La corsa al petrolio
iracheno
Un rapporto della Deutsche
Bank e uno della Energy Information Administration (il governo Usa): l'Iraq,
sorpassando l'Arabia saudita, è ormai al primo posto al mondo per riserve
petrolifere
MANLIO DINUCCI
Subito dopo gli aerei che bombarderanno l'Iraq e le truppe
che lo occuperanno, arriveranno altre unità d'assalto: le compagnie petrolifere
statunitensi. Lo conferma un rapporto, basato sulle agenzie governative Usa,
pubblicato dalla Deutsche Bank il 26 ottobre: «Le prime vincitrici
saranno le compagnie di servizi petroliferi, come la Schlumberger Ltd. e la
Halliburton Co.». Spetterà loro «riabilitare gli impianti petroliferi
bombardati e sottofinanziati», così da aumentare la produzione da 3 a 4
milioni di barili giornalieri per coprire intanto il costo dei lavori, previsto
in 1,5 miliardi di dollari. Poiché «Mr. Hussein ha favorito compagnie
francesi, russe e cinesi», stipulando con loro (e anche con compagnie italiane)
accordi per lo sfruttamento del petrolio iracheno, mentre «le compagnie
americane e l'anglo-statunitense Bp/Amoco sono state escluse», tali accordi «saranno
onorati se Mr. Hussein resterà» ma, «se sarà allontanato, si apriranno
grandi manovre attorno ai giacimenti iracheni». E nell'Iraq prossimo «protettorato»
Usa, saranno le compagnie Usa ad avere la meglio, soprattutto la Exxon/Mobil e
la Bp/Amoco, cui si affiancherà la britannico-olandese Royal Dutch/Shell. La
posta in gioco? Lo spiega la Energy Information Administration (Eia) del
governo Usa. L'Iraq possiede riserve petrolifere accertate consistenti, nel
2002, in 112 miliardi di barili: le seconde del mondo dopo quelle saudite (262
miliardi). A queste si aggiungono le riserve scoperte negli ultimi anni nel
deserto occidentale, zona che Sharon ha proposto a Bush di occupare «preventivamente»
con «una operazione congiunta» (Associated Press, 19 ottobre). Secondo
la Eia, ammontano a circa 220 miliardi di barili ma, «dato che il paese è
rimasto relativamente inesplorato a causa di anni di guerra e sanzioni, esse
possono essere molto maggiori». Le riserve complessive sono quindi, come
minimo, di 332 miliardi di barili. Ciò significa che non è l'Arabia saudita ma
l'Iraq il paese con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Occorreranno,
secondo la Deutsche Bank, 38 miliardi di dollari per sfruttare i nuovi
giacimenti, ma saranno ampiamente ripagati. Nel deserto occidentale vi è
inoltre gas naturale per almeno 4.250 miliardi di metri cubi che, aggiunti ai
3.100 già accertati, fanno risalire l'Iraq dal nono al quarto posto mondiale
tra i paesi con le maggiori riserve.
Gli Stati Uniti - che, con una popolazione al 4,6% di quella mondiale, consumano
il 25,5% della produzione mondiale di greggio - sono i secondi produttori
petroliferi dopo l'Arabia saudita. Le loro riserve accertate ammontano però a
soli 22 miliardi di barili - un quinto di quelle irachene - e sono in calo:
secondo la Eia, dal 1990 ad oggi sono diminuite del 20%. Agli attuali ritmi di
sfruttamento - stima la Bp nella sua Statistical Review of World Energy 2002 -
dureranno solo 11 anni, mentre quelle irachene dureranno oltre un secolo e sono
in aumento. Gli Usa dipendono quindi sempre più dalle importazioni (il 59% del
loro fabbisogno), anche perché il costo del loro petrolio aumenta man mano che
calano le riserve. Hanno talmente bisogno di petrolio che hanno ripreso anche le
importazioni dall'Iraq (sospese dal 1991 al 1995), alla media nel 2001 di
795mila barili giornalieri. Importano anche sempre più gas naturale, pur
essendo le loro riserve al sesto posto mondiale. Hanno però bisogno di
importare petrolio e gas naturale a prezzi bassi, soprattutto in un periodo
recessivo come l'attuale: «Un fattore che può danneggiare la ripresa economica
Usa -sottolinea la Eia - sono gli alti prezzi petroliferi». La soluzione del
problema è ora a portata di mano: occupando l'Iraq, gli Usa potranno disporre
delle sue enormi riserve energetiche ai prezzi più bassi. Andrà quindi meglio
che con la prima guerra del Golfo: allora - scrive la Deutsche Bank nel
rapporto - «le compagnie occidentali speravano, dopo aver riparato i pozzi
petroliferi del Kuwait, di essere invitate a sfruttarli, ma furono tenute fuori
perché il Kuwait aveva una industria petrolifera sviluppata e il parlamento votò
contro l'ingresso di compagnie straniere». Non accadrà in Iraq.
Allo stesso tempo, occupando l'Iraq, gli Usa potranno usare le sue riserve
petrolifere per indebolire l'Opec, da cui proviene il 47% delle loro
importazioni (il 24% delle quali dal Golfo). Sia che l'Iraq esca dall'Opec, sia
che vi resti per condizionarla, il controllo del rubinetto petrolifero iracheno
permetterà agli Usa di essere meno dipendenti dall'Arabia saudita (non più
tanto affidabile), da cui proviene il 15% delle loro importazioni, e di influire
sulla fissazione dei prezzi. Potranno così condizionare anche la Russia, il cui
petrolio subirà la pesante concorrenza di quello iracheno, ed Europa e
Giappone, che dipendono più degli Usa dal petrolio del Golfo nella misura del
30% e 81%.
«L'urgenza di Bush di punire Saddam Hussein per le sue colpe - ha scritto
Valerio Pellizzari, il primo a rivelare sul Messaggero (13 ottobre) la
novità strategica del petrolio iracheno - prende un'altra luce, analizzata con
gli strumenti dei geologi che hanno calpestato il deserto occidentale e con le
stime elaborate dagli esperti petroliferi». Ecco perché il controllo del
petrolio iracheno è un obiettivo primario per quella che il Pentagono definisce
la «potenza globale» Usa. E per la potente connection del petrolio
nell'amministrazione Bush, il cui massimo esponente, il vicepresidente Dick
Cheney, è stato fino a ieri direttore della Halliburton «prima vincitrice»
della guerra.
da "il manifesto" del 1.11.02