Fatti e misfatti
Americani nel mondo
Gli Usa portano ovunque la
libertà? Come è successo in Guatemala o in Cile? Oppure come ha fatto Bush non
firmando i trattati internazionali come quello di Kyoto o quello sui medicinali
anti-Aids?
GIANNI MINA'
Ramsey Clark, ex ministro della Giustizia degli Stati Uniti
nel governo di Jimmy Carter, nella lettera scritta qualche mese fa al segretario
generale dell'Onu Kofi Annan, per tentare di scongiurare la guerra del
presidente George W. Bush dimostrando la sua illegalità, ricordava che gli
Stati Uniti, negli ultimi ventidue anni «hanno invaso o assalito ben dieci
nazioni: Grenada, Nicaragua, Libia, Panama, Haiti, Somalia, Sudan, Iraq,
Jugoslavia, Afghanistan» e hanno, nello stesso tempo, appoggiato attacchi e
aggressioni in altre zone d'Europa, Asia, Africa e America. In alcuni casi, come
ad Haiti, imponendo una dittatura militare, in altri, come a Panama, non
riuscendo a catturare il Saddam del momento, il generale Noriega (ex agente
della Cia) bombardando i rioni popolari della città e causando più di mille
morti. Proprio Rasmey Clark, nella sua lettera - pubblicata da Latinoamerica
n. 81/2002- dove giudica la guerra all'Iraq «ingiustificabile da qualsiasi
punto di vista legale e morale, irrazionale alla luce dei fatti noti e
sproporzionata rispetto ad altre minacce di guerra e violenza», sottolinea
anche un altro episodio agghiacciante: «Sarebbe istruttivo ricordare come gli
Stati Uniti, nel 1983, hanno invaso e occupato la piccola Grenada dopo un intero
anno di minacce, uccidendo centinaia di civili e distruggendone il piccolo
ospedale psichiatrico, dove morirono molti pazienti». E questo solo perché il
governo di sinistra, in quel momento al potere nell'isola, si avvaleva, nelle
scuole, di insegnanti cubani. Purtroppo, nessuno, in questi giorni, si è
ricordato di queste tristi vicende segnalate dall'ex ministro della Giustizia di
Jimmy Carter, Nobel per la pace 2002, quando molti sottolineavano acriticamente
che gli Stati Uniti, quando decidono interventi militari, lo fanno sempre «per
portare la libertà e la democrazia». Purtroppo dipende dai governi in carica e
quello di George W. Bush ha già dimostrato, in due anni, che dei diritti di chi
non è allineato alla sua politica, ha un concetto molto limitato. In questi
giorni insensati, però, uomini politici suppostamene autorevoli, giornalisti di
fama ed esperti militari si affannano maldestramente a convincerci che
massacrare esseri umani innocenti (proprio come ha fatto il criminale Saddam
Hussein) serve alla democrazia. Così, in questa stagione da incubo, la realtà
più grottesca è rappresentata spesso dall'informazione dei salotti televisivi
dove si discute la presunta ineluttabilità della guerra all'Iraq. Qualche sera
fa, per esempio, nello studio di Bruno Vespa, un generale canuto e dall'aspetto
mite, Mario Arpino, che fu capo del corpo di spedizione italiana nella guerra
del Golfo di dodici anni fa, si doleva addirittura del fatto che l'Italia avesse
in bilancio per le spese della Difesa 250milioni di euro, contro i 320 della
Germania, i 450 della Francia e gli oltre 600 della Gran Bretagna,
dimenticandosi però, di porsi alcune domande che dovrebbero sorgere spontanee:
perché dovremmo spender di più in armamenti? Da chi ci dovremmo difendere? A
chi dovremmo dichiarar guerra e perché? La verità che quasi sempre viene elusa
in questi ipocriti dibattiti televisivi, è infatti quella che aiuterebbe a
spiegare chi ha creato mostri come Saddam Hussein, Bin Laden o, nel recente
passato, Pinochet e gli altri dittatori latinoamericani; e anche quando questo
successo e perché. Ma dare risposte a questi interrogativi, presupporrebbe la
capacità di rinunciare alla doppia morale che fa accettare al mondo
occidentale, i metodi di Saddam Hussein quando conduce per conto e con le armi
fornite dagli Stati Uniti e dall'Europa guerre fratricide all'Iran degli
ayatollah o che fa scegliere come alleato Bin Laden quando i talebani del «principe
del male» servono per sloggiare i sovietici dall'Afghanistan. Salvo poi
invocare e imporre la guerra «totale e preventiva» a questi mostri quando non
sono più convenienti, anzi sono un ostacolo alle strategie di saccheggio delle
multinazionali del petrolio, dell'energia e delle armi nordamericane. Una logica
squallida che magari risparmia a Saddam Hussein ogni ritorsione quando il rais
decide di usare le armi chimiche contro la resistenza curda nel nord del paese
solo perché questo atteggiamento ignavo aiuta a far passare sotto silenzio la
repressione non meno feroce dei turchi (nostri alleati nella Nato) verso lo
stesso popolo curdo.
