32238. L'AQUILA-ADISTA.
Il paradosso è dirompente: padre Andrea D'Ascanio, al secolo Nicola,
fondatore e capo incontrastato del movimento antiabortista "Armata
Bianca", sacerdote cattolico e frate minore cappuccino, viene condannato in
primo grado dal Tribunale penale dell'Aquila per un reato di grave entità:
violenza privata nei confronti di tre persone. Dalla lettura delle motivazioni
alla base della sentenza (depositate il 21 gennaio) emerge che l'imputato ha
potuto commettere e ripetere questo reato proprio in virtù del carisma e
dell'autorevolezza che deriva dal suo stato di sacerdote e religioso. Dal
processo è apparso poi in maniera evidente come, durante le liturgie e le
celebrazioni presiedute da D'Ascanio, venivano commessi gravi abusi liturgici,
come confessare e comunicare bambini molto piccoli. D'Ascanio arrivava
addirittura a pretendere rapporti sessuali dalle sue "adepte" vestito
dei paramenti sacri. Eppure, anche dopo questa sentenza, nessuna autorità
ecclesiastica ha ritenuto di dover prendere provvedimenti contro padre Andrea,
nemmeno in forma cautelare, in attesa di una sentenza definitiva del Tribunale.
Anzi, il processo ecclesiastico che, parallelamente a quello penale, la
Congregazione per la Dottrina della Fede ha istruito nei confronti di D'Ascanio
fin dall'anno 2000, ha portato, in primo grado, all'assoluzione del fondatore
dell'"Armata Bianca" da tutte le accuse, con sentenza del 16/4/2002.
Il dicastero vaticano non ha però potuto ignorare gli errori dottrinali
contenuti nelle omelie e nelle pubblicazioni del frate; pur non riscontrandovi
eresie, ha però imposto a D'Ascanio di sospendere la predicazione in pubblico
per un periodo di sei mesi a partire dalla sentenza e poi l'obbligo di chiedere
di volta in volta, per un periodo di altri sei mesi, la licenza di predicare in
pubblico all'ordinario diocesano; ha inoltre imposto la consegna di tutte le
copie a disposizione dei libri "Dio è padre", "Spirito anima e
corpo" e "Battesimo dei bambini non nati" e di correggere gli
errori contenuti nelle altre pubblicazioni prima di procedere a ristampe. È
tuttora in corso la seconda istanza del processo. Ancora meno del Vaticano ha
fatto l'ordine religioso a cui D'Ascanio appartiene. La Curia provinciale dei
cappuccini dell'Abruzzo, contattata da Adista, ha confermato che nei confronti
del leader dell'"Armata" non c'è stato, e neppure si prevede,
alcun provvedimento disciplinare: del resto, hanno precisato, p. Andrea risponde
del suo operato direttamente al generale dell'Ordine. Nessuna informazione dalla
Curia generalizia: fino al 27/3 i cappuccini sono impegnati nel Consiglio
plenario dell'Ordine.
Una conferma del sostegno di cui D'Ascanio potrebbe godere in Vaticano potrebbe
venire da queste dichiarazioni fatte dal pubblico ministero (contenute nella
copia degli atti della I udienza del processo, il 2/12/2001): "ci sono
anche documenti sequestrati presso l'abitazione del D'Ascanio a dimostrare le
dimensioni della potenza di questa associazione 'Armata Bianca', trattandosi di
atti assolutamente segretissimi che certamente non potevano essere in loro
possesso. Si tratta di documenti che fanno parte dell'istruttoria segretissima
compiuta dalla Sacra Congregazione della Fede, atti che dopo l'istruttoria
segretissima possono essere pubblicizzati, ma ben dopo la nostra acquisizione
mediante sequestro. Questi atti non hanno nulla a che vedere con la
corrispondenza con il suo patrono, don Ennio Innocenti [71 anni, prete della
diocesi di Roma, di estrema destra, ndr], trattandosi di atti al quale il
difensore non poteva assistere e non ha assistito".
