L' "ASSORDANTE SILENZIO DEI VESCOVI" OGGI COME NEL PASSATO

DOC-1526. ROMA-ADISTA. "L'attuale comportamento del Vaticano nei confronti del governo italiano costituisce una cesura storica o incarna una continuità rispetto agli atteggiamenti politici della Santa Sede nel corso del Novecento?". A questo delicato quesito cerca di fornire una risposta Elio Rindone, professore e saggista, autore fra l'altro di L'ispirazione della S. Scrittura dal Vaticano I al Vaticano II. Di fronte allo sconcerto di molti cattolici democratici per "l'assordante silenzio" che caratterizza le gerarchie ecclesiastiche in un periodo di profonda crisi della democrazia italiana sotto il governo neo-autoritario di Silvio Berlusconi, Rindone accenna con puntuale rigore storico ai rapporti fra il Vaticano e le principali dittature di destra del secolo scorso (fascismo, nazismo, franchismo, regime di Pinochet e dittatura militare argentina) per concludere amaramente che "lo sgomento di tanti credenti è evidentemente del tutto immotivato". Se, con senso del realismo, non bisogna dunque sperare in un sussulto di indignazione delle gerarchie vaticane per la degradazione cui stanno andando incontro le istituzioni italiane negli ultimi anni, compito dei cattolici democratici è - secondo Rindone - quello di "proseguire nel loro impegno di difesa della legalità".

 

LA CHIESA E I REGIMI DI DESTRA
di Elio Rindone

 

La componente del mondo cattolico italiano più sensibile ai valori democratici prova, e in alcuni casi esprime a chiare lettere, un sincero sgomento per l'assordante silenzio della gerarchia di fronte al pericolo costituito per la legalità democratica dalla destra italiana. Ma l'attuale politica del Vaticano costituisce una rottura col passato, tanto da giustificare tale stupore, o è assolutamente coerente col trattamento riservato di solito ai regimi autoritari di destra? Richiamare alla memoria qualche episodio della storia del secolo scorso, cominciando col fascismo che riguardandoci più da vicino merita un'attenzione particolare, ci permetterà di rispondere al quesito.
In Italia nel 1922 Mussolini è appena arrivato al potere e mostra subito le sue intenzioni autoritarie proclamando alla Camera che poteva "fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli". La cosa non allarma il Vaticano, anzi il cardinale Gasparri, segretario di Stato, trova motivi per compiacersene e confida al barone Beyens, ambasciatore del Belgio presso la Santa Sede: "Avvertire la Camera che resterà in funzione due anni, o solo due giorni, a seconda che si mostrerà ubbidiente o indisciplinata, è il colmo dell'audacia. Ma Mussolini ha terminato il suo discorso pregando Dio di assisterlo per portare a buon termine il suo arduo compito. Dal 1870 non si era più intesa, dalla bocca di un sovrano o di un ministro italiano, alcuna invocazione alla Divina Provvidenza. I liberali (...) non si curavano della religione (...) ed è un rivoluzionario convertito a dare l'esempio di un ritorno alle pratiche religiose. La Provvidenza si serve di strani strumenti per fare la felicità dell'Italia. Da parte mia, non rimpiango certo il parlamentarismo italiano, quando vedo Mussolini tendere risolutamente verso un governo conservatore"(Barone Beyens, Quatre ans à Rome, Paris 1924, p 138, citato in Ernesto Rossi, Il manganello e l'aspersorio, Milano 2000, pp 54-55).
Pochi mesi dopo, nella sua prima enciclica, Ubi arcano Dei (23/12/1922), Pio XI, mettendo in guardia contro le agitazioni sociali, le ribellioni alle legittime autorità e le lotte tra partiti poco interessati al bene comune, sente il bisogno di sottolineare che questi mali sono più frequenti nei Paesi in cui è in vigore un regime basato sulla rappresentanza popolare, per il quale il papa pare non nutra particolare simpatia: "le moderne forme di governo rappresentative, sebbene di per sé non contrastanti con la dottrina cattolica, che sempre si concilia con ogni forma di regime giusto e ragionevole, sono tuttavia le più esposte al sovvertimento delle fazioni"(n 7). Non si può certo dire che con queste parole il papa abbia incoraggiato le forze politiche che si opponevano alla nascente dittatura.
