Una pasqua tra pace e guerra
Il pacifismo religioso fa i conti con la guerra permanente. La necessità di una ricollocazione religiosa, anche sul terreno profondo del simbolico individuale e collettivo
ENZO MAZZI


Il tempo che stiamo vivendo è un tempo di attesa pasquale non solo per la festa e il rito. La «pasqua» vuol dire «passaggio» e quindi trasformazione. E' paradigma perenne del passaggio dalla morte alla vita, archetipo non solo biblico ma sostanzialmente universale della vita che perennemente rinasce contro tutte le violazioni e dell'amore che costantemente si rigenera e si riscatta da ogni violenta aggressione. Ogni cultura e ogni religione hanno la propria pasqua anche se la chiamano con nomi diversi. E da sempre pasqua e pace si intrecciano e quasi si identificano. Ne è un segno la colomba simbolo sia della pasqua che della pace. Questa pasqua è sotto i nostri occhi, anzi è nelle nostre mani intrecciate in questo grande girotondo mondiale contro la guerra. Da sempre però il potere della violenza e della guerra hanno messo le mani sulla colomba proprio per la sua potenza simbolica. E l'abbraccio fra pasqua e pace è stato violentemente sciolto: non è cosa di questa terra è stato affermato dai poteri dominanti, dall'economia, dalla politica, dalla cultura; è cosa da rimandare al cielo è stato detto e imposto dalle religioni appositamente istituite. E' dunque in forma di fragile e avversato fidanzamento che il rapporto fra utopia della pasqua/pace e realismo politico ha attraversato i secoli. Quel matrimonio non s'ha da fare, è stato ripetuto e imposto da sempre da chi aveva le chiavi della razionalità e della politica. Quello che ora ci domandiamo, di fronte alla straordinaria estensione geografica e sociale dell'opposizione alla guerra, è se il matrimonio si stia invece realizzando.

Mi chiedo ad esempio se sottoscriverebbe anche oggi Eugenio Scalfari quanto scriveva al tempo dell'Afganistan in polemica col pacifismo, da lui definito «ideologico», di Gino Strada: «Non ci sono riusciti né il Budda né Mosè né Gesù Cristo né Maometto a cambiare la natura dell'uomo. Perciò non ho nessuna ragione di credere che possa riuscirci Gino Strada. Purtroppo!» (la Repubblica 25 novembre 2001). La guerra fa parte della natura umana. Opporsi alla guerra è opporsi alla natura. Il ragionamento ripropone la tesi dei tolemaici. A quel tempo, chi osava mettere in dubbio che la Terra fosse il centro fisso dell'universo veniva considerato pazzo. I maestri del pensiero di allora «non avevano nessuna ragione di credere» che Giordano Bruno o Galileo Galilei sarebbero riusciti a cambiare le leggi inesorabili della natura. L'errore di quei maestri tolemaici era quello di assolutizzare il pensiero comune, in cui s'identificavano, e di scambiarlo per legge di natura, per cui un diverso modo di vedere voleva dire cambiare non il pensiero ma la natura.

Si è scoperto, ieri a proposito della scienza e oggi forse a proposito della pace, che non c'è da cambiare la natura ma da conoscerla, da scoprire le sue risorse inesauribili. Ed è proprio per fiducia nella creatività della natura che molti di noi sentono ormai avvicinarsi il matrimonio stabile, il patto per la vita, fra utopia e realismo. E' l'affermarsi della pace come cultura e come sistema che ci interessa.