La sentenza
"Soggetto a pulsioni sessuali irrefrenabili", "uomo che tende a
imporre la sua volontà agli adepti anche attraverso comportamenti
minacciosi" e paventando "mali terreni e soprannaturali in caso di
disobbedienza ai suoi voleri", leader di una "organizzazione
rigidamente gerarchica, nella quale sono in pochi, se non uno solo, a decidere,
e nella quale valgono la regola dell'ubbidienza assoluta, acritica, al volere
del capo carismatico, ed il vincolo di segretezza sui comportamenti tenuti; la
pretesa arrogante di essere i soli depositari della verità rivelata, un fortino
assediato dai mali del mondo, da difendere a tutti i costi, e quindi
l'esclusione, di fatto, dal confronto con l'esterno, visto come un pericolo di
inquinamento della propria purezza". Una figura "tutt'altro che degna
di apprezzamento", che "non era il 'santo' che tutti credevano, ma una
persona che dirigeva l'associazione a fini di potere personale, con metodi
discutibili anche dal punto di vista economico, con deviazioni gravi anche dal
punto di vista religioso e con profanazione dei sacramenti". Sono alcuni
dei duri giudizi contenuti nella motivazione della sentenza emessa dal Tribunale
dell'Aquila nei confronti di padre D'Ascanio. Depositata in cancelleria
il 21/1/2004 (ma pronunciata il 25/10/2003), la sentenza condanna il frate
cappuccino a 1 anno e 6 mesi di galera (con il beneficio della condizionale) per
il reato di violenza privata nei confronti di tre donne; impone inoltre a
D'Ascanio il pagamento delle spese processuali, dei danni in favore della parte
civile e dei danni morali (fissati a 30mila euro).
La storia
La vicenda processuale di padre D'Ascanio comincia a maggio del 2000, quando
l'autorità giudiziaria dispose numerosi sequestri sia nella sede del movimento
"Armata bianca", presso la chiesa di Sant'Apollonia a L'Aquila, dove
D'Ascanio era rettore (l'incarico gli venne tolto nel giugno 2000), sia in altre
parti d'Italia e nella casa stessa del fondatore dell'"Armata Bianca".
Varie persone avevano iniziato a denunciare, tra l'altro, strani riti (definiti
"nozze mistiche"), in cui D'Ascanio aveva rapporti sessuali con le
adepte della sua "setta" anche vestito dei paramenti sacri; inoltre
dall'inchiesta emerse che il movimento organizzava spesso incontri di preghiera
cui partecipavano anche i bambini di 3 o 4 anni, che venivano confessati e
comunicati, e rilevò un contesto di ripetute violenze psicologiche sui membri
della comunità affinché si uniformassero totalmente alla volontà di padre
Andrea.
Alla fine delle indagini preliminari, il 30 maggio 2002, il magistrato aveva
disposto il rinvio a giudizio di D'Ascanio e di altre 9 persone, con accuse che
spaziavano dalla violenza privata (con l'aggravante dell'abuso di potere)
all'associazione a delinquere, alla violenza sessuale che in un caso aveva
coinvolto anche un minore. Condannato per il primo capo d'imputazione, D'Ascanio
è stato però assolto dagli altri. Per quanto concerne l'associazione a
delinquere, infatti, per il Tribunale "non pare si possa dire che gli
imputati si siano associati allo scopo di commettere questi fatti. Si tratta, in
verità, solo di trasgressioni compiute dal D'Ascanio". Nella sentenza è
stata però completamente smontata la tesi difensiva, che tentava di accreditare
la tesi del complotto contro D'Ascanio, che sarebbe stato ordito da alcuni
fuoriusciti dall'Armata in combutta nientemeno che con il vescovo dell'Aquila mons.
Giuseppe Molinari e alcuni settori della Chiesa.
Rapporti sessuali, ma senza violenza
Piuttosto articolata la questione delle violenze sessuali. D'Ascanio pretendeva
di avere rapporti sessuali con molte delle "adepte" dell'"Armata
Bianca". Diceva alle donne che loro erano state chiamate ad una importante
missione: quella di salvare, tramite il loro sacrificio, una fetta di umanità
(prostitute, peccatori, omosessuali, ecc.), liberandola dai demoni di cui è
prigioniera. Durante questo rito di purificazione, che padre Andrea definiva
"nozze mistiche", spesso il cappuccino indossava i paramenti sacri.