Quando nel 1924, dopo l'assassinio di Matteotti, il fascismo sembra sul punto di crollare travolto dall'indignazione dell'opinione pubblica, tra i parlamentari popolari (privi del loro segretario, don Sturzo, già nel 1923 costretto dalle pressioni vaticane a dimettersi a causa della sua opposizione politica) e quelli socialisti si intavolano trattative per la formazione di un governo che possa succedere a Mussolini. Ma Pio XI coglie l'occasione di un Discorso agli studenti universitari cattolici (8/9/1924) per deplorare il possibile accordo: con una simile innaturale alleanza, infatti, i cattolici popolari porterebbero al potere il partito socialista, dichiaratamente favorevole alla detestabile separazione tra Stato e Chiesa, contrapponendosi per di più ai cattolici che si riconoscono nel partito fascista, e sarebbe "davvero penoso al cuore del Padre vedere buoni figli e buoni cattolici dividersi e combattersi a vicenda".
L'anno dopo, nell'enciclica Quas primas (11/12/1925), Pio XI afferma che i governanti legittimi comandano per mandato di Cristo Re e conclude che, quanto più i cittadini saranno consapevoli che l'autorità viene dall'alto tanto più saranno pronti ad obbedire, e quindi si consoliderà una società ordinata e pacifica: "ancorché, infatti, il cittadino riscontri nei principi e nei capi di Stato uomini simili a lui, o per qualche ragione indegni e vituperevoli, non si sottrarrà tuttavia al loro comando qualora egli riconosca in essi l'immagine e l'autorità di Cristo". È appena il caso di ricordare che questo richiamo all'obbedienza valeva anche per quei cattolici italiani che ritenevano indegno e spregevole un capo di governo come Mussolini, che alcuni mesi prima in un discorso alla Camera si era assunto la responsabilità politica, morale e storica del delitto Matteotti.
Superato, quindi, il momento critico e messe definitivamente a tacere le opposizioni, Mussolini intensifica i rapporti col Vaticano, riuscendo nel 1929 a chiudere la questione romana. La Conciliazione tra Stato e Chiesa è indubbiamente un grosso successo per le due parti: da un lato rafforza il regime e dall'altro riconosce al cattolicesimo uno statuto privilegiato. Tralasciando gli aspetti più noti dell'accordo, può essere utile soffermarsi su quello economico. Da anni le finanze vaticane erano ridotte in condizioni disastrose e Mussolini aveva sempre mostrato grande sensibilità per questo problema: già nel 1924, e di nuovo nel 1925, aveva considerevolmente aumentate la rendita dei vescovi e la congrua dei parroci. Ma ora l'Italia versa alla Chiesa addirittura un miliardo in titoli e 750 milioni in contanti, e inoltre restituisce alcuni edifici ecclesiastici di enorme valore da tempo incamerati, esenta da ogni tributo le retribuzioni dovute a salariati e impiegati della Santa Sede e rinuncia ad imporre dazi doganali sulle merci importate dalla Città del Vaticano.
Non è necessario essere volgari seguaci di una concezione materialistica della storia per supporre che anche queste vantaggiose clausole finanziarie abbiano influito sull'entusiastico giudizio che sul Concordato appena firmato Pio XI espresse parlando ai professori e agli studenti dell'Università cattolica del Sacro Cuore: "Forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare, un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi (...) erano altrettanti feticci (...) tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi. (...) [Con lui siamo riusciti] a concludere un Concordato che, se non è il migliore di quanti ce ne possano essere, è certo tra i migliori" (Discorso agli allievi dell'Università cattolica del Sacro Cuore, 13/2/1929).
