Da "Olio per la lampada" di Franco Barbero - Viottoli, Pinerolo 2004
Spesso si pensa che “Figlio di Dio” significhi Dio o divinità. “Per l’Antico Testamento figlio di Dio significa avere ricevuto una missione da Dio e averla portata a termine in un atteggiamento di obbedienza. Questo significato passa nel Nuovo Testamento, cosicché quando Gesù viene indicato come figlio di Dio, si fa riferimento alla missione che il Padre gli conferisce, all’obbedienza con cui Gesù assolve questa missione e alla reciproca confidenza e fiducia che si stabiliscono tra Padre e figlio. Essere il figlio di Dio richiede che si assuma un atteggiamento senza riserve di risposta alla chiamata di un Dio che convoca l’uomo a un’impresa di liberazione” (J.R. Guerrero, L’altro Gesù, Borla, Roma 1977). “Il Figlio di Dio rende Dio udibile e visibile più di chiunque altro o di qualunque altra cosa e pertanto è il primogenito di tutta la creazione (Col. 1,15). Così egli è superiore a qualsiasi altra creatura. Ma resta inferiore a Dio. Quando Paolo in I Corinti 15,27 applica al Figlio di Dio le parole “tutto ha posto sotto i piedi di lui” (Salmo 8, 7), egli eccettua Dio espressamente, concludendo: “quando avrà assoggettato a lui tutte le cose, allora il Figlio stesso farà atto di sottomissione a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti”” (Bas Van Iersel Concilium 3, 1982).
“Già nell’Antico Testamento il popolo di Dio veniva detto“figlio di Dio”, ma era chiamato così soprattutto il re di Israele, che all’atto dell’intronizzazione veniva proclamato "figlio di Jahvè" . Ora questo epiteto viene applicato a Gesù: mediante la risurrezione e la glorifìcazione egli, Gesù di Nazareth, viene “costituito Figlio di Dio”, secondo l’espressione desunta da un salmo. Qui indubbiamente non si allude alla generazione, ma soltanto alla posizione giuridica di prestigio di Gesù, non quindi a una figliazione fisica, come nel caso dei figli degli dèi e degli eroi pagani, ma ad una elezione ed investitura da parte di Dio. Più di altri nomi, quello di “Figlio di Dio” doveva chiarire agli uomini di quel tempo quanto strettamente l’uomo Gesù appartenesse a Dio, quale rilievo avesse la sua posizione al fianco di Dio: non più nella comunità, nel mondo, ma ora di fronte alla comunità e al mondo, subordinato soltanto al Padre e a nessun altro” (H. Kung, 24 Tesi sul problema di Dio, pag. 133). “In questo riferimento a Dio e completa dimenticanza di se, a quel Dio che Gesù chiamava suo Creatore e Padre, sta la definizione, cioè l’autentico significato di Gesù” (Ed. Schillebeeckx, La questione cristologica. Un bilancio, Queriniana, Brescia 1980, pag. 161).
“La preesistenza di Gesù come eterno Figlio di Dio è un modo ebraico ed ellenistico di esprimere il significato salvifico di Gesù” (Brian McDermott, Gesù Cristo nella fede e nella teologia, Concilium 3/1982, pag. 28). “L ‘identità di Gesù come Figlio è un ‘identità rispondente e ricettiva di fronte al Padre, e sottolinea il fatto che Gesù è il primo a ricevere l’offerta di salvezza di Dio, prima di diventare colui che offre la salvezza agli altri” (Brian McDermott, Gesù Cristo nella fede e nella teologia, Concilium 3/1982, pag. 25).
“L’antropomorfismo
che ci può fuorviare considerando "Dio” come un nome proprio ha portato
i cristiani a pensare che, se Gesù è veramente figlio di Dio, allora non può
essere, per esempio, figlio di Giuseppe. Ma si tratta di un errore. Dire che Gesù
è il figlio di Dio non comporta la negazione che era figlio di un altro. "
(Nicholas Lash, Riflessioni su di una metafora, Concilium 3/1982, pag.
39).
“Si noti bene che “Figlio di Dio” non significa altro se non l’uomo Gesù in quanto morto e resuscitato, in quanto avente peso salvifico per tutti gli uomini, in quanto centro del progetto di Dio. Quindi anche il famoso schema della preesistenza, che ci sembra così lontano dal Gesù di Nazareth, in fondo non è altro che un mezzo linguistico per poter sottolineare, in una determinata cultura, quella ellenistica, che in Gesù Dio si è espresso al massimo” (G. Barbaglio, Gesù di Nazareth dalla storia alla fede, Arsenale Cooperativa Editrice, Venezia 1980).