Dalle molte testimonianze rese al processo da ex appartenenti all'"Armata
bianca", tutte dichiarate attendibili dal tribunale, emergono molte e
dettagliate testimonianze delle "particolari" attenzioni del frate
francescano. Nonostante ciò il Tribunale non ha riscontrato gli estremi della
violenza. Perché, si spiega nella sentenza, si è trattato "di atti
consensuali, nei quali anzi le adepte si sentivano anche come privilegiate
rispetto alle altre perché prescelte dal padre per una missione superiore ed
incomprensibile alla natura umana". Potrebbe, dice la sentenza, esserci
inganno e proditorietà da parte di D'Ascanio ma, mancando le querele sui
singoli fatti, il Tribunale ha circoscritto l'analisi degli episodi unicamente
all'ipotesi del reato associativo.
Il caso di P. L.
Particolare rilevanza, all'interno del processo, rivestiva il caso di P. L.,
che all'epoca dei fatti non aveva ancora compiuto quattro anni. È risultato
evidente, dal dibattimento e dalle intercettazioni telefoniche, che il bambino
veniva confessato e comunicato da padre Andrea. Per quanto riguarda l'accusa di
violenza sessuale sul bambino, dice la sentenza, pur essendovi "elementi di
carico evidenti" contro D'Ascanio, essi "non raggiungono quel grado di
certezza, né sulla sussistenza dell'episodio, né sull'elemento soggettivo che
consentano di portare ad una dichiarazione di colpevolezza". "Questo -
si legge ancora nella sentenza - è l'unico episodio di tutto il processo in cui
il Tribunale non è potuto giungere ad una affermazione di certezza, in senso
favorevole o negativo per l'imputato". Del resto, dicono i giudici,
"nel processo manca del tutto la prova che il D'Ascanio in altre occasioni
sia stato attratto da rapporti sessuali con bambini". C'è però da
precisare che le indagini che riguardavano presunti episodi di pedofilia da
parte di D'Ascanio non iniziarono a partire da P. L., ma da fatti che avrebbero
coinvolto altri bambini, i cui genitori, però, essendo seguaci
dell'"Armata", dopo i primi racconti, non hanno più condotto i figli
agli incontri con lo psicologo e gli inquirenti.
Il clima all'interno dell'"Armata"
Su tutti i fatti emersi nel corso del dibattimento aleggia il folle clima di
intimidazione, violenza psicologica e cieca obbedienza a padre D'Ascanio,
"il profeta". Per la violenza psicologica esercitata su tre persone in
particolare, il Tribunale ha ritenuto ci fossero gli estremi per la condanna di
D'Ascanio. Il clima che si respirava all'interno dell'"Armata" è ben
descritto dalla sentenza: padre Andrea, si dice, "incuteva terrore negli
adepti", minacciando "mali terreni e soprannaturali nel caso di
disobbedienza ai suoi voleri, che in sostanza era il suo potere, come diretta
espressione del padreterno, a comminare". Ciò che padre Andrea esprimeva,
gli veniva "comunicato direttamente da Dio", "volendo con questo
far intendere che egli, proprio quale unico interprete della volontà divina,
spesso in contrasto con la Chiesa ufficiale, poteva influire su questo
percorso". I membri dell'"Armata" erano in tutto e per tutto
succubi della volontà di padre Andrea che aveva diritto di decidere sui
comportamenti e le scelte di tutti, anche se si trattava di questioni minime,
come il colore delle scarpe, il taglio dei capelli. A padre Andrea bisognava
chiedere anche il permesso per fare un viaggio. E non sempre tale permesso
veniva accordato. Un membro dell'"Armata", è scritto però nella
sentenza, fu fortunato: "era preoccupato perché doveva chiedere a padre
Andrea il permesso di tornare a Roma per dare un esame, e ricorreva all'aiuto di
terze persone perché intercedessero per lui, cosa che puntualmente si verifica,
ed il permesso viene infine concesso".
Se qualcuno disobbediva ai precetti di padre Andrea, oltre alle minacce di
terribili pene sulla terra e nell'aldilà, veniva immediatamente emarginato dal
gruppo. Eventi per la verità piuttosto rari, perché il "clima di
esaltazione mistica" che circondava la figura di padre Andrea portava chi
gli stava intorno a ritenere le sue parole un oracolo infallibile. Perciò,
quando ad una coppia di adepti padre Andrea preannunziò che avrebbero
finalmente avuto figli, i due non ebbero dubbi, anche se lei sapeva da tempo di
essere sterile; la donna, "per otto mesi ha finto una gravidanza, anche
mettendosi dei panni per far figurare la pancia". Suo marito rivelò al
Tribunale che D'Ascanio ripeteva che era sufficiente avere fede; così lui
"negava perfino l'evidenza scientifica, rispondendo all'ostetrica, che gli
diceva che la moglie non era incinta, che il figlio sarebbe nato". Un
episodio incredibile, che non si può certo spiegare con il basso livello
culturale della coppia: dagli atti entrambi risultano essere laureati e
impiegati in campo medico: "Nonostante questo - dice ancora la sentenza -
si sono prestati ad una penosa pantomima, pur di non ammettere che padre Andrea
aveva errato nel profetizzare la gravidanza".