In effetti, che Mussolini sia libero da scrupoli di tipo liberale è certo, e infatti ha già instaurato in Italia un regime totalitario, che ora si può consolidare con le elezioni plebiscitarie tenute proprio poche settimane dopo la firma dei Patti Lateranensi. Difficile negare che l'atteggiamento del Vaticano abbia aiutato il fascismo a mettere radici in Italia, tanto più che è un fatto riconosciuto dallo stesso Pio XI quando, in seguito alle violenze di stampo squadristico scatenate contro le associazioni dell'Azione cattolica, nell'enciclica Non abbiamo bisogno (29/6/1931) accusa Mussolini di scarsa riconoscenza: anzi, vera ingratitudine "rimane quella usata verso la Santa Sede da un partito e da un regime che, a giudizio del mondo intero, trasse dagli amichevoli rapporti con la Santa Sede, in Paese e fuori, un aumento di prestigio e di credito che ad alcuni in Italia e all'estero parvero eccessivi, come troppo largo il favore e troppo larga la fiducia da parte Nostra" (n 17).
E tuttavia, neanche nel corso di questa crisi, che costituisce il momento di massima tensione col regime, e con questo documento, che è considerato la più chiara presa di distanza da esso, il papa ha intenzione di rompere col fascismo. Infatti dichiara che le sue critiche riguardano singole scelte, certamente gravi e detestabili ma che possono e debbono essere corrette, e conclude l'enciclica con la rassicurazione che "con tutto quello che siamo venuti finora dicendo, Noi non abbiamo voluto condannare il partito e il regime come tali" (n 62).
In effetti, i buoni rapporti permangono anche quando nel 1935 Mussolini inizia la conquista dell'Etiopia. Si tratta con ogni evidenza di una guerra coloniale, e quindi ingiusta per la morale cattolica. All'estero tutti la giudicano così, ma Pio XI sembra dar credito alla propaganda governativa che la presenta come una guerra difensiva e, rivolgendosi a duemila infermiere, afferma: "Noi non crediamo, non vogliamo credere a una guerra ingiusta. In Italia si dice trattarsi di una guerra giusta: infatti, una guerra di difesa per assicurare le frontiere contro i pericoli continui e incessanti, una guerra divenuta necessaria per l'espansione di una popolazione che aumenta di giorno in giorno, una guerra intrapresa per difendere o assicurare la sicurezza materiale a un Paese, una tale guerra si giustificherebbe da sola"(Discorso alle partecipanti al congresso internazionale delle infermiere cattoliche, 27/8/1935). Così, quando gli Italiani, facendo uso anche di gas asfissianti, conquistano Addis Abeba e Mussolini proclama Vittorio Emanuele III imperatore d'Etiopia, in tutte le chiese si canta un Te Deum di ringraziamento.
E persino nel 1938, quando sono appena state approvate le leggi razziali, fortemente discriminatorie nei confronti degli ebrei, Pio XI sembra ritenere che il merito di aver approvato i Patti Lateranensi, di cui è ormai prossimo il decennale, possa coprire tutti i demeriti di Mussolini, a cui esprime sincera gratitudine in occasione di un Discorso al Sacro Collegio (24/12/1938): "Occorre appena dire, ma pur diciamo ad alta voce, che, dopo che a Dio, la Nostra riconoscenza e i Nostri ringraziamenti vanno alle eccelse persone - cioè il nobilissimo Sovrano e il suo incomparabile Ministro - cui si deve se l'opera tanto importante, e tanto benefica, ha potuto essere coronata da buon fine e felice successo". Del resto la Chiesa, se rifiuta un antisemitismo di carattere razziale, ha per secoli coltivato un antigiudaismo di carattere religioso. Nel 1924, per citare un solo ma significativo esempio, padre Agostino Gemelli, fondatore e rettore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, scriveva: se "morissero tutti i giudei che continuano l'opera dei giudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio?" (in Vita e pensiero, agosto 1924, citato in Stefano Levi Della Torre, Errare e perseverare, Roma 2000, p 35).
