchia cattolica della Val Pellice dice espressamente che quando il
vescovo afferma che il sottoscritto "non esercita più alcun ministero
pastorale riconosciuto" o non è informato o mente. Inoltre il
riconoscimento di un ministero non passa né esclusivamente né primariamente da
una"missio canonica" ufficiale. Forse non è ministero ascoltare
fratelli e sorelle, accompagnare singoli e comunità, dialogare su alcuni siti
internet su tematiche inerenti all'evangelo?
D)
Quanto
alla questione della presenza di Gesù nella celebrazione eucaristica,
la
nostra riflessione e il nostro cammino si propongono di rispettare la realtà
ecumenica della comunità stessa, composta da cattolici, ex-cattolici, valdesi,
cristiani senza chiesa. Come presbitero di una comunità ecumenica ho sempre
aiutato i fratelli e le sorelle ad accogliere il dono della presenza realissima
di Gesù in mezzo a noi senza portare l'accento sulle ben note diverse
interpretazioni che sono oggetto di feconde ricerche anche nella chiesa
cattolica. Quando celebriamo l'eucarestia abbiamo coscienza che Dio rende viva
in mezzo a noi la memoria, il messaggio e la presenza di Gesù. Questa è la
radice teologale comune: le diverse interpretazioni non impediscono l'unità
delle fede anche su questo terreno.
E)
Quanto alla maternità verginale di Maria,
mi
sembra di poter tranquillamente ritrovare un ampio dibattito presso molte
teologhe e teologi cattolici.
"La
nascita verginale non appartiene manifestamente al nucleo centrale del Vangelo.
Essa non soltanto non è esclusivamente cristiana, ma neppure ha un ruolo
centrale nel cristianesimo. In altre parole: si potrebbe, come Marco, Paolo o
Giovanni, confessare che Gesù è il messia, il Cristo o il Figlio di Dio, anche
senza sapere nulla della nascita verginale. Ma che cosa significa ciò per
l'oggi? Per l'uomo contemporaneo significa che la fede in Cristo non sta e non
cade affatto con la confessione della nascita verginale.
Dovremmo
perciò essere pronti a dare una risposta chiara al problema relativo alla realtà
storica e al senso teologico della nascita verginale: la narrazione della
nascita verginale non è il resoconto di un fatto biologico, bensì
l'interpretazione della realtà con un simbolo originario" (H. Kueng,
Credo, Rizzoli, Milano 1994, pagg. 50 – 51).
Il
teologo cattolico Tissa Balasurya colloca la sua riflessione in un contesto più
ampio: "Se Maria è immacolata nel senso che non ha macchia di
peccato o tendenza ad esso, come può meritare alcunchè? Come può dirsi
virtuosa? Come è lontana dall'essere imitata e seguita! Che donna è
questa che non può essere tentata al peccato? Perfino Gesù fu tentato.
Questa Maria non ha debolezze, non è fallibile: è in stato di giustizia
originale. Questa Maria ha bisogno di essere liberata, per essere veramente
umana. Ciò è necessario, per comprendere la sua vita, le sue lotte e le
sue angosce. Altrimenti, avremmo una sorta di Maria disidratata, una che
non può sentire altra attrattiva se non il bene.
Per
rendere grande Maria nella Chiesa, noi l'associamo a queste qualità disumanizzanti.
Si dice che essa è madre perfetta, perché non sente nessuna attrazione per la
sessualità, cosa che la renderebbe più perfetta della normale condizione
umana. Ma ci domandiamo: e' meglio per Maria essere immacolata o essere umana
come le altre donne? E' possibile che Gesù abbia privilegiato sua madre,
tanto da renderla non partecipe della condizione umana? E' meglio essere una
madre vergine, che una madre ordinaria come tutte le altre? Che male c'è
nell'essere madre per la via normale, dal momento che il Creatore ha così
voluto? La nascita verginale non è forse una elaborazione teologica,
sviluppatasi in un ambiente in cui la sessualità umana, il corpo umano e le
donne erano considerate inferiori o non abbastanza onorevoli per Dio? Naturalmente
la maternità è svalorizzata da questo modo di vedere.
Quanto
alla perpetua verginità di Maria, essa è un insegnamento che non ha
basi convincenti se non nel fatto che è una credenza tradizionale della Chiesa
cattolica. E di nuovo essa ha relazione col peccato originale e con la
ideologia della dominazione maschile. Poiché Gesù è presentato come salvatore
universale e gli è attribuita la divinità, egli non potè mai essere visto
sotto il dominio di Satana. E poiché il peccato originale è trasmesso dalla
procreazione, era necessario per Gesù evitare la contaminazione del peccato
originale. L'immacolata concezione assicurava che Gesù era libero dal peccato
originale da parte di madre. La nascita verginale era un modo conveniente per
preservare Gesù dal peccato originale anche da parte del padre. Ancora una
volta la perpetua verginità di Maria ha relazione con le ideologie che
tendevano a deprezzare la sessualità, in quanto avrebbe minato la santità
di Maria. Ne consegue che:
a.
