FINE DELLA SCUOLA
di Furio Colombo
Questo governo finirà, ma
non finiranno i danni recati alla Repubblica. Ci vorrà molto tempo per
ricostruire alcuni aspetti ormai irriconoscibili dell'edificio Italia. Uno di
questi è la scuola. Letizia Moratti ha, come persona e come ministro, un
pregio: è molto laboriosa. E un difetto: ha una visione della scuola del tutto
sganciata dal tempo in cui vive. Non sembra conoscere i modelli avanzati del
mondo, e in particolare quelli americani a cui il suo governo mostra di essere
devoto. Conosce poco la storia italiana, quella dei grandi educatori. Per
esempio, lei, cattolica al punto da cedere a tutte le richieste del Vaticano,
mostra di non sapere niente di Don Bosco e del modo in cui il grande educatore
torinese ha tentato di spostare dalla strada alla scuola il destino dei giovani
che sembravano inesorabilmente condannati all'ignoranza del lavoro marginale.
Letizia Moratti ha sventrato la concezione moderna del processo educativo. In
esso il pericolo più grande è la fuga dei ragazzi dalla scuola. E infatti lo
sforzo dei governi - in tutti i Paesi civili - è allungare e arricchire il
tempo di apprendimento e di contatto con tutte le fonti della vita culturale, e
di ritardare l'impatto con il lavoro. Per far capire quanto la cosiddetta
"riforma Moratti" si sia allontanata dalla concezione contemporanea
della scuola pubblica nel mondo, farò riferimento a una esperienza americana.
Quando, anni fa, sono stato direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di New
York, il Governatore di quello Stato, Mario Cuomo, mi ha chiesto di partecipare
con lui a un progetto che aveva per scopo di arginare l'emorragia di studenti
dalle scuole medie e medie superiori, una vera epidemia in tutte le aree urbane
americane. Questa emorragia colpiva soprattutto i ragazzi di origine italiana,
un fenomeno simile a quello che la sociologia individua nel nostro Nord Est:
ragazzi molto giovani preferiscono guadagnare subito qualcosa invece di
studiare. Per questo Matilde Cuomo, moglie del Governatore, che era stata
insegnante per tutta la vita, aveva disegnato un "Italian American
Curriculum". L'intenzione era di inserire un elemento di orgoglio che
avrebbe potuto trattenere nella scuola i ragazzi. La preoccupazione nasceva
anche dalla constatazione che pochissimi giovani italo-americani meritavano
l'accesso (che negli Usa è strettamente per concorso) nelle grandi università
come Harvard e Columbia.
Impressionava (e impressiona tuttora molti educatori americani) lo squilibrio
che si sta creando a vantaggio dei giovani della più recente immigrazione
asiatica. Essi non abbandonano mai le scuole, ottengono l'ammissione alle
migliori università, passano alle alte scuole di specializzazione e poi
direttamente a posti di lavoro più ambiti. Nel corso di una sola generazione
stanno trasformandosi in classe dirigente.
Questa esperienza è la più eloquente dimostrazione del rovesciamento logico e
mentale nel quale ha operato la Moratti nella sua disastrosa riforma della
scuola italiana. Cerchiamo però di estrarre, uno per uno, i punti più
clamorosamente sbagliati, che costituiscono danno grave per un sistema educativo
pubblico.
La Riforma Moratti prevede un incentivo all'uscita dal sistema formativo intorno
ai quattordici anni, età di per sé molto difficile, forse il punto più basso
delle capacità di autovalutazione e di decisione nella vita giovane. Proseguono
negli studi coloro che sono già motivati, che hanno il sostegno della famiglia,
che sanno che continueranno fino agli studi universitari. Si assentano, verso un
destino di lavoro che non potrà non essere e non restare modesto, coloro cui
manca l'incoraggiamento della famiglia o che si lasciano sedurre da un illusorio
richiamo di libertà dalla routine e dalla disciplina. E coloro che devono
cedere al bisogno di guadagnare qualcosa subito e che vengono scoraggiati, sia
personalmente, sia nell'ambito della famiglia, dal tener duro.
Ma vorrei allargare il riferimento americano, perché riesce incomprensibile che
un governo che ammira così intensamente le forze armate di quel Paese ne ammiri
così poco il sistema scolastico. La scuola pubblica americana, come ci
informano il giornalismo e la sociologia di quel Paese, attraversa un periodo di
crisi soprattutto per i drammatici tagli di fondi a favore della scuola privata
(come si vede, tutto il mondo di destra è Paese, e del resto è lo stesso mondo
di destra che vuole espellere Darwin dall'insegnamento e proibire la ricerca
sugli embrioni a fini scientifici e di salvezza medica).
Ma nessuno, mai, aveva pensato di incoraggiare l'abbandono della scuola a
quattordici anni. Lo dimostra la legge sulla "truancy".
"Truant" è qualunque ragazza o ragazzo che venga trovato in strada
nei giorni e nelle ore di scuola, se ha meno di diciassette anni. Per la polizia
e i giudici non ci sono scuse che tengano. Un "truant" che sia di
fronte ai videogiochi o in fabbrica, viene comunque fermato, e i genitori devono
rispondere del suo vagabondaggio, gli insegnanti della scuola locale devono
spiegare perché non hanno denunciato l'assenza del ragazzo. Lo sforzo del
sistema scolastico americano è di spostare il momento rilevante della vita
sociale sul diploma di scuola media superiore. Se un ragazzo si arruola nel
servizio militare senza quel diploma, viene immediatamente rimandato a scuola e
diventa soldato (soldato, non ufficiale) solo a diploma ottenuto.