Rivoluzione pacifista

La guerra, si sa, è una cultura e non solo uno sciagurato evento. La società umana, fino da tempi remotissimi, qualcuno dice dal neolitico, è organizzata in funzione della guerra. Ce lo dicono gli studiosi dei popoli cosiddetti primitivi. Ce lo dicono ugualmente gli studiosi delle società evolute. Tanto che Hegel considerava la guerra come il massimo momento espressivo dello Stato. La cultura della guerra è sistemica. Pervade cioè tutti gli aspetti del convivere. E non solo quelli di cui siamo consapevoli. Penetra il nostro profondo, le regioni dell'inconscio sia l'inconscio individuale sia sociale. La mia conclusione è che in modo speculare alla guerra, anche la pace è una cultura, è un sistema complessivo di organizzazione della società. La transizione dalla cultura di guerra alla cultura di pace è dunque un processo rivoluzionario. Investe tutti campi del convivere, non solo quelli economici e politici ma anche quelli simbolici. Investe l'arte e le religioni. E necessita anche di un lavoro su noi stessi. Non nel modo melenso e moralistico del «dobbiamo essere più buoni». Il lavoro che ci attende è sul nostro profondo, oltre le frontiere delle consapevolezze e perfino oltre i limiti del sogno, ai confini dei grandi silenzi, silenzi nostri e soprattutto della gente umile, della gente da sempre repressa, incapace perfino di sognare, ai confini del silenzio di donne e uomini dove l'inconscio si apre all'ignoto. Ai confini di quel silenzio che in noi, come in un utero pregno, cova nascite di mondi nuovi. Sul crinale di quei silenzi che dotti e maestri ignorano per cieca fiducia nella loro rumorosa, onnipotente razionalità necrofila, razionalità senza mistero.

La rivoluzione della pace necessita di un lavoro per far emergere e sanare traumi che la mente e tutto il corpo hanno patito perfino a loro insaputa e che si manifestano come malessere di vivere, impossibilità di sperare, vuoto interiore, per passare dall'angoscia talvolta senza nome alla ricerca di senso e di speranza. E' disperante un tale panorama rivoluzionario? Non lo è affatto se guardiamo alla variopinta fiumana che sta invadendo le strade del mondo. E' variopinta non solo perché fisicamente segnata con i colori dell'arcobaleno ma soprattutto perché è fatta di gente concretamente impegnata nei processi di cambiamento in tutta la varietà delle collocazioni sociali. Dunque la pace come rivoluzione è in atto. E non si fermerà.

Frontiera cattolica

E' sintomatico ciò che avviene nel mondo cattolico. Ed è però anche un impegno nuovo che si apre sia per i cosiddetti credenti che per il laici. Le realtà associative del mondo cattolico progressista le troviamo inserite nei movimenti che emergono: per la pace, per la democrazia partecipata, per un «mondo diverso». Sembra che finalmente abbiano fatta propria la teologia dei «segni dei tempi» di papa Giovanni. E' un fatto storicamente nuovo che apre orizzonti di speranza. Il secolo XX si aprì con la disastrosa separazione, il XXI si apre con un nuova incarnazione?

Leone XIII si alleò col capitalismo vincente escludendo i movimenti dal basso e in primo luogo il movimento operaio a cui fu sottratto l'apporto delle coscienze ed esperienze anticapitaliste di orientamento religioso e cattolico. I cattolici furono invece indirizzati su percorsi rigidamente interclassisti e quindi di sostanziale dipendenza dei deboli dai forti. Ma fu una catastrofe. La degenerazione totalitaria della rivoluzione socialista è anche frutto del dimezzamento del movimento operaio.

Papa Giovanni ritengo che abbia indirizzato la Chiesa su un percorso opposto. Egli, il papa dell'era atomica, ha visto nella folle scalata all'armamento atomico una grave minaccia alla democrazia e alla pace. L'arma atomica esalta il senso di onnipotenza del potere e conduce alla assolutizzazione del dominio. Contro il potere assoluto dell'arma totale Papa Giovanni ha fatto l'unica cosa a cui è chiamato il profeta in senso biblico: cercare e indicare nei segni dei tempi, in ciò che accade nella vita e nella storia vissuta e vista dal basso, il messaggio divino della salvezza. Il gigante imponente dall'aspetto terrificante, descritto dal libro del profeta Daniele, non viene vinto da un altro gigante ma da un sassolino che si stacca spontaneamente dalla montagna. Papa Giovanni ha avuto l'umiltà di farsi in qualche modo da parte come persona e come ruolo per dare spazio alle periferie della Chiesa. Non ha fatto molte prediche sulla democrazia da difendere contro la minaccia atomica. Ha dato spazio alla democrazia nella sua Chiesa. Ha convocato il Concilio. E così ha indicato una strada di salvezza per tutti: dare spazio ovunque al recupero della democrazia valorizzando i processi sociali dal basso, quelli che lui ha chiamato appunto «segni dei tempi». Questo è anche il succo della Pacem in terris. Ed è di una attualità sconcertante. Oggi quel messaggio viene ripreso e attualizzato. I cattolici dell'associazionismo progressista fanno propri i temi dei movimenti dal basso, si mescolano portando talvolta la radicalità e la forza dell'ispirazione evangelica. Questo come dicevo è molto positivo. Può essere un crinale storico.

