OLTRE LA CONFESSIONE

 (Da: “Come pensare e praticare la riconciliazione?”, contributo a più voci scritto in occasione del convegno organizzato da Noi siamo Chiesa su “Peccato e perdono: come pensare e praticare la riconciliazione?”, che verrà pubblicato sul prossimo numero di Viottoli)                                                           

Nel nostro cammino comunitario ci ha sempre accompagnato il tentativo di ripensare creativamente i segni della nostra fede. Fu nel 1975 che, sostanzialmente accantonata la pratica della confessione fatta al prete, avvertimmo il bisogno di approfondire la nostra riflessione biblica e teologica e contemporaneamente l'esigenza di celebrare il dono della riconciliazione in modi nuovi.

Nel libro Una fede da reinventare (Claudiana, Torino 1975, pagg. 143-144) mettevo in evidenza che una comunità non può privarsi della celebrazione del perdono e lanciavo la proposta della celebrazione comunitaria.

La comunità in quegli anni aveva tratto non pochi stimoli dal volume Il sacramento della penitenza (ElleDiCi, Torino 1973) del teologo cattolico Josè Ramos Regidor. Nel volumetto I Salmi, edito da Tempi di Fraternità nel 1975, comparve la proposta di celebrazione comunitaria del perdono che avevamo iniziato a celebrare in comunità.

Fu esattamente in quegli anni che il teologo Amilcare Giudici preparò il volumetto Peccato e riconciliazione (Edizioni Tempi di Fraternità, Torino 1977) che trovò larga diffusione nelle comunità di base italiane e fu molto apprezzato per le riflessioni bibliche e per la ricostruzione delle forme storiche in cui il perdono fu celebrato nei secoli.

Lo introdussi con queste parole: “Senza voler rievocare polemicamente il passato, non possiamo fare a meno di annotare come sovente si sia commesso un errore di prospettiva. Gran parte della teologia e della pratica penitenziale cristiana  era incentrata sul peccato e sulla chiesa che esercitava il potere di rimettere i peccati tramite l'assoluzione del sacerdote. Da queste pagine emerge invece con chiarezza l'esigenza di correggere profondamente tale impostazione. Al centro non sta infatti né il nostro peccato, né il potere della chiesa, né la buona confessione. Gesù ha incentrato il suo annuncio sulla figura del Padre che è il Dio costitutivamente perdonante. Porre al centro soltanto la figura del Padre che mi accoglie e non il mio peccato o la celebrazione di un rito significa collocarsi in un ottica decisamente diversa. Il perdono infatti non è qualcosa che si conquista, che si ottiene in forza delle nostre suppliche: siamo semplicemente chiamati a vivere con riconoscenza il fatto di essere perdonati. Si tratta di 'abbandonarsi alla grazia divina, essere dominati dalla grazia di Dio, poter vivere di perdono' (J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento, Paideia 1972, pag. 138). Dunque il polo fondamentale non è affatto lo stato di peccato di cui diventiamo coscienti per grazia, ma la fede nel Padre che ci accoglie. Anzi per ogni credente, per ogni comunità il perdono diventa luogo stesso in cui Dio si rivela, dove il Creatore incontra la sua creatura. Se noi non restituiamo interamente il perdono a Dio, siamo sempre nel pericolo di farne un'opera nostra o della chiesa; facendo così spodestiamo Dio, vanifichiamo la croce di Cristo e mettiamo un fondamento diverso da quello già posto. Forse va ripensata l'idea, ancora contaminata da certo ecclesiocentrismo più sottile ma persistente, che la chiesa debba essere la centrale della salvezza, la dispensatrice del perdono. Quando la chiesa si mette in qualche modo al centro è sempre fuori posto secondo l'Evangelo” (pagg. 6-7).

Proprio nel medesimo periodo avevo pubblicato il volumetto Diventati compagni ha ancora senso parlare di peccato? (Editrice Lanterna, Genova 1977). Nacquero in seno alla comunità nuove celebrazioni del perdono (due o tre volte l'anno) essendo diventati sempre più consapevoli che liquidare il vecchio è operazione ambigua quando non ci si prende la cura di far crescere il nuovo.

“La pura e semplice liquidazione è operazione facilona, quando non avviene in vista di una nuova costruzione. La fede non può vivere ed essere testimoniata sulla pura e semplice terra bruciata. Si tratta quindi di passare dalla negazione all'operazione più complessa di verifica, di proposta, mantenendo viva la tensione tra discernimento critico e impegno costruttivo. Nel passato (riti, celebrazioni, sacramenti...) posso trovare roba da buttare (cosa che debbo saper fare a ragion veduta) ed esperienze significative, materiale valido per il futuro. Non si tratta né di accettare a scatola chiusa, né di rifiutare in blocco: occorre vagliare ogni cosa e ritenere ciò che valido e positivo.

La costruzione della comunità diventa pratica di sapienza in cui occorre unire nuovo e vecchio. Il passato è un grande laboratorio del futuro, ci può prestare molti pezzi, ci può impartire lezioni preziose.

Il lento cammino di riappropriazione biblica, teologica, sacramentale e rituale che stiamo compiendo nelle nostre comunità ne è piccola ma promettente testimonianza.

