Esiste l'inferno ?

Prima parte

L’inferno tra i cristiani è l’annuncio, il dogma, che gode di minore simpatia e non ha molti credenti: solo una minoranza (così appare da recenti sondaggi) vi crede.  E’ vero che non è la maggioranza statistica dei fedeli che stabilisce la verità di un dogma, ma è anche vero che il “sensus fidelium”, “l’istinto di fede dei credenti”, nella Chiesa ha il suo peso e il Magistero deve tenerne conto.

Così il Concilio Vaticano II descrive il “sensus fidelium”: “La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito santo (cf. 1 Gv. 2,20 e 27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà che gli è particolare mediante il senso soprannaturale della fede in tutto il popolo, quando dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici’ (8) esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi. Infatti, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente si conforma, accoglie non la parola degli uomini ma, qual è in realtà, la parola di Dio (cf. 1 Tess.  2, 13), aderisce indefettibilmente "alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi’ (Giuda, 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita” (Lumen Gentium, 12).

 

Definizione tradizionale dell’inferno

Esso consiste nella separazione eterna da Dio dopo la morte. “La Chiesa nel suo insegnamento afferma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell’inferno, ‘il fuoco eterno’. La pena principale dell‘inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1035).

 In questo testo ufficiale purtroppo si parla ancora di pene dell’inferno e di fuoco eterno, anche se quest’ultima frase è virgolettata, realtà di cui oggi anche i credenti nell‘inferno hanno dubbi e perplessità, per non dire anche rifiuto.

Gli esegeti infatti parlano di linguaggio simbolico, che non deve essere preso alla lettera: “La Bibbia (anche circa l’inferno, ndr) ricorre ad immagini necessariamente negative perché devono indicare il distacco assoluto dalla luce, dalla vita, dalla gioia. Ecco, allora, il ricorso al ‘fuoco eterno’ .(M t 3, 12; 18 ,8; 25,41) o alla Geenna, .  una valle di Gerusalemme ove si incenerivano i rifiuti urbani e ove si celebravano riti infami (M t 5, 22-30).  Ecco anche l’immagine del pianto e dello ‘stridor di denti’ , un’espressione che suggerisce non tanto il gelo, ma il terrore (M t 13, 50), oppure il simbolo macabro di un verme che rode senza fine le carni (Mc 9, 48), o ancora l’incombere delle tenebre (M t 8, 12) (I).

 

La teologia e l’inferno

1- L’inferno non è un luogo ne la pena consiste nel fuoco eterno.

I brani del Nuovo Testamento circa l’inferno non hanno lo scopo di farci conoscere qualcosa su un’ effettiva realtà ultraterrena, vogliono invece indirizzare verso il bene la nostra vita terrena, hanno cioè uno scopo parenetico esortativo, morale, “vogliono kerygmaticamente influenzare la nostra vita terrena” (2).

2 -Molti teologi concordano anche nell‘affermare che ne la Sacra Scrittura, ne la Tradizione dicono che qualcuno sia nell’inferno (neppure Giuda, malgrado Mc 14,21; Lc 22,3; Gv 13,27): “il figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell‘uomo è tradito! Bene per quell‘uomo se nofosse mai nato!” (M c 14,21).

“Con la canonizzazione la chiesa manifesta sì la propria fede che determinati uomini sono nella beatitudine celeste, ma non fa alcuna affermazione simile circa la dannazione di determinati uomini” (3). 

3 -Per un gruppo di teologi può essere conforme alla Sacra Scrittura e al Magistero della Chiesa dire che l’inferno è una possibilità per coloro che muoiono lontano da Dio, ma questi testi “non direbbero tuttavia in materia cogente che degli uomini muoiono effettivamente in peccato mortale” (4).

 4 -La teologia moderna quindi non si sofferma più sul luogo dell’inferno, ne sul numero dei dannati, ne sulle pene.

Prima si parlava di “poena damni”, cioè la perdita perpetua della visione di Dio e la “poena sensus”, il “fuoco”, quale sofferenza che coinvolge la creatura nella sua corporeità. Oggi invece, coloro che credono nell’inferno, parlano di una punizione globale e irreversibile del dannato: “L’inferno è, allora, I’incompimento definitivo, l’imperfezione eterna dell’uomo, il suo fallimento globale; in quanto perdita definitiva del rapporto di relazione con Dio e con la sua opera di salvezza e perfezionamento dell’uomo. Come tale l’inferno è una situazione eterna, irreversibile, in quanto questo aspetto è conseguente all‘estraneamento dell’uomo da Dio: è un rifiuto di Dio che diviene irreversibile e di cui Dio prende atto, operandone una ratifica sostanziale” (5).