32239. L'AQUILA-ADISTA.
Nicola D'Ascanio è nato a Cosenza il 15 febbraio 1935. Entrò come
novizio nei frati minori cappuccini nel 1956. Divenne frate pochi anni dopo, con
il nome di Andrea dell'Aquila e fu ordinato prete nel marzo 1962. Dopo un
periodo trascorso nel convento S. Chiara si trasferì in Puglia. Per vari anni
visse come eremita.
A Taranto, il 24 febbraio 1973, il primo fatto di cronaca che lo porta alla
ribalta: il cappuccino venne chiamato da Maria Teresa D'Abenante
(discendente di una nobile famiglia tarantina, che allora faceva l'insegnante e
divenne poi la più stretta collaboratrice di padre Andrea), a casa di Silvia
Cosima Martucci, la quale riteneva che il figlio, studente di Medicina,
fosse posseduto dal demonio. Mentre durante la notte tra il 23 ed il 24 febbraio
il rito riguardò il ragazzo, nel pomeriggio successivo le attenzioni di
D'Ascanio e della D'Abenante si concentrarono stranamente sulla Martucci, che
venne chiusa in una stanza insieme a loro. Alla fine la donna morì: la perizia
medica parlava di gravi lesioni interne causate dalla frattura di tre costole,
emorragia al pancreas, ecchimosi sulla schiena, morte dovuta ad arresto cardiaco
per compressione. Padre Andrea e la D'Abenante furono accusati di omicidio
colposo. Condannati nel processo di primo grado, furono però assolti in
appello. Prima della conclusione definitiva della vicenda per un periodo erano
riparati in Svizzera.
Rientrato all'Aquila nel 1980 insieme alla D'Abenante e ad altri collaboratori,
padre Andrea fonda l'"Armata bianca": scopo del movimento la crociata
ad oltranza contro l'aborto, la lotta al comunismo (si noti la contrapposizione,
fin nel nome, con l'"Armata Rossa" sovietica, contro cui le truppe
controrivoluzionarie "bianche" combatterono dal 1917 al 1920), la
diffusione del Vangelo nei Paesi dell'est, e l'evangelizzazione, specie dei
bambini più piccoli: D'Ascanio, si era convinto, tramite il devozionismo della
madonna di Fatima e la lettura degli scritti di Padre Pio da Pietrelcina (gli
agiografi del movimento narrano un incontro con d'Ascanio in cui il neo-santo lo
avrebbe spinto a fondare "l'Armata"), che la provvidenza avesse
predestinato i bambini a salvare il mondo. Per D'Ascanio, quindi, la formazione
religiosa dei più piccoli era considerata cruciale per la missione divina cui
era stato chiamato. Non stupisce perciò che la crociata contro l'aborto vedesse
l'"Armata Bianca" in prima fila. Il movimento era anche riuscito ad
aprire delle convenzioni con alcuni ospedali (a Novara, a Vercelli, all'Aquila)
per poter ottenere i feti abortiti così da celebrarne il funerale e procedere
con la sepoltura dei "piccoli martiri". A loro l'"Armata"
dedicò nel 1991 il monumento "Ai bambini mai nati"; poi vennero le
accuse da parte di ex appartenenti alla "setta" che hanno portato al
processo di primo grado ed alla condanna di D'Ascanio (v. Adista n. 3/2002).
32240. L'AQUILA-ADISTA.
Nei suoi anni di attività a L'Aquila, padre Andrea D'Ascanio ha potuto
operare liberamente soprattutto grazie al sostegno incondizionato di mons.