Con la Conciliazione Mussolini ha acquistato un merito indelebile anche per il nuovo papa. Nella Summi pontificatus (20/10/1939), la sua prima enciclica, Pio XII infatti ricorda ancora con animo grato che dai Patti Lateranensi "ebbe felice inizio, come aurora di tranquilla e fraterna unione di animi innanzi ai sacri altari e nel consorzio civile, la pace di Cristo restituita all'Italia".
Della politica concordataria papa Pacelli è in effetti un convinto sostenitore, e già nel luglio del 1933, come segretario di Stato, aveva firmato il concordato con Hitler. Le trattative avviate dal Vaticano col governo tedesco inducono i vescovi, che avevano in precedenza espresso un giudizio fortemente negativo nei confronti del regime nazista, a modificare il proprio atteggiamento. Essi ricordano ora ai loro fedeli che debbono "adempiere con coscienza i propri doveri di cittadini, rifiutando per principio ogni comportamento illegale o sovversivo" (Dichiarazione episcopale, 28/3/1933, citata in John Cornwell, Il papa di Hitler, Cernusco 2000, p 207). La politica di Pacelli, letta in Germania come un avallo dato al nazismo, ha quindi provocato il disorientamento di milioni di cattolici tedeschi, che rinunciano ad ogni forma di opposizione, e la crisi del Partito del Centro Cattolico, che addirittura arriva all'autoscioglimento.
Deludendo le aspettative del Vaticano, Hitler non rinunzia però alle violenze contro i cattolici, ma le proteste della Chiesa sono ormai inefficaci. L'enciclica Mit brennender Sorge (14/3/1937) in cui Pio XI, accusando il governo tedesco di tollerare e addirittura favorire gli attacchi alla religione cristiana per sostituirla con la deificazione della razza e dello Stato, ribadisce che "il credente ha un diritto inalienabile di professare la sua fede e di praticarla in quella forma che a essa conviene" (n 31) ma dichiara tuttavia di non avere perduto la speranza che finalmente il Concordato possa trovare attuazione, può tutt'al più irritare Hitler ma non può certo mettere in difficoltà il regime. Del resto, il tono deciso delle parole del papa poco si accorda con l'atteggiamento conciliante mostrato nei mesi successivi in privato dal suo segretario di Stato, tanto che l'ambasciatore tedesco presso il Vaticano, von Bergen, può comunicare il 23 luglio al suo governo: "Pacelli mi ha ricevuto in modo decisamente amichevole e mi ha enfaticamente assicurato, nel corso della conversazione, che relazioni amichevoli e normali si sarebbero ristabilite il prima possibile" (citato in John Cornwell, Il papa di Hitler, Cernusco 2000, p 270).
Così il governo nazista continua a proclamare la religione del sangue, a perseguitare sacerdoti e sciogliere organizzazioni cattoliche, a imprigionare e uccidere ebrei, distruggendone case e sinagoghe: tutto ciò non induce il Vaticano a una condanna ufficiale. Anzi, divenuto papa nel 1939, nel comunicare a Hitler la propria elezione, Pacelli dà l'impressione che tutto in Germania vada per il meglio: "Noi stimiamo dovere del nostro ufficio dare notizia a Lei, come Capo dello Stato, dell'avvenuta nostra elezione. Al contempo Noi desideriamo assicurarle, fin dall'inizio del nostro pontificato, che restiamo legati da intima benevolenza al popolo tedesco affidato alla sua guida (...). Nella cara memoria dei lunghi anni durante i quali, come nunzio apostolico in Germania, tutto abbiamo messo in opera per ordinare le relazioni tra Chiesa e Stato in mutuo accordo ed efficace collaborazione a vantaggio delle due parti (...). Noi indirizziamo particolarmente in quest'ora al raggiungimento di tal fine l'ardente aspirazione che ci ispira e ci rende possibile la responsabilità del nostro ufficio" (Lettera a Hitler, 6/3/1939).
