TORTURA
Nei sotterranei degli States
SILVIA BARALDINI
Di fronte alla catastrofica realtà delle torture inflitte ai cittadini iracheni dagli eserciti di occupazione statunitensi e britannici, la difesa dei due governi si è incentrata sull'identificazione delle mele marce responsabili di quelli che sarebbero episodi estranei al sistema democratico dei due paesi. Da quando il New Yorker ha pubblicato le prime foto, siamo stati inondati da interviste agli abitanti dei paesini dell'entroterra, da dove provengono i soldati accusati delle sevizie, piene di sgomento e di condanna, tanto per rassicurarci del profondo sentimento democratico che anima gli americani. Curiosamente non è apparsa una sola intervista a quella parte del popolo statunitense che avrebbe potuto testimoniare di sevizie, abusi di potere, violenze sessuali e condizionamenti personalmente subiti. Parlo dei detenuti, politici e comuni, che hanno scontato la loro pena nelle sezioni speciali di Marion, Illinois, Florence, Colorado, Pelican Bay, California, Lexington, Kentucky e Alderson, West Virginia, per nominare solo quelle più tristamente note. Se un giornalista avesse rintracciato Rafael Cancel Miranda, questi avrebbe potuto testimoniare che nei non lontani anni `70, nei sotteranei di Marion, i detenuti venivano ammanettati ai muri e lasciati lì per ore. Frank «Big Black» Smith avrebbe potuto raccontare come tutti i detenuti della prigione di Attica, al termine della loro ribellione, siano stati costretti a passare la gogna nudi mentre membri della guardia nazionale li pestavano con manganelli e fucili. E come lui stesso, in quanto ex-giocatore di football, fosse stato costretto a rimanere in piedi per interminabili ore con un pallone di footbal sotto il mento, circondato da militari pronti a pestarlo non appena lo avesse lasciato cadere. Samuel Brown avrebbe potuto raccontarci del suo infortunio alla cervicale volutamente non curato, una strategia per ammobidirlo prima di essere interrogato dell'Fbi. E Sekou Odinga, del suo torace utilizzato dopo l'arresto come posacenere dai membri della task-force che lo interrogavano. Avrebbe potuto raccontare di sé Alejandrina Torres, detenuta politica portoricana poi graziata da Clinton, violentata nel carcere federale di Phoenix, Arizona, non con un manico di scopa ma con i pugni inguantati di un cosidetto infermiere. O Susan Rosenberg, due mesi dell'inverno 1988 passati senza dormire nella cella della sezione speciale di Lexington con le luci che si accendevano ogni venti minuti, la doccia senza tendina di fronte a una delle 21 telecamere della sezione, l'umiliazione di dover chiedere a una guardia carceraria uomo un assorbente igienico alla volta. Le donne detenute nel carcere statale della Georgia e in quello federale di Dublin avrebbero potuto testimoniare che in prigione può capitare di essere usate sessualmente dagli stessi individui che dovrebbero proteggerti. A Pelican Bay e Florence i giornalisti avrebbero trovato le gabbie-madri di quelle ora in uso a Guantanamo.

La realtà che sta inesorabilmente emergendo dalle prigioni irachene non deve sorprenderci: Amnesty International, Human Rights Watch, American Civil Liberties Union denunciano da anni condizioni analoghe nei carceri speciali degli Stati Uniti.

"il manifesto" 5.2004