Le prove sono a disposizione di tutti. Sono 24 le imprese degli Stati Uniti che
hanno rifornito Saddam, nel corso degli anni `80, di componenti di armi
nucleari, chimiche, biologiche e missilistiche: dalla Honeywell, alla Hewlett
Packard, dalla Dupont alla American Type Cultur Collection. E altre 50 hanno
svolto un lavoro sussidiario. La italiana Otto Melara di La Spezia ha fornito
invece all'Iraq il supercannone, mentre una ditta britannica ha edificato la più
famosa fabbrica di «veleni» voluta dal rais. I documenti sono a disposizione
di tutti, anche di Paolo Guzzanti, vice direttore de Il Giornale che, in
uno dei tanti salotti televisivi, pateticamente tentava di sostenere che gli Usa
non c'entravano nulla in questa insensata corsa, negli anni `80, ad armare
Saddam Hussein contro l'Iran. Purtroppo molti giornalisti, nell'inquietante
stagione che stiamo vivendo, stagione nella quale il governo in carica
attualmente negli Stati Uniti sta tradendo tutti i principi dei padri fondatori
del Paese, non trovano altra via per superare l'evidente disagio che quella di
apparire smemorati. Così continuano a reiterare l'affermazione che «fu
l'America a salvarci dai nazisti» dimenticando sempre, che prima ancora furono
20 milioni di russi immolatisi a Stalingrado a fermare Hitler e i suoi folli
disegni. Sergio Leone voleva ricordare al grande pubblico occidentale quella
incredibile epopea e tentò per dieci anni di mettere in piedi un film che, dopo
la sua morte, ha realizzato Jean Jeaques Annaud.
In televisione continuano a ripetere anche (ignorando messaggi come quello di
Ramsey Clark) che gli Stati Uniti, dovunque arrivano portano libertà e
democrazia, dimenticando che non è sempre stato così. In Cile, l'11 settembre
del `73, per esempio, con una cospirazione pianificata a Washington dal
segretario di Stato Henry Kissinger in persona, gli Stati Uniti spinsero al
potere il boia Augusto Pinochet. E non diversamente successe nell'Argentina dei
trentamila desaparecidos dove il lavoro sporco dei generali golpisti della
giunta militare, fu premiato con un posto, per ognuno di loro, in molti consigli
di amministrazione delle multinazionali Usa. In Guatemala, la storia prese una
piega ancora più aberrante. Come hanno ribadito il libro bianco della Chiesa
cattolica Guatemala nunca mas per il quale il vescovo Gerardi è stato
assassinato nel 1999 e il rapporto dell'Onu, «Memoria del silenzio», numerosi
ufficiali, funzionari, tecnici, militari dei servizi segreti e dell'esercito
degli Stati Uniti, furono complici del genocidio perpetrato negli anni `80
prevalentemente contro le popolazioni maya del Paese, colpevoli di vivere in
terre ricche di minerali strategici, ma anche contro chiunque si opponesse alle
politiche economiche imposte al Paese da multinazionali come la United Fruits.
Uno dei tre generali genocidi, Efrem Rios Montt, seguace di una delle chiese
evangeliche e delle sette che attualmente rappresentano la base elettorale di
George W. Bush, ha creato un partito che molta gente, terrorizzata dagli incubi
del recente passato, ha votato. Ed ora Efrem Rios Montt è oscenamente il
presidente del Parlamento del Guatemala e punta alla presidenza nelle prossime
elezioni. Ma per lui non ci sono né missili, né marines che lo caccino, né «bombe
intelligenti».
L'elenco di queste presunte «liberazioni» potrebbe comprendere anche la
Birmania, piuttosto che l'Indonesia, regimi amici che hanno rivaleggiato
nell'orrore con i kmer rossi della Cambogia. Ma il discorso condotto in questo
modo non avrebbe senso e rischierebbe di appiattirsi sulle insulse chiacchiere
dei salotti televisivi. E' più amaro, per molti di noi che hanno amato e amano
gli Stati Uniti, prendere atto - come ha denunciato il teologo Umberto Guidotti,
missionario a Manaus (Brasile) - di tutti i no pronunciati, negli ultimi due
anni, dal governo di Washington a patti, trattati e convenzioni internazionali
in difesa dei diritti umani: no al protocollo di Kyoto per la protezione
dell'ambiente; no alla convenzione sulle armi biologiche e chimiche ratificata
da 144 paesi nel 1972 (gli Usa si rifiutano di aprire le loro istallazioni); no
al traffico illegale di armi leggere; no al trattato contro le mine terrestri;
no alla risoluzione della Commissione dei diritti umani dell'Onu che permette,
ai paesi poveri, la fruizione, a costi ridotti, dei medicinali contro l'Aids; no
al dialogo chiesto dall'Europa per discutere il sistema Echelon (una rete di
spionaggio planetaria satellitare); no alla proposta per una «energia pulita»;
no al trattato che mette al bando tutti gli esperimenti nucleari; no, per la
decima volta, alla risoluzione Onu che condanna l'embargo a Cuba. E non è
tutto: gli Stati Uniti hanno boicottato la conferenza Onu sul razzismo a Durban
e quella sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg; non hanno ancora ratificato
la convenzione contro la discriminazione alle donne; non hanno ratificato quella
sui diritti dei bambini e quella contro la tortura e non hanno firmato il
trattato che crea il Tribunale penale internazionale contro i crimini di lesa
umanità. Anzi, stanno firmando accordi bilaterali con singole nazioni perché
queste si impegnino a non denunciare e a non consegnare soldati americani
accusati ai tribunali internazionali. Esiste addirittura una proposta di legge
del famigerato senatore Helms (The Hague invasion act) che autorizzerebbe
i servizi segreti americani ad invadere la Corte penale dell'Aia per liberare
qualsiasi cittadino americano messo sotto accusa. Infine, poco prima
dell'attacco in Iraq, hanno «rubato» il dossier dell'Onu su quel Paese. Perché,
come si chiede Ramsey Clark, dovremmo ancora considerare democratica
un'amministrazione nordamericana che così platealmente sta tradendo ogni
concetto di libertà e di convivenza pacifica?
g.mina@giannimina.it
25.3.2003