Le atrocità commesse dal regime hitleriano negli anni successivi non sono sufficienti a convincere il papa ad abbandonare le ambiguità del linguaggio diplomatico. Solo quando la Germania sarà stata definitivamente sconfitta, Pio XII formulerà, in una Allocuzione al Sacro Collegio (2/6/1945), quella chiara condanna che invano tante vittime della barbarie nazista avevano atteso nel corso della guerra: "Nutriamo fiducia che il popolo tedesco possa risollevarsi a nuova dignità e a nuova vita, dopo avere respinto lo spettro satanico esibito dal nazional-socialismo". Peccato che queste parole siano state pronunziate con tanto ritardo!
Del resto, è ovvio che per il Vaticano non era facile rompere con i regimi fascista e nazista, di cui aveva negli anni precedenti appoggiata l'azione volta ad instaurare una dittatura di destra in Spagna. Nel 1936, infatti, il generale Franco, sostenuto da Germania e Italia, aveva dato inizio a una rivolta militare contro il Fronte Popolare che aveva vinto le elezioni. Ricevendo un gruppo di preti fuggiti dalla Spagna, Pio XI chiarisce subito da che parte sta la Santa Sede, mettendoli in guardia contro il pericolo di una possibile collaborazione dei cattolici con le sinistre, e invia la sua speciale benedizione "a quanti si erano assunti il difficile e rischioso compito di difendere e restaurare i diritti e l'onore di Dio e della religione" (Discorso del 24/9/1936), e cioè a coloro che si erano ribellati al governo legittimo.
È vero che in Spagna molti preti erano stati massacrati ad opera delle sinistre ma non pochi erano quelli massacrati dai militari ribelli. Eppure, di questi ultimi Pio XI non sembra preoccuparsi, mentre nell'enciclica Divini Redemptoris (19/3/1937) condanna senza mezzi termini il comunismo e le stragi perpetrate dai comunisti: "Il furore comunista non si è limitato a uccidere vescovi, migliaia di sacerdoti, di religiosi e di religiose (...). Non vi può essere uomo privato che pensi saggiamente, né uomo di Stato consapevole della sua responsabilità, che non rabbrividisca al pensiero che quanto accade oggi in Spagna possa ripetersi domani in altre Nazioni civili" (n 20).
Quando poi i legionari di Franco riportano la vittoria, Pio XII non perde tempo per esprimere con un Radiomessaggio alla Spagna (16/4/1939) il suo entusiasmo e la sua fiducia nel nuovo governo: "Con immensa gioia ci rivolgiamo a voi, figli dilettissimi della cattolica Spagna, per esprimervi le paterne Nostre felicitazioni per il dono della pace e della vittoria (...). I disegni della Provvidenza, amatissimi figlioli, si sono manifestati una volta ancora sopra l'eroica Spagna (...). [Esortiamo i Governanti e i Pastori a insegnare i principi di giustizia contenuti nel Vangelo e] non dubitiamo che ciò avverrà: di questa Nostra ferma speranza sono garanti i nobilissimi sentimenti cristiani di cui hanno dato sicure prove il Capo dello Stato e tanti suoi fedeli collaboratori con la protezione legale accordata ai supremi interessi religiosi e sociali, in conformità agli insegnamenti della Sede Apostolica". Nelle carceri spagnole si trovavano allora oltre duecentomila prigionieri politici, ma quei 'nobilissimi sentimenti cristiani' non impedirono che ogni giorno a centinaia essi venissero portati davanti al plotone di esecuzione.