Mario Peressin, vescovo dell'Aquila per ben 15 anni, dal 1983 al '98 e morto
nel 1999. Fu Peressin ad affidare a D'Ascanio la rettorìa della chiesa di
Sant'Apollinare, a L'Aquila; lui a sostenere l'edificazione, nel 1991, di un
monumento al "bambino mai nato" (con tanto di lapide "Ai 50
milioni di bambini che ogni anno nel mondo vengono uccisi dall'aborto"),
promossa proprio da "Armata Bianca" ed alla cui inaugurazione (il 28
dicembre, il giorno in cui la Chiesa ricorda la strage degli innocenti compiuta
da Erode) parteciparono Franco Zeffirelli e Carlo Casini (presidente
del Movimento per la vita); sempre lui a tentare ripetutamente di dare, a
livello ecclesiale, un'approvazione ufficiale al movimento del frate
francescano.
Nel Bollettino diocesano del maggio '97, Peressin annuncia infatti che l'Armata
Bianca "dopo aver tanto lavorato e sofferto nel suo impegno apostolico per
i bambini, per la vocazione mariana, per la difesa della vita e per aiutare i
cattolici negli ex Paesi comunisti, sta per ricevere la sua prima approvazione
ufficiale, con regolari statuti approvati dall'autorità diocesana". Nel
bollettino del gennaio '98 Peressin continua a difendere l'opera dell'Armata
Bianca, ma sull'approvazione dell'"Armata" è meno fiducioso, anzi, è
costretto ad ammettere che in Vaticano ci sono ostacoli a ottenere il permesso
per il riconoscimento ufficiale: "Per quanto riguarda Padre Andrea
D'Ascanio, l'arcivescovo, in vista di un eventuale loro riconoscimento ufficiale
da parte della Chiesa ha preso il frate alle sue dipendenze. Allo stesso tempo
l'arcivescovo ha sottomesso all'esame della Santa Sede tutti gli scritti di
Padre Andrea, in modo da chiarire punti controversi. Del resto lui ha sempre
desiderato di sottoporre al supremo giudizio della Santa Sede non solo la sua
persona, ma anche le sue attività religiose ed apostoliche. Aspettiamo, quindi,
tutti con serenità e con fiducia le indagini della Chiesa". E infatti
l'approvazione non arrivò.
Di più, l'1 maggio '98 il Vaticano bloccò, con una lettera arrivata poco prima
della celebrazione, l'ordinazione sacerdotale da parte di Peressin di due
appartenenti all'"Armata Bianca", Giovanni Antonucci e Carlo
Benedetto Lauro, dopo che un primo tentativo di consacrare i due era già
stato bloccato a Quito, in Ecuador. Alla fine Antonucci la spuntò solo grazie
all'intercessione di Hnilica (v. notizia successiva), che lo raccomandò
a mons. Antoni Pacyfik Dydycz, vescovo di Drohiczyn, in Polonia, frate
minore cappuccino come D'Ascanio e figura di altissimo livello all'interno
dell'Ordine, di cui è stato definitore generale. L'ordinazione di Antonucci e
Lauro avvenne proprio in Polonia sebbene, anche in quella circostanza, il
Vaticano cercò di intervenire attraverso il nunzio apostolico. Ma era troppo
tardi: non solo Dydycz aveva provveduto alla consacrazione, ma nel '99,
nonostante le forti riserve vaticane sull'"Armata", concesse al
movimento il riconoscimento ecclesiastico all'interno della sua diocesi. Lauro
invece divenne prete in Ecuador: i due nuovi preti dell'"Armata"
dovevano rappresentare l'implantatio del movimento nell'est Europa e
nell'America Latina.
Oltre che per la questione dell'Armata Bianca, Peressin fu al centro di
moltissime polemiche, con il Vaticano, il clero diocesano e la cittadinanza, che
scandirono tutto il suo mandato come vescovo a L'Aquila. Ai suoi detrattori era
solito dire: "Io sono qua come arcivescovo dell'Aquila attraverso il potere
dello Spirito Santo, come successore degli Apostoli; ma anche come essere umano,
al pari del Papa, che non soddisfa tutti quanti: neanche Cristo ha soddisfatto
tutti". E Peressin, con il suo operato, di persone ne ha soddisfatte
davvero poche. Nato il 17 maggio 1923 a Azzano Decimo (Pordenone), studiò nel
seminario vescovile nella città prima di trasferirsi a Roma alla Pontificia
Università Lateranense; fece una lunga carriera nella diplomazia vaticana, fino
al 29 giugno 1983, quando venne nominato coadiutore all'Aquila, per subentrare,
il 31 dicembre di quell'anno, nella carica di arcivescovo a mons. Carlo
Martini. Di carattere autoritario e irascibile, si scontrò ripetutamente
con il suo clero, che indirizzò numerose lettere di protesta alla Congregazione
per i Vescovi. Clamorosa quella sottoscritta nel 1991 da 27 parroci della
Diocesi in cui Peressin veniva accusato di avere "un attaccamento al denaro
irrefrenabile, immorale e patologico" (v. testo integrale su Adista n.
