DIO NON VUOLE IL CELIBATO OBBLIGATORIO DEI SACERDOTI. PAROLA DI PAOLO APOSTOLO

32476. ROMA-ADISTA. La connessione indissolubile - anche se poi smentita da eccezioni problematiche - che la Chiesa latina fa tra "sacerdozio" e "celibato" non può essere fondata sulla Sacra Scrittura; viene mantenuta malgrado l'abbandono delle dubbie ragioni sulle quali un tempo era basata; contraddice la prassi "cattolica" che permette alle Chiese orientali unite a Roma (per non parlare delle Chiese ortodosse) di avere il sacerdozio uxorato. Lo sostiene, con una rigorosa "ricerca critica" esegetica e storica, Heinz-Jürgen Vogels in Celibato. Dono, non obbligo, appena edito da Il Segno dei Gabrielli editori (S. Pietro in Cariano, Verona, p. 144, euro 12,00).
Nato a Berlino nel 1933, ordinato sacerdote nel '59, dottore in teologia, Vogels si è sposato nel '79 e perciò è stato sospeso dall'esercizio del ministero. Dall'86 è membro della Commissione esecutiva della Federazione internazionale dei sacerdoti sposati. Il suo libro sul celibato, ora tradotto in italiano con una prefazione attualizzante di Adrian Hastings, uscì nel '78 e poi, in edizione riveduta, nel '92. Il volume è stato tradotto anche in olandese e in inglese.
Vogels accetta totalmente la dottrina cattolica ufficiale sul sacerdozio e sui ministeri (ignora il problema della donna-prete), ma critica alla radice la saldatura sacerdozio-celibato imposta nella Chiesa latina: una critica che non indulge a motivazioni futili, o scandalistiche, ma attinge alle Scritture e analizza rigorosamente come, dopo molti contrasti, il Concilio Lateranense II nel 1139 impose la legge del celibato ai sacerdoti della Chiesa latina. Una legge ribadita quattro secoli dopo dal Concilio di Trento e, infine, nel 1965, dal Vaticano II (che però si guardò bene dal ripetere, a favore della legge sul celibato, le motivazioni - debitrici di una visione sessuofobica - prima apportate), da Paolo VI con l'enciclica Sacerdotalis caelibatus (1967) e quindi da Giovanni Paolo II.
L'apostolo Paolo scrive nella prima lettera ai Corinti (9, 1-5):
"Non sono forse libero, io? Non sono un apostolo?… Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?". Di solito le traduzioni, anche moderne - in questo caso la citazione è presa dalla Bibbia tradotta dalla Conferenza episcopale italiana nel 1971 - rendono appunto con donna credente il testo originale greco che parla di adelphèn gynaika. Ma, rileva Vogels dopo una stringente analisi esegetica e patristica del passaggio cruciale, le parole di Paolo vanno tradotte come mogli: "Infatti, le più antiche testimonianze, Tertulliano, Clemente, la più antica traduzione latina, Ilario e il primo Girolamo [tutti padri della Chiesa, o famosi scrittori ecclesiastici dei primi secoli, ndr] tradussero e interpretarono la parola guné con uxores, mogli. La successiva traduzione mulieres fu influenzata sia dall'eresia (in Tertulliano) che dalla legislazione sulla continenza (in Gerolamo). La probabile secondaria aggiunta adelphén o sororem, sorella, sopravvenne sotto pretesto di decenza o, nell'Occidente, per attenuare il significato di 'moglie'" (pp. 88-89). La legislazione citata si riferisce a una lettera di papa Siricio a Imerio di Spagna nel 385. Girolamo (morto nel 420) è chiaramente influenzato da tale legislazione, afferma Vogels, mentre prima di tale lettera Girolamo accettava come traduzione uxores. Ma poi nella Vulgata - la traduzione dell'intera Bibbia in latino, diventata per secoli normativa nella Chiesa romana - Girolamo usò mulierem.
La traduzione della Vulgata ha pesato sul successivo magistero ecclesiastico. Ma, commenta Vogels, "il nostro criticismo testuale ci ha abilitati e recuperare l'originale locuzione paolina e scoprire il suo significato: il Signore concesse agli apostoli e ai loro collaboratori il diritto di condurre con sé le mogli e di richiedere anche per loro il mantenimento delle chiese. La volontaria astensione da questo diritto è possibile e buona, ma è una questione personale: il diritto, la libertà di sposarsi, rimane accordata dal Signore. Il problema si ripropone al presente in modo più esplicito che in passato: ci si chiede se contro il diritto di tutti gli uomini, apostoli compresi, garantito da Dio il Creatore e da Cristo Signore, ad avere una moglie, la proibizione al riguardo da parte della Chiesa come legislatore umano possa proprio reclamare una qualsiasi validità. Non si tratta piuttosto di una legge nulla fin dall'inizio?".
Ma - obiezione della gerarchia ecclesiastica - nella Chiesa latina il candidato al sacerdozio rinuncia volontariamente al matrimonio. Replica Vogels: "Come il Signore dichiara, e il Vaticano II riconosce, l'astensione dal matrimonio può essere conseguita solo in virtù del carisma. Se la pubblica promessa di 'osservare il celibato' fosse intesa a sollecitare una volontaria astensione dal diritto divino di sposarsi, allora verrebbe richiesto qualcosa di impossibile a coloro che non hanno ricevuto il carisma del celibato, e di conseguenza tale decisione non è vincolante. Pertanto, se la promessa richiesta di rimanere celibi avesse il significato di una selezione di coloro che sono capaci di rimanere soltanto non sposati, allora questo scopo selettivo sarebbe inficiato dagli argomenti già riportati, vale a dire che la Chiesa latina chiama meno sacerdoti in servizio nella Chiesa occidentale di quanti Dio vuole e la Chiesa orientale accetta… Il fatto che Dio non ha abbinato il carisma del celibato alla chiamata sacerdotale impedisce alla gerarchia di riservare il sacerdozio soltanto ai celibi carismatici" (p. 117-118).
Del resto, conclude Vogels, se nelle Chiese cattoliche orientali vi è il clero uxorato - anch'esso lodato dal Vaticano II - e se la Santa Sede accetta come candidati al sacerdozio pastori protestanti e anglicani convertiti, è evidente che la ufficialmente ribadita connessione sacerdozio-celibato come legge generale della Chiesa latina è davvero fragile e piena di contraddizioni.

ADISTA n° 61 -9.11.2004