MILITARI ITALIANI IN IRAQ, "COLLABORATORI DI
QUELLO SCEMPIO"
di Enrico Peyretti*
Una
notizia del GR1 delle sette di stamani, sabato 15 novembre, dice che
l'arcivescovo di Torino, mons. Severino Poletto, chiamerebbe "martiri della
pace" i militari italiani uccisi in Iraq, e ne auspicherebbe addirittura la
canonizzazione. Vorrei, in proposito, comunicare fiduciosamente alla comunità
ecclesiale cattolica alcune mie riflessioni.
Già l'eccessiva quantità di canonizzazioni, criticata da osservatori cattolici
molto seri, sconsiglierebbe l'idea. Inoltre, mentre veri martiri della
giustizia, della pace e della nonviolenza - come Martin Luther King, Oscar
Romero, Marianella Garcia, il vescovo Gerardi, per dire solo alcuni dei tanti di
fede cristiana - vengono certamente riconosciuti tali dal popolo cristiano, ma
non dalla ufficialità della Chiesa, la beatificazione di questi poveri militari
italiani, anche solo come opinione personale senza canonizzazione rituale,
sarebbe estremamente ambigua. Nonostante le buone e sincere intenzioni
personali, che supponiamo nei militari, non è oggettivamente lavorare per la
pace l'accodarsi, armati, ad un esercito invasore; non è lavorare per la pace
lo stare sotto il comando degli invasori in una terra militarmente occupata,
terra appartenente ad un popolo violentato da questa guerra; una guerra che il
governo Usa, come sappiamo fin troppo bene, ha voluto ostinatamente, contro la
gran parte dell'opinione mondiale e delle Chiese, ma con l'approvazione del
governo italiano.
L'amministrazione Usa, in questa orribile vicenda, si dimostra incapace di
pensare metodi costruttivi e rispettosi dei diritti e dei percorsi degli altri
popoli, mentre pretende di imporre la propria interessata visione delle forme
politiche, dei diritti e dei rapporti economici. Questa politica, che si ammanta
dei diritti umani universali, danneggia proprio il valore universale della
cultura dei diritti e dei doveri e della comune dignità umana. Il fatto che in
Iraq ci fosse una dittatura non giustifica, evidentemente, lo scempio del paese
che gli Usa e alleati hanno fatto o, come il governo italiano, approvato e
fiancheggiato. I nostri soldati erano e sono oggettivamente collaboratori di
quello scempio. Il giudizio morale e cristiano sulla loro azione sarà
misericordioso, ma non può essere di esaltazione. Ciò sarebbe dare un avallo
religioso all'inganno perpetrato dal governo italiano, a danno degli stessi
militari inviati e sacrificati in un compito ingiusto.
La ricostruzione materiale, sociale, civile in Iraq può oggi essere aiutata
dalla comunità internazionale, soltanto sotto l'egida della istituzione di pace
che è l'Onu, e soltanto mediante rappresentanti civili di Paesi che non abbiano
partecipato né approvato la guerra. Come tutti possono vedere, la guerra
favorisce il terrorismo, perché gli somiglia nella sostanza violenta, e si
differenzia soltanto per il fatto di venire dallo Stato invece che da bande
oscure. Ma lo Stato non ha un maggior diritto dei banditi di fare violenza,
perché il suo senso umano è quello di abolire la violenza pubblica. Solo la
giustizia tra i popoli, e quindi la loro unità, potrebbe isolare e sconfiggere
con mezzi giusti l'ingiustizia grande del terrorismo. Vedere nel terrorismo
l'unico e massimo male, serve a nasconderne altri, anche più vasti e profondi,
in cui noi, popoli dell'Occidente ricco, siamo maggiormente implicati e
corresponsabili. Se pensiamo che "nel Sud del mondo ogni giorno muore per
fame e per malattie facilmente curabili un numero di persone almeno sei volte
superiore a quello delle persone uccise l'11 settembre" (Alejandro Bendaña,
Charles Villa-Vicencio, "La riconciliazione difficile. Dalla guerra a una
pace sostenibile", Edizioni Gruppo Abele, Torino 2002, p. 131), allora
cominciamo a vedere le cose come stanno e gli obblighi morali, poi anche
politici, che ne derivano per noi. I più saggi consigli precedenti questa
guerra, tra cui quelli molto chiari della nostra Chiesa, prevedevano questa
serie di sofferenze e tragedie del popolo irakeno, dei militari statunitensi, e
ora anche italiani, e non possono oggi venire contraddetti per compiacere la
retorica militare e governativa.
*
saggista
da
ADISTA n°85 - 29.11.2003