Non esistono più posti di lavoro pubblico, per quanto modesti, per i quali il
diploma di scuola media superiore non sia richiesto. È una constatazione che
dovrebbe interessare coloro che ammirano la società americana per la sua
inclinazione pragmatica al "fare". Non dovrebbe quella società
apprezzare "rapporti frequenti e utili per l'orientamento dei giovani"
(parole della Moratti) con il mondo del lavoro? La barriera invece è netta,
perché non si considera capace di imparare a lavorare - nei mestieri del mondo
contemporaneo - chi non ha imparato a imparare, almeno attraverso i percorsi
fondamentali della scuola media e della scuola media superiore.
Sono cose che, con buona pace degli ossequienti direttori generali della Moratti,
sanno anche i genitori italiani. E infatti da quando il nuovo distruttivo
impianto pedagogico italiano invita i ragazzi a dividersi fra chi va a
"orientarsi" nel mondo del lavoro e chi resta a scuola, si sono
gonfiati paurosamente i licei classici. È un modo di correre ai ripari. Liceo
classico vuol dire: gli studi continuano. Se poi non continueranno, almeno c'è
una base utile per imparare a imparare. Ci sono poi due aspetti, uno di
psicologia elementare e l'altro di esperienza comune, che avrebbero dovuto
frenare la crisi distruttiva in cui è stato gettato l'impianto riformato della
scuola italiana. L'aspetto di psicologia elementare riguarda la naturale
tendenza dei più giovani che tutti i genitori e tutti gli educatori conoscono
bene, a ritenere di potere imparare da soli, di imparare "facendo",
perché "non c'è bisogno di nessuno che te lo insegni". Ciò che
chiamiamo scuola è una istituzione che da tempi immemorabili si sforza di
trattenere i più giovani a imparare prima di fare, un'invenzione antica per
rendere un po' più rapido il passaggio generazionale sia del sapere che del
fare. Ma dal versante del fare viene l'altra lezione che appare totalmente
ignota alla imprenditrice Moratti. Con la sola eccezione dei lavori manuali più
umili, basati sulla ripetizione, il lavoro cambia continuamente e radicalmente,
e non si depositano esperienze utili.
È ciò che ha creato la crisi fra le generazioni. La cultura passa da una
generazione all'altra. Invece il passaggio dell'esperienza di un lavoro non
passa più. La riforma della Moratti immagina un mondo alla Dickens in cui è
bene che i ragazzi, piuttosto che in strada, si raccolgano in luoghi in cui si
rendono utili. Sembra essere la sola a non sapere che, mentre cambiano le
generazioni di telefonino e di computer, cambiano anche, continuamente, i modi
di produrre, le sequenze di una fabbricazione, la stessa organizzazione delle
funzioni più semplici. La continua e rapidissima evoluzione di tutte le
tecnologie, anche quelle delle produzioni elementari, chiede l'allenamento di
intelligenze vive e prensili, allenate da una buona scuola ad ambientarsi in
situazioni continuamente diverse. Quell'allenamento può essere solo
intellettuale. Niente di pratico dura. Impari una cosa a sedici anni, a diciotto
non serve più. Imbarazza che l'ovvietà di queste constatazioni, che da decenni
ormai hanno attraversato tutti i livelli, anche i più modesti, della saggistica
e del giornalismo, non abbiano raggiunto Letizia Moratti, i suoi "advisors",
i suoi direttori generali del ministero.
Niente è più modesto, banale e sbagliato ai giorni nostri, di quei "ti
mando a lavorare" che era la minaccia dei genitori esasperati ai ragazzi
svogliati di cinquant'anni fa, quando lavorare non era che la ripetizione di un
gesto. Niente è più dannoso che separare i ragazzi a metà del percorso, tra
chi lavora e chi studia, quando non sai ancora quali sono le vocazioni, e nella
maggior parte dei casi non si sono ancora rivelati i talenti. Qualunque adulto
sa da tempo di non poter più giocare con i bambini il gioco, che ormai
appartiene al passato, del "e tu che cosa farai da grande?". Non può
più giocarlo perché riceve solo risposte orientate sull'ultimo videogioco o
sull'ultimo spettacolo televisivo. E il mondo del futuro appare popolato
soltanto di cantanti e veline, di "grandi fratelli" e di calciatori.
Dove non c'è la Moratti, il miracolo della scuola è di essere un ponte che
passa sul vuoto di ciò che non puoi ancora sapere, salva i ragazzi dal credere
che tutte le esperienze avvengano nel fisico e in video, e li introduce alla
infinita avventura dell'esistere con la mente. Al di là di quel ponte,
qualunque lavoro acquista un senso e un contesto. Al di qua, è una paghina per
non imparare e per restare bloccati su un pianerottolo destinato a sparire. Il
governo Berlusconi se ne andrà, e la signora Moratti tornerà alle sue opere di
bene. Ma quanto tempo ci vorrà per riparare l'immenso danno?
l'Unità 30 maggio 2004