Incarnazione
“L'incarnazione
di Dio in Gesù significa che in tutti i discorsi di Gesù, in tutta la sua
predicazione, nell’intero suo comportamento e destino, hanno preso figura
umana la Parola e la Volontà di Dio: in tutto il suo parlare ed agire, patire e
morire, insomma in tutta la sua persona. Gesù ha annunciato, manifestato,
rivelato la Parola e la Volontà di Dio. Egli, nel quale parola e volontà,
insegnamento e vita, essere e agire coincidono perfettamente, è corporalmente,
in figura umana, Parola, Volontà, Figlio di Dio” (H. Kung, 24 Tesi sul
problema di Dio, Mondadori, 1980, pag. 1347).
“E’ legittima la tradizione cristiana della mistica di Cristo, che a Nicea e Calcedonia ha trovato un'espressione adatta, benché entro le categorie concettuali della tarda antichità " (Ed. Schillebeeckx, La questione cristologica. Un bilancio, Queriniana, pag. 163).
Bisogna sempre rifarci al Gesù storico. Nella nostra storia abbiamo trovato due scappatoie per nullificare la laicità di Gesù. Lo abbiamo “sacralizzato” fino a farne un Dio o lo abbiamo sacerdotalizzato.
Ma egli, tutto “incentrato sul regno di Dio, lo è anche su Dio stesso…
Il
“regnocentrismo” e il “teocentrismo “ coincidono. Gesù non ha parlato
primariamente di se stesso, ma è venuto per annunciare Dio e la venuta del Suo
regno e per mettersi al Suo servizio. Dio è al centro, non il messaggero (Jacques
Dupuis, 10 parole chiave su Gesù di Nazareth, Cittadella, pag. 387).
Anzi “il nazareno non ha mai proclamato di essere il messia e come Gesù giunse ad essere chiamato messia, resta uno dei più grandi enigmi delle origini cristiane." (Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Dehoniane, pag. 604).
Anche se il processo di divinizzazione di Gesù compare molto presto nelle origini cristiane “la fede in Gesù dei primi cristiani non ha preso il posto della fede in Dio; essi non hanno per nulla abiurato il monoteismo ebraico, la confessione cioè dell’unico Dio esistente. Hanno esaltato oltre ogni dire Gesù, ... ma non si sono mai spinti a fare di lui un secondo dio” (Idem, op. cit., pag. 618).
Gesù “si distingueva per il suo ruolo di mediatore storico della definitiva regalità divina di Dio Padre e per uno specifico rapporto funzionale con lui. Comunque è certo che non ha mai detto di essere il figlio di Dio trascendente; è la chiesa delle origini che ha tematizzato e sviluppato tale titolo glorioso fino ad arricchirlo di contenuti sorprendenti” (Idem, op. cit., pag. 605).
Ne ha mai fatto di se un sacerdote. Questo profeta della Galilea che per noi cristiani è l’icona di Dio, la sua epifania nella nostra carne, tanto che lo chiamiamo “figlio di Dio” per designare la sua intimità con Dio e la missione particolare che il Signore gli ha affidato, ha chiaramente distinto tra apparato religioso e fede.
Quest’uomo, che ha fatto sua la causa di Dio con tutto il cuore, che ha cercato ogni giorno di convertirsi alla volontà del Padre, che ha pregato per non indietreggiare di fronte alle prove della vita, è stato un laico: “Gesù nacque come ebreo laico, condusse il suo ministero come ebreo laico e
mori come ebreo laico...Egli era un laico religiosamente impegnato che sembrava minacciare il potere di un gruppo ristretto di sacerdoti. Questo contribuì allo scontro finale in Gerusalemme. ..Ho intenzionalmente sottolineato la condizione laicale di Gesù perché i cristiani sono molto assuefatti all’immagine di Gesù sacerdote o grande sommo sacerdote” (J.P. Meier, Un ebreo marginale, Queriniana, Brescia, volume I, pag. 345).
Sarebbe bene che non lo dimenticassimo mai.
Spesso, non solo nel linguaggio giornalistico, si usa il vocabolo “chiesa” (anche con la maiuscola) o Chiesa Cattolica e in realtà si indica la gerarchia. Si dice: “La chiesa pensa “ e si fa riferimento ad un pronunciamento della gerarchia. Non si tratta di una sfumatura irrilevante, ma di una differenza sostanziale.
Ma, per quanto lo si ribadisca, il linguaggio giornalistico corrente ignora questa rilevantissima differenza. Ci può essere una chiesa senza gerarchia; anzi, la chiesa di Gesù dovrebbe escludere ogni gerarchia. In ogni caso la gerarchia, che non ha alcun fondamento nella Scrittura, è il frutto di una degenerazione storica. Al più, visto che non possiamo mettere tra parentesi secoli di potere gerarchico, la gerarchia è quella casta sacerdotale maschilista e patriarcale che pretende di rappresentare ufficialmente la chiesa cattolica. Purtroppo c’é: occorre tenerne conto.
Ma è tempo di ricordare quanto scrive il teologo cattolico Xabier Pikaza: “chi si dice suddito sottomesso agli ordini di una gerarchia, non ha capito il Vangelo” (Xabier Pikaza, Sistema Libertà Chiesa, Borla. Roma 2002, pag. 67).