Maria cessa di essere una madre ordinaria e il ruolo di Giuseppe è minimizzato
o nullo.
b.
Inoltre la perpetua verginità di Maria quadra bene con il concetto di una
redenzione effettuata quasi ontologicamente (astrattamente) senza nessuna
relazione con il suo insegnamento e nessun impatto con la società, che furono
le cause della sua morte.
c.
Si enfatizza il celibato ecclesiastico, considerato uno stato di vita più alto
(Concilio di Trento).
Questo
pregiudizio antisessuale ha caratterizzato non poco la spiritualità
tradizionale della Chiesa e la sua disciplina. Il riflettere sulla nascita
verginale di Gesù ha fatto deprezzare la normale espressione sessuale. Ciò
vuol dire che una famiglia e una donna normale non possono trovare molta
consolazione nella "Sacra Famiglia" e nella maternità di Maria dato
che essa fu esentata dalle pene del parto, viste come punizione del peccato
originale.
Le
teologie femministe presentano in modo molto diverso Maria.
Molte
affermano che l'enfasi posta nella sua verginità implica un degrado di un
normale essere donna e madre e deve essere messa in relazione con l'ideologia
patriarcale e gerarchica che non riconosce uguale personalità alla donna. Così
Rosemary Ruether, che nel suo libro "Sexism and God-Talk",
afferma che Maria viene esaltata, ma presentata come un modello impossibile.
Questa enfasi ha anche contribuito a oscurare il messaggio di Maria nel
"Magnificat" e il suo ruolo di donna povera, ma impegnata nelle lotte
del suo popolo per una integrale, personale e sociale liberazione sulla linea di
Gesù. Quanto più le donne avanzano nella consapevolezza dei loro diritti e
della dignità della maternità, tanto più esse possono reclamare Maria come
esempio e modello di una ordinaria umana maternità. Con una migliore
comprensione di una spiritualità della creazione, ci potrà essere un più
positivo approccio alla sessualità umana, al corpo e alle relazione tra i due
sessi." (AA. VV., Quaderno di Viottoli n° 4 – Tonificanti profumi di
eresia, associazione Viottoli, Pinerolo 2001, pagg. 18-20).
Il
mio pensiero non aggiunge nulla a queste ricerche che circolano liberamente tra
gli studiosi cattolici e nelle teologie femministe.
F)
Nego il magistero cattolico?
Mi
preme sottolineare che la configurazione attuale della struttura gerarchica, le
sue attribuzioni e il metodo con cui viene esercitata l'autorità nella chiesa
hanno davvero poche parentele con la testimonianza delle Scritture.
Oggi
il magistero cattolico romano mi sembra aver assunto le forme più
sfacciatamente mondane in contrasto con lo stile di Gesù.
Che
nella chiesa ci voglia un ministero anche ordinato e che siano necessari la
presenza e il servizio dell'autorità è per me pacificamente acquisito. Ma
quando l'autorità viene esercitata come potere, autoritarismo, mondanità
allora, a mio avviso, si tratta di un magistero privo della autorevolezza
evangelica. Occorre resistergli per sollecitare alla ricerca di un modo
alternativo dell'esercizio dell'autorità.
G)
Io incurante di restare in comunione con la medesima Chiesa?
Penso
proprio che il vescovo, con questo pesante giudizio, dimostri di non prendere
sul serio quanto gli ho sempre detto con sincerità di cuore e quanto ho scritto
a lui personalmente e nei miei ultimi libri: "il travaglio del regno di Dio
e il soffio del Suo vento sconvolge le nostre perimetrazioni. Nessuna
espressione comunitaria e nessun "modello" cristiano può presumere di
incarnare il messaggio biblico del regno di Dio se si separa dal corpo vivo e
contraddittorio delle chiese cristiane. E' fondamentale restare
"dentro" questa gestazione evangelica, sia pure con le più audaci e
umili forme di dissenso. Certo, il regno di Dio non è limitato dalle mappe
ecclesiali e la chiesa non può intendersi solo come spazio riconosciuto dalle
gerarchie. Non è più l'ortodossia il criterio di identificazione del
cristiano, ma mai come oggi, anche dentro la chiesa, abbiamo bisogno di
ascoltare umilmente, di resisterci a viso aperto, di parlarci anche con durezza,
di praticare anche sentieri pastorali diversi, di analizzare lucidamente il
ruolo di certe istituzioni, ma tutto questo senza spirito di scomunica,
continuando a pregare gli uni per gli altri. Altrimenti si separa l'esercizio
della libertà cristiana dallo spirito di comunione.
Questo
sarebbe, a mio avviso, un divorzio negativo destinato ad impoverire la nostra
fede. Ho sempre pregato insistentemente Dio consapevole di quanto sia impresa
difficile tenere insieme libertà evangelica e spirito - prassi di comunione.