23/91). Nella lettera si parlava di "operazioni illegali", nonché di
"prepotenze, offese e insulti"; per questo, i sacerdoti firmatari
chiedevano alla Congregazione la pronta sostituzione di Peressin (si rilevava
tra l'altro lo stile "spiccatamente autoritario" del vescovo, che
aveva "accentrato a sé ogni cosa" e "reso inefficace ogni
organismo diocesano", soprattutto per le questioni finanziarie, da lui
gestite disinvoltamente, creando "motivo di grave scandalo"). Ma il
Vaticano non accontentò i preti ribelli.
Ma altre polemiche investivano l'operato dell'arcivescovo: dopo il monumento al
"bambino mai nato", la "crociata" per imporre la sepoltura
dei resti degli aborti; poi l'accusa di aver preteso 5.000.000 di lire per
sfilare al corteo della Bolla della Perdonanza del '92; poi l'accertamento di
un'evasione per alcuni investimenti privati fatti in America ma mai dichiarati.
Alla fine il Vaticano, nel marzo '96, nominò mons. Giuseppe Molinari,
allora vescovo di Rieti, arcivescovo coadiutore dell'Aquila. Una nomina che, per
Peressin, equivaleva ad un prepensionamento de facto: le sue formali
dimissioni furono accolte in Vaticano due anni dopo, non appena lo scomodo
vescovo ebbe compiuto i 75 anni.
Ma anche in seguito Peressin continuò a creare imbarazzi alla Chiesa cattolica.
Persino dopo morto. Eclatante fu infatti la vicenda del suo testamento (v.
Adista n. 89/99), nel quale Peressin decise di diseredare la Curia diocesana,
destinazione naturale dei beni per consuetudine accreditata, dall'eredità dei
suoi averi, stimabili in circa otto miliardi di lire, tra beni mobili (tra cui
denaro accantonato in ben cinque conti correnti, di cui due presso lo Ior e uno
presso la Banca di New York) e immobili (appartamenti, tenute, negozi).
"Escludo totalmente dalla mia eredità - scrisse nel testamento - sia
l'attuale arcivescovo Giuseppe Molinari, sia i responsabili della curia
aquilana, in particolare quei preti indegni e traditori che hanno contestato e
fatto ammalare me e i miei immediati predecessori ma che Molinari, con manovra
perfida e vendicativa, ha nominato suoi collaboratori". Le accuse di
Peressin giunsero a colpire anche grossi calibri della gerarchia vaticana, come
il nunzio apostolico in Africa, mons. Orlando Antonini e il segretario di
Stato il card. Angelo Sodano: "Essi - scrisse - non meritano nulla
della mia eredità, semmai solo biasimo e vergogna per il loro operato
riprovevole". Una parte dell'eredità finì invece all'ex braccio destro di
Peressin, mons. Renzo Narduzzi (l'erede che aveva designato a
succedergli, poi rimpiazzato da Molinari per intervento del Vaticano): denaro
che doveva servire a promuovere la memoria del defunto arcivescovo.
32241. L'AQUILA-ADISTA.
L'altro potentissimo protettore di padre Andrea D'Ascanio (v. notizia
precedente) è, da ormai molti anni, mons. Pavel Hnilica, gesuita,
vescovo titolare di Rusado, presidente dell'Associazione "Pro Deo et
fratribus - Famiglia di Maria Corredentrice", amico e confessore di madre
Teresa di Calcutta, uomo assai vicino all'attuale pontefice. Mons. Hnilica,
slovacco, classe 1921, fu ordinato sacerdote nel settembre 1950 e vescovo (da mons.