L'obbedienza non è una virtù

Ma questo apre anche a compiti nuovi. Perché il ruolo dei cattolici nei movimenti non può limitarsi a essere una voce in più. Hanno un compito specifico specialmente nell'era dei fondamentalismi. Se è vero che la pace è cultura e sistema complessivo, allora bisogna che ognuno faccia la sua parte nella trasformazione lavorando nell'ambito di cultura e società in cui è inserito. E i cattolici sono inseriti nell'ambito religioso ed ecclesiale. Non possono far mancare il loro impegno in tale ambito.

Apro qui una riflessione critica in senso costruttivo sulla linea strategica della cultura di pace e nonviolenza come rivoluzione. I cattolici dei «segni dei tempi» rifuggono per lo più dall'usare gli strumenti critici di trasformazione culturale, economica e politica della società nell'ambito proprio della loro appartenenza religiosa ed ecclesiale. Un esempio eclatante è il messaggio di don Milani da cui in molti abbiano tratto forza: «l'obbedienza non è più una virtù» secondo il priore di Barbiana vale per tutti gli ambiti laici ma non per l'ambito religioso ed ecclesiale. Si deve disubbidire agli ordini ingiusti di tutti i poteri meno che di quello ecclesiastico. Di fronte al potere delle chiavi si può essere critici ma non c'è disubbidienza che tenga. Altrimenti - egli diceva - chi mi assolve dal mio peccato?

Di fronte al sacro molti cattolici si bloccano. E così fanno mancare al cammino umano proprio il contributo specifico di persone «credenti», cioè di persone inserite nell'apparato simbolico religioso che sostiene quegli automatismi psicologici inconsci i quali sono all'origine di quella stessa violenza e ingiustizia contro cui si trovano a combattere. Vivono (ma bisogna dire viviamo, perché in un modo o nell'altro ci siamo dentro tutti) una forma di schizofrenia. Pensiamo di immaginare e costruire «un mondo nuovo possibile» lavorando solo nell'orizzonte del visibile e del misurabile. E così la violenza cacciata dalla porta della politica rientra dalla ferita aperta nel sacro e nel profondo.

E' un frutto, direi l'altra faccia, della secolarizzazione dimezzata, cioè basata tutta e solo sul dominio del mondo attraverso la mente. L'alfa e l'omega dell'ordine umano, sociale, politico, culturale, non è più l'onnipotenza di Dio ma l'onnipotenza della mente, nuova divinità. E la rivoluzione, quella di Marx come anche quella di un don Milani, cambia l'ordine dei fattori, il basso in alto l'alto in basso, ma il risultato è sempre il dominio della mente. L'altra metà dell'essere umano, il mondo simbolico, l'inconscio, il sacro, il mistero, è affidata alla vecchia casta dei ministri consacrati o alla nuova casta degli specialisti dell'anima.

Una tale visione critica dove vuole andare a parare? Non ho risposte sicure. Dobbiamo trovarle insieme. Per parte mia non c'è la minima intenzione di svalorizzare e sminuire l'impegno di questo mondo cattolico in fermento. Ritengo che il nostro atteggiamento sia e debba essere quello di una attenzione di sim-patia, nel senso di «sentire insieme», nei confronti delle contraddizioni che di nuovo si aprono, per contribuire a orientarle verso un ripensamento delle sistematizzazioni religiose ed ecclesiali. E di rispetto verso i tempi e i passi del percorso di ognuno. Purché dia segni di essere in cammino. Ora che «un mondo nuovo» è tornato negli orizzonti e nei percorsi delle nuove generazioni si può far mancare il contributo della ricerca di «mondi religiosi ed ecclesiali nuovi»? Basta spostare verso la pace la politica religiosa ed ecclesiastica? Si può continuare a rincorrere le emergenze? Non è necessario lavorare anche sulla struttura delle religioni, sulla teologia, sulla simbologia e sul profondo?

 da "il manifesto" del 11.4.2003