Anche in anni recenti l'opposizione al comunismo sembra agli occhi delle gerarchie vaticane un valore tale da permettere di chiudere gli occhi su illegalità, violenza e dittatura. Nel 1973, rovesciato il legittimo governo del socialista Allende, il generale Pinochet instaura in Cile la sua dittatura. Si tratta di un regime universalmente condannato per la sua ferocia dall'opinione pubblica democratica, eppure il papa Giovanni Paolo II non ha difficoltà, nel corso del suo viaggio in Cile del 1987, a presentarsi in pubblico a fianco di Pinochet, che dichiara che quando ha assunto la guida del Paese ha affidato "il successo della nostra missione a Dio e alla santissima Vergine del Carmelo". E nel 1993, in occasione del cinquantesimo anniversario del matrimonio del generale, il papa invia una sua foto con la seguente dedica: "Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, signora Lucia Hiriarte Pinochet, in occasione delle loro nozze d'oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine, con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale. Giovanni Paolo II". Ancor più calorosa la lettera del cardinale Sodano, segretario di Stato, che riconosceva negli sposi una coppia cristiana esemplare e rinnovava al generale "l'espressione della più alta e distinta considerazione". Come stupirsi quindi dell'intervento vaticano a favore di Pinochet presso le autorità inglesi e spagnole quando nel 1998 il sanguinario dittatore cattolico rischia di essere processato per i crimini commessi?
Non meno feroce la dittatura militare instaurata in Argentina nel 1976. Ma, appena tre mesi dopo il golpe, arriva la benedizione dell'allora nunzio apostolico Pio Laghi: "Il Paese ha un'ideologia tradizionale e quando qualcuno pretende di imporre altre idee diverse ed estranee, la Nazione reagisce come un organismo, con anticorpi di fronte ai germi, e nasce così la violenza. I soldati adempiono il loro dovere primario di amare Dio e la Patria che si trova in pericolo. Non solo si può parlare di invasione di stranieri, ma anche di invasione di idee che mettono a repentaglio i valori fondamentali. Questo provoca una situazione di emergenza e, in queste circostanze, si può applicare il pensiero di san Tommaso d'Aquino, il quale insegna che in casi del genere l'amore per la Patria si equipara all'amore per Dio". I generali colpevoli di genocidio, come Videla, Viola, Galtieri e Massera, tutti poi amnistiati dal presidente Menem, vengono ovviamente invitati dal nunzio apostolico Calabresi ai festeggiamenti ufficiali del 1991 per il tredicesimo anniversario dell'elezione di Giovanni Paolo II. E mentre Roma abbandona alla loro sorte vescovi come Angelelli, Gerardi o Romero, trucidati perché schieratisi con gli oppressi, gli ecclesiastici che per anni hanno mantenuto ottimi rapporti con gli aguzzini sono considerati in Vaticano degni di promozione: così monsignor Medina diventa vescovo castrense, monsignor Quarracino cardinale arcivescovo di Buenos Aires, e monsignor Laghi cardinale prefetto della Congregazione per l'educazione cattolica.
A questo punto mi pare che siamo in grado di rispondere al quesito iniziale: lo sgomento di tanti credenti è evidentemente del tutto immotivato. Se questa è stata la politica della dirigenza ecclesiastica nel secolo scorso, non si capisce infatti per quale ragione ci si dovrebbe attendere oggi una particolare sensibilità per i pericoli che corre la democrazia in Italia. Penso che i cattolici democratici farebbero bene, quindi, a proseguire nel loro impegno di difesa della legalità costituzionale senza preoccuparsi delle posizioni delle gerarchie vaticane, che hanno fermamente condannato i regimi totalitari comunisti ma non quelli fascisti. Se delle immani sofferenze provocate dai primi, da sempre combattuti, i responsabili della politica vaticana non portano il peso, di quelle provocate dai regimi autoritari di destra, di norma legittimati, essi sono senza dubbio oggettivamente corresponsabili. Somigliando, per quanto riguarda il campo politico, a ciechi che pretendono di guidare altri ciechi, questi uomini sono perciò da affidare alla misericordia del Padre, dato che spesso non sanno quello che dicono e che fanno.

da ADISTA n° 48 - 26.6.2004