Esiste, infatti, a mio avviso, il pericolo di enfatizzare talmente le esigenze
della "comunione" ecclesiale da sopprimere del tutto o ridurre al
minimo l'esercizio della libertà evangelica oppure di sottolineare talmente il
valore della libertà evangelica da sottovalutare le esigenze della comunione
cristiana.
Non
penso che si tratti di usare il bilancino, ma di portare ben radicate in noi le
due istanze, senza cercarne una composizione equilibrata, una formula valida
per ogni tempo, ma piuttosto accettando un percorso mosso, conflittuale e
accidentato, sempre imprevedibile, costantemente aperto all'azione trasformante
di Dio. Dentro la nostra vita personale e comunitaria sia la libertà evangelica
sia la comunione debbono, a mio avviso, sempre ripensarsi. Oggi, mentre si
invoca molto spesso a sproposito la comunione ecclesiale per mantenere lo status
quo nell'istituzione ecclesiastica e per continuare a praticare la sottomissione
delle coscienze e vietare delle pratiche pastorali innovative, a mio avviso
occorre sottolineare vigorosamente che non si favorisce la comunione nella fede
se si riduce la libertà dei figli e delle figlie di Dio.
Comunione
di fede e disobbedienza ecclesiastica possono andare d'amore e d'accordo" (F.
Barbero, L'ultima ruota del carro, associazione Viottoli, Pinerolo 2001,
pagg. 7-8).
Posso
non aver fatto abbastanza, posso aver sbagliato, ma definirmi
"incurante" è una aperta menzogna che un vescovo dovrebbe saper
ritrattare.
H)
E veniamo alle "celebrazioni di pseudo-matrimoni" attribuiti a don
Barbero di persone omosessuali"
Già
mi stupisce il fatto che vengano a me attribuite celebrazioni di matrimoni di
cui, anche nella dottrina cattolica ufficiale, sono esclusivi ministri e
celebranti gli sposi. E' vero che nelle mia comunità vengono celebrati durante
l'eucarestia i matrimoni e le seconde nozze, come vengono accolte le
celebrazioni di amore lesbico e gay. Siamo arrivati a queste scelte comunitarie
dopo anni di confronti, di studi, di dialogo con le persone interessate e con
numerosi teologi.
A
noi preme, secondo l'insegnamento di Gesù, accogliere ogni forma di amore
fedele e responsabile, ridire ai nostri cuori e testimoniare umilmente che dove
c'è amore lì c'è Dio.
Quanto
alle celebrazioni dell'amore fedele tra gay e tra lesbiche, la comunità prega
con quelle coppie omosessuali che decidono di vivere insieme il dono dell'amore
e della sessualità che hanno ricevuto da Chi li ha creati. Restando fedeli alla
nostra coscienza, io e la comunità non ci prendiamo la libertà di
correggere il Creatore, specialmente in presenza di una gerarchia che
(rispetto ai gay e alle lesbiche è proprio il caso di dirlo) chiede perdono ai
morti continuando a "perseguitare" i vivi. In ogni caso parlare di
"pseudo-matrimoni" non è certo rispettoso delle persone dei gay e
delle lesbiche nè della loro fede; ma sulla bocca di un vescovo purtroppo è
normale.
I)
Voglio credere che il vescovo di Pinerolo abbia scritto con profondo dolore e
amarezza il comunicato che non abbiamo ancora ricevuto né io né la comunità.
Ma perchè continua a rifiutare quel dialogo che noi abbiamo chiesto e mai
respinto?
E'
la via del "dialogo praticato" e non solo enunciato che può tenere i
nostri cuori vicini anche quando talune nostre interpretazioni e taluni nostri
pensieri sono lontani. Serena Corfù ha scritto spregiudicatamente "che
forse anche parecchi inquisitori accendevano i roghi con dolore, ma le fiamme
arrostivano lo stesso i malcapitati".
Noi,
invece, abbiamo fiducia che, trascorsi questi giorni, prevalga in tutti la
volontà di dialogo e che anche il vescovo accolga la proposta di incontrarci.
Lo stiamo aspettando con fiducia e con serenità, certamente uniti nella ricerca
della volontà di Dio sulla strada di Gesù di Nazareth.
Ci
auguriamo che l'autoritarismo vaticano, che ha determinato questo intervento del
vescovo, non gli impedisca di riprendere il dialogo con noi. In ogni caso,
mentre continuerò come prete il mio ministero nella comunità e presso tutte le
realtà che mi inviteranno, assicuro al vescovo che continueremo il nostro
impegno nella chiesa locale, il nostro rapporto ecumenico con le altre chiese e
le altre religioni e che continueremo ad amarlo come fratello nella fede.
don
Franco Barbero (comunità
cristiana di base di Pinerolo)