E ancora: “La dittatura sacrale si fonda sulla superiorità gerarchica di alcuni, che si impadroniscono di un potere o sapere e in tal modo manipolano gli altri (affermando talvolta che lo fanno per il loro bene)”, “come se la grazia di Dio dovesse passare attraverso alcuni filtri del potere sacro” (Idem op. cit., pagg. 396,479).
Quindi, quando si parla di chiesa, occorrerà verificare se si parla delle donne e degli uomini che tentano di seguire il sentiero di Gesù o di un apparato burocratico. Chi esce dall’obbedienza alla gerarchia non esce dalla chiesa. Spesso, anzi, proprio per essere chiesa può essere necessario disobbedire al potere sacrale, consapevoli che un’autorità senza fondamento e autorevolezza evangelica è pura burocrazia.
In questa prospettiva nessuno ha il potere di definire a priori chi è dentro e chi è fuori della chiesa. Ma, se è auspicabile una chiesa senza gerarchia, non sembra possibile una chiesa senza ministeri. La gerarchia è potere, il ministero è servizio (vedi “Perché resto”, pagg. 34-66). Questa sarebbe una confusione terribile.
A volte quando, anche nella mia comunità, sento dire che Gesù è come ognuno di noi, mi si rizzano i quattro capelli che ho ancora in testa. Temo che si cada in una semplificazione che non condivido. Se si vuol dire che Gesù, esattamente come noi, è una creatura umana nata dall’amore di Maria e Giuseppe, allora mi trovo perfettamente d’accordo. Ma Gesù è anche singolarmente diverso da noi perché ben altra è la missione che Dio gli ha affidato e, ancora, ben altra è la risposta che egli nella sua vita ha dato alla chiamata di Dio.
Per noi cristiani/e Gesù non è un eroe, un superuomo, un santo, un profeta tra i tanti. Egli, proprio nella sua esistenza umana, è per noi “il santo di Dio”, il profeta, il figlio nel senso che Dio lo ha rivestito di doni particolari e gli ha assegnato un compito unico, diverso dal mio e dal tuo.
Egli è per noi il testimone di Dio per eccellenza. Completamente uguale a noi nella sua umanità e nella sua creaturalità , ma assolutamente diverso da noi nella sua intimità con Dio e nella sua missione.
Questa “cristologia”, questo modo di interpretare la persona e l’opera di Gesù di Nazareth, non ha nulla di nuovo. Essa appartiene sicuramente ai primissimi/ e discepoli/ e di Gesù. La documentazione è enorme e chi legge queste pagine troverà in altra parte di questo stesso volumetto un'ampia bibliografia (AA. VV., Verus Israel, Paideia, Brescia 2001; ABI, Annali di storia dell’esegesi, 2/1999; Ricerche storico-bibliche, Dehoniane 2/2003). Mi riferisco in particolare agli studi di Filoramo, Gianotto, Bori, Pesce, Jossa. Si veda anche Paolo Sacchi, Storia del Secondo Tempio, SEI, Torino 2002.
Tutta la vita umana di Gesù, in questa prospettiva, è “divina” nel senso che manifesta la volontà di Dio e indica la direzione del Suo regno.
Oggi queste affermazioni sono molto comuni tra studiosi/ e, hanno un solido fondamento biblico e compaiono anche tra le ricerche più accreditate nel mondo accademico. Le conoscenze storiche, esegetiche ed ermeneutiche giocano un ruolo decisivo nel farci vedere la fondatezza di questa visione cristologica.
Certo, questo Gesù così “pazzo”, così “innamorato” della vita, così partecipe delle sofferenze e delle gioie dei più deboli, così libero rispetto alle “sante istituzioni” è per noi uno “scandalo”.
Ma chi non sentirebbe anche tanto vicino questo Gesù, sempre alle prese con la sua fragilità, tentato come noi di preferire l’egoismo all’amore, bisognoso di conversione quotidiana, esposto alle prove e alla paura, capace di piangere e di indignarsi?
Questo Gesù che si lascia coccolare dalla donna di Betania, che impara dal centurione e dalla Cananea, che dimostra tenerezza ed accoglienza con la donna in casa del fariseo, che cerca la vicinanza dei discepoli nell’ora del Getsemani, che guarda con emozione l’uomo ricco, che chiede dell’acqua alla donna di Samaria, che s’accorge di chi lo tocca. ..non può non suscitare in noi la forte consapevolezza che anche lui ha conosciuto la realtà del vivere quotidiano. Lì lo sentiamo vicino.
E quando si ritira a pregare, quando si rivolge a Dio, Padre suo e Padre nostro, quando invoca da Dio la forza per il suo cammino, allora davvero diventa per noi il Gesù vicino, parente di questa nostra umanità che trova in Dio la sorgente della vita e della speranza.