Robert Pobozný) nel gennaio 1951 (un'ordinazione, come altre avvenute in
quegli anni nei Paesi "oltre cortina", piuttosto controversa: fu
riconosciuta dal Vaticano nel 1965, ma Hnilica inizierà a comparire
nell'annuario pontificio solo a partire dal 1991). Ma nella Cecoslovacchia
comunista Hnilica esercitò per brevissimo tempo il suo ministero episcopale:
nell'estate del 1951, infatti, fuggì all'estero, dopo aver ordinato vescovo al
suo posto un altro gesuita, Jan Chryzostom Korec (rimasto invece in
Cecoslovacchia durante tutto il periodo del governo comunista, scontando anche
otto anni di carcere: è cardinale dal 1991); Hnilica si trasferì a Roma
da dove assistette gli esuli slovacchi. Nel 1964 Hnilica conosce madre Teresa,
con cui inizierà un lungo sodalizio. Con un incarico nel Segretariato per i non
credenti, l'anno successivo Hnilica prese parte al Concilio, dove conobbe
l'allora cardinale Karol Wojtyla. Entrambi si trovano infatti a lavorare
alla formulazione dello schema 13 (che diventerà poi la Costituzione pastorale
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, conosciuta con il titolo Gaudium et
Spes): il futuro papa nella commissione generale, Hnilica in una
sottocommissione che si occupava dei problemi dell'ateismo. Tra gli uomini di
Curia più conservatori, nel 1968 ha fondato l'associazione "Pro Deo et
fratribus" per contrastare quello che Hnilica considera il "più grave
problema del nostro tempo: l'ateismo comunista". Proprio il suo fervente
anticomunismo è da anni strettamente connesso alla sua altrettanto fervente
devozione alla madonna di Fatima ed alla frequentazione di tutti i culti legati
alle apparizioni mariane sparse per il mondo (specie a Medjugorje).
E Fatima è sicuramente uno dei trait-d'union che collegano Hnilica a
padre D'Ascanio. Il frate cappuccino si recava spesso infatti nelle scuole e
nelle case dell'aquilano per parlare con i più piccoli, e raccontare loro la
storia dei tre pastorelli di Fatima. "Per raggiungere la salvezza - diceva
padre Andrea - sono necessari 5 milioni di bambini che durante la consacrazione
gridano il loro sì a Maria, come i pastorelli di Fatima. Essi porranno fine
alle guerre e porteranno il regno di pace e di amore".
Un altro punto d'incontro tra d'Ascanio e Hnilica è il pallino antiabortista:
il vescovo slovacco, infatti ha dato per anni il suo sostegno a tutti i più
accesi movimenti pro-life statunitensi.
Ma Hnilica è passato alla storia soprattutto per il suo coinvolgimento in uno
dei più grandi misteri della storia repubblicana, che chiamò in causa un
intreccio di interessi che legavano la finanza, il Vaticano e la P2: il caso Calvi.
L'8 marzo 2000, i giudici della settima Sezione del Tribunale di Roma
nell'ambito del secondo processo di primo grado per la ricettazione della borsa
del banchiere Roberto Calvi (trovato impiccato il 18 giugno 1982 sotto il ponte
dei Frati Neri a Londra), assolvono mons. Hnilica dall'accusa di ricettazione
(che era stato invece condannato a 3 anni nel precedente processo, conclusosi
nel 1993 e annullato l'anno successivo). Hnilica aveva ricevuto dal faccendiere Flavio
Carboni alcuni documenti contenuti nella borsa del presidente del Banco
Ambrosiano. Era accusato di averli ottenuti in cambio del pagamento di alcuni
assegni in bianco.
Il vescovo slovacco ha seguito da vicino tutte le vicissitudini
dell'"Armata Bianca". Quando arrivò dal Vaticano la lettera che
diffidava mons. Peressin dall'ordinare sacerdoti due appartenenti
all'Armata (v. notizia precedente), il vice di D'Ascanio, padre Giovanni Antonucci,
alla fine divenne prete proprio grazie all'intervento di mons. Hnilica. Inoltre,
quando iniziarono i guai giudiziari di D'Ascanio, fu proprio presso Hnilica, ad
Albano, che si diceva si fosse rifugiato il frate che, invece per alcune
settimane trovò riparo a Sabaudia, nella villa di una coppia di fedelissimi
dell'"Armata", prima di tornare a L'Aquila e mettersi a disposizione
degli inquirenti.