A questa convinzione della necessità di lavorare in positivo siamo giunti anche dopo aver pagato cari prezzi: parecchie comunità, dopo aver cancellato tutto, hanno soltanto trovato il deserto, non quello biblico, ma quello della morte. Certo, questa dimensione creativa e positiva è difficile perchè ha bisogno di passione comunitaria, di vigilanza politico-culturale, di serietà teologica e biblica.

Essa esige la fatica della ricerca, condotta con umiltà e competenza oltre che con perseveranza, e la disponibilità alla conversione, ma diventa anche fonte di gioia, di fantasia, di prospettive nuove. In questa ottica anche i periodi di silenzio possono aver rappresentato una stagione feconda e necessaria. Spesso le nuove direzionidi marcia e le nuove parole devono accettare di bagnarsi e maturare in un silenzio anche totale.

Le prime riflessioni sorte in seno alle comunità di base sul terreno della riconciliazione già lasciano intravedere delle scelte diverse dalla confessione individuale fatta al sacerdote, ma si sviluppano lentamente” (Comunità cristiane di base del pinerolese, Oltre la confessione,, Tempi di Fraternità, Torino 1988, pagg. 11-12). [Il volume raccoglie tre riflessioni bibliche (Barbaglio, Corsani, Barbero) del Convegno che si svolse a Pinerolo il 12 febbraio 1984 su Peccato e riconciliazione e riporta il documento Conversione e riconciliazione della comunità cristiana di base di San Paolo di Roma del 21 maggio 1983].

La nostra situazione di comunità cristiana di base in cui sono presenti in comunità fratelli e sorelle valdesi e la nostra collocazione in una zona a forte presenza protestante ci hanno ovviamente accompagnato ogni giorno con il dono di una riflessione teologica e di una pratica pastorale diversa.

Non potevamo dentro questo cammino di ricerca non allargare lo sguardo a tutta la teologia sacramentaria. Ci è stata preziosa, vent'anni fa, l'opera di José Maria Castillo (Simboli di libertà, Cittadella, Assisi 1983) per l'ampia riflessione antropologica e storica. In stretta connessione con questo itinerario dal 1990 in comunità, a più riprese, tentammo di superare una lettura in chiave di espiazione del morto per i nostri peccati (vedi L'ultima ruota del carro, Viottoli 2001, pagg. 79-91). Così pure, come agli inizi ci fu preziosa Vita Communis di Bonhoeffer, così in questi anni ci ha spesso accompagnato la lettura di Senso di colpa e perdono (Robert Grimm, Claudiana, Torino 1992).

 

Negli ultimi anni:

- La comunità cerca di dare grande importanza alla festa del perdono, alle periodiche celebrazioni comunitarie. Le persone che si aggiungono a volte pongono domande su questa prassi liturgica e non sempre siamo sufficientemente attenti/e a far memoria delle tappe che in questi 31 anni, studiando-pregando-discutendoesperimentando, abbiamo costruito.

- Alla nostra comunità cristiana di base sempre di più si rivolgono anche credenti che hanno percorsi teologici diversi. La nostra prassi di accoglienza, con tutti i limiti di cui diventiamo sempre più consapevoli, parte dal presupposto che la diversità teologica non può dividerci nella fede comune: “Come cristiano e come presbitero della comunità di base non mi trovo a mio agio, né teologicamente né psicologicamente, nella confessione auricolare. Nella comunità di base nessuno chiede l'assoluzione. Però, personalmente non ho mai ritenuto di dover negare questo servizio di ministero a quei cristiani che, per intima loro convinzione, praticano la confessione auricolare e si rivolgono a me per ricevere l'assoluzione. In questi casi tento di presentare alla sorella o al fratello che mi interpella un possibile itinerario diverso, le varie forme con cui nei secoli si è celebrato il dono della riconciliazione, ma mi prefiggo sempre di rispettare rigorosamente e lietamente la fede e i cammini diversi delle singole persone. Ritengo che sia possibile esprimere correttamente il mio modo di vedere e la concezione teologica della comunità di base al riguardo, senza dover in alcun modo sottrarmi ad una richiesta fraterna, qualora essa mi sembri sincera, e proveniente da un cuore aperto al dono di Dio. In questo caso, dove ci unisce la fede non può dividerci la teologia o, meglio, la diversità teologica non va esaltata a scapito della fede comune e non può prevalere su di essa” (Oltre la confessione, op. cit. pag. 82).

- Oggi sentiamo che, nonostante il perdono di Dio che avvolge la nostra vita, facciamo tanta fatica a diventare uomini e donne che sanno perdonare. Una ragione in più per credere nel Dio che ci ha riconciliati a sé e per vivere appieno nella conversione quotidiana relazioni di pace, di accoglienza, di tenerezza, di perdono, proprio come Gesù di Nazareth ci ha testimoniato con la sua vita e il suo messaggio. Dio è la fonte di quel perdono assoluto e incondizionato che può provocare a conversione anche il cuore più indurito. Su questo perdono assoluto possiamo contare come singoli e come comunità.

Franco Barbero                                            aprile 2004

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