RUSSIA
La palude di Vladimir
Putin
GIULIETTO CHIESA
Tutte
le domande sulla tragedia di Beslan sono ancora aperte e si può essere certi
che lo resteranno a lungo. Ma non occorre molto ingegno per rispondere
all'evidenza. Vladimir Putin deve fare i conti non solo con la Cecenia e il
terrorismo che ne promana. Constata - in questo nel giusto - che la Russia
intera è il problema. Un paese che, a tredici anni dal crollo dell'Unione
Sovietica, non riesce a uscire dalla palude economica, sociale, morale in cui si
trova. Soprattutto morale, perché non c'è alcun dubbio che un paese con quella
polizia, con quell'esercito, con quei servizi segreti, con quella burocrazia e
con quella politica corrotta che ha, non può fronteggiare né il terrorismo né
i compiti più elementari di una società civile.
Putin - concediamogli in questo la buona fede - vorrebbe risanare il paese. La
questione che si pone è quella, storica, di tutti i reggitori del potere che lo
hanno preceduto: con che misure, metodi, politica fare questo risanamento?
Gorbaciov, unico, scelse di tentare la strada democratica. E fu sconfitto. Ma
gli altri hanno fatto meglio? Hanno vinto, come Eltsin, come Putin. Ma con
l'autoritarismo, la violenza, la corruzione, l'inganno, la repressione non si può
risanare nessun paese, nemmeno la Russia paziente e succube.
Putin - lo si vede ormai anche a occhio nudo - vuole ricostituire la grandezza e
la potenza russa. Per questo sceglie di nuovo la via autoritaria. E, in
economia, sostituisce gli oligarchi (che sono quasi tutti antirussi, del tutto
insensibili agl'interessi nazionali) con uomini dell'apparato statale e con i
suoi fedeli provenienti dai servizi segreti. Ma tutto lascia pensare che,
liberandosi dei primi (cosa sicuramente utile e necessaria), possa fare
affidamento sui secondi, che sono corrotti e incapaci non meno dei ladri che
Eltsin ha portato al potere.
E' evidente che questa linea di Putin apre due problemi: in primo luogo aumenta
i suoi nemici interni. Essi hanno da sempre avuto contatti con il terrorismo
ceceno. Putin non può non sapere chi organizzò la seconda guerra cecena.
Chiedere a Boris Berezovskij, chiedere ad Aleksandr Voloshin, che allora avevano
importanmti uffici al Cremlino, prima che Putin diventasse molto potente.
Sarebbe utile che orientasse le indagini in quella direzione. Non è sicuro, ma
è molto probabile che potrebbe trovare qualcosa di interessante. Sarei curioso
di sapere perché non lo ha fatto fino ad ora. Forse Voloshin potrebbe
spiegargli cosa andò a fare, nell'estate 1999, nella villa di Adnan Kashoggi
sulla Costa Azzurra e chi vi incontrò. Se non sbaglio si chiamava proprio
Shamil Bassaev.
Il secondo problema è che parecchi oligarchi hanno molti rapporti con le banche
occidentali, dove fanno arrivare i loro denari in grande quantità. Un regime
nazionalista grande russo a Mosca non piace sicuramente né ai primi né alle
seconde. Se i ceceni mettono nei guai Vladimir Putin, tutti costoro non ne
saranno dispiaciuti.
Naturalmente questo ragionamento deve prevedere molti passaggi intermedi. Ma,
una volta che si tenga conto di una lunga catena di intermediari, che arriva
fino ai fanatici che eseguiranno il massacro, resta pur sempre la cruda realtà
degl'interessi in gioco.
Come Leonardo Sciascia splendidamente descrisse, spesso non occorre neppure dare
ordini, basta «far capire» e far arrivare i denari dove occorrono.
Del resto che diversi servizi segreti stranieri abbiano lavorato con i
terroristi ceceni può stupire solo i troppo ingenui.
Le guerre cecene hanno «prodotto» l'oleodotto Baku-Ceyhan, che passa per la
Georgia e la Turchia, bypassando la Russia. Se non ci fosse stata la guerra in
Cecenia l'oleodotto era già pronto, e passava vicino a Groznij. Chi è che si
sorprenderebbe scoprendo che i ceceni sono stati aiutati, per esempio dai
servizi segreti turchi, interessati a colpire gl'interessi russi?
C'è qualcuno disposto a giurare che i servizi turchi non hanno rapporti con i
servizi, per esempio israeliani, o statunitensi?
Ed è possibile immaginare che tra i consiglieri di Putin nessuno abbia letto i
saggi di Brzezinski, e di molti altri studiosi e sovietologi statunitensi, che
insistevano e insistono sulla necessità di fiaccare la Russia, di dividerla e
smantellarla prima che, eventualmente, faccia in tempo a rimettersi in sesto e a
(ri)diventare temibile? E anche se non hanno letto quei saggi, o se li hanno
dimenticati, possibile che non si siano accorti che la guerra afghana ha
regalato agli Stati Uniti tre paesi dell'Asia centrale ex sovietica?
Forse Putin farebbe bene a procurarsi altri consiglieri. E anche a guardarsi le
spalle, perché metà del KGB è rimasto filosovietico, ma l'altra metà (buon
peso) della benemerita organizzazione si è immediatamente venduta al miglior
offerente. E si sa come sono composte le squadre di sicurezza degli oligarchi.
Dunque la cosa più importante non è scoprire la dinamica degli avvenimenti
delle ultime ore della tragedia di Beslan. Molto più importante è ricostruire
i movimenti a Mosca e da qualche altra parte all'estero. Come negli Stati Uniti,
e come dovunque, per combattere il terrorismo non occorre militarizzare il
paese, cancellare le libertà civili, fare la guerra a questo o quello stato «canaglia»,
magari dentro il proprio territorio nazionale. Basta che quelli che devono fare
le indagini le sappiano fare e non vengano impediti nel farle.
Putin ha ragione a parlare di minacce esterne, ma dovrebbe dire chiaro che Al
Qaeda è, per lui, la più remota. Altre, più vicine, stanno diventando molto
minacciose.
"il
manifesto" del 8.9.2004