 

Il Magistero della Chiesa Cattolica

Per il Nuovo Catechismo Olandese l’inferno non contraddice la bontà di Dio; anzi chi più ama Dio, più crede nell’inferno: “A volte pensiamo: l’inferno è incompatibile con la bontà divina. Ma proprio coloro che erano profondamente animati dall’amore di Dio vi hanno creduto. Primo di tutti lo stesso Gesù; non dà cifre, ma nella risposta ad una domanda circa il numero dei salvati e dei dannati, ammonisce con profonda serietà, perché si segua la via che conduce alla vita. Qui ognuno dovrà trarre da se le sue conclusioni. L’ammonimento del Cristo è per noi un beneficio. Anche i santi hanno creduto all’inferno, senza che vi ravvisassero una contraddizione con l’amore di Dio: per colui che si ostina, il dolce calore dell’amore di Dio diverrà un fuoco di rimorso e di amaro rimpianto. Nelle scene del giudizio universale delle cattedrali medioevali il gesto di condanna è questo: Gesù mostra le sue cinque piaghe.  Per dire tacitamente, senza alcuna parola: guardate ciò che ho fatto, che avrei dovuto fare di più? La piccola Teresa cercava la sua risposta anche nella giustizia di Dio: nessuno andrà all’inferno se non lo merita” (6).

Per il Catechismo degli adulti, l’inferno è una tragica possibilità, legata alla serietà della nostra libertà: “La nostra libertà ha una drammatica serietà: siamo chiamati alla vita eterna; ma possiamo cadere nella perdizione eterna. ‘Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà’ (Sir 15, 17). Dio vuole che tutti siano salvati e vivano come suoi figli in Cristo, eppure per ciascuno c’è la triste possibilità di dannarsi: mistero inquietante, ma richiamato tante volte nella Bibbia, con parole accorate di minaccia e di ammonimento” (7).

Anzi, per questo catechismo, l’inferno sarebbe una testimonianza indiretta della grandezza di Dio.  “Tuttavia, con il loro stesso rifiuto, i dannati manifestano ancora la grandezza della libertà che ricevono in dono, e quindi la grandezza del Creatore. Con il loro tormento affermano la meravigliosa bellezza della grazia che non accettano, la potenza dell’amore che li attrae e che respingono. Come si può intuire, il male è integrato anch’esso nella gloria di Dio: anche se non è soppresso, è vinto per sempre” (8).

Queste affermazioni per me sembrano fuori da ogni logica umana e divina, in quanto Dio, in Cristo, si è dimostrato un Padre e una Madre dall'amore infinito, tale da non permettere che nessuno vada perduto:

“ E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno: questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno “ (Gv 6, 39-40).

Giovanni Paolo II in molti suoi interventi ha ribadito l'esistenza dell'inferno presentandolo non come castigo di Dio, ma come scelta libera della creatura; nel contesto ha spesso parlato della esistenza del demonio e della sua presenza certa nell’inferno.

“Dio è Padre infinitamente buono e misericordioso. Ma l’uomo, chiamato a rispondergli nella libertà, può purtroppo scegliere di respingere definitivamente il suo amore e il suo perdono, sottraendosi così per sempre alla comunione gioiosa con lui. Proprio questa tragica situazione è additata dalla dottrina cristiana quando parla di dannazione o inferno. Non si tratta di un castigo di questa vita. ..La ‘dannazione’ non va perciò attribuita all'iniziativa di Dio, poiché nel suo amore misericordioso egli non può volere che la salvezza degli esseri da lui creati. In realtà è la creatura che si chiude al suo amore.  La ‘dannazione’ consiste proprio nella definitiva lontananza da Dio liberamente scelta dall’uomo e confermata con la morte che sigilla per sempre quell’opzione. La sentenza di Dio ratifica questo stato.  La fede cristiana insegna che, nel rischio del ‘sì’ e del ‘no’ che contraddistingue la libertà creaturale, qualcuno ha già detto no. Si tratta delle creature spirituali che si sono ribellate all'amore di Dio e vengono chiamate demoni (cfr Concilio Lateranense IV: DS 800-801)” (9).

 

Verso la negazione dell’inferno eterno

L’inferno è sempre stato per molti il principale ostacolo per la fede, come afferma don Miguel de Unamuno: “ A causa dell’inferno ho cominciato a ribellarmi contro la fede; la prima cosa di cui mi sono disfatto è la fede nell’inferno, come un assurdo morale. La mia paura è stata l’annientamento, l’annullamento, il niente al di là della tomba. Perché anche un inferno, mi dicevo? E questa idea mi tormentava” (10).

La negazione dell’inferno viene da molto lontano:

1- Fu Origene ad affrontare direttamente il problema nei primi secoli della Chiesa. Per lui le pene non sono eterne, ma temporanee, Infatti alla fine dei tempi tutta l’umanità si salverà in Cristo e avrà luogo la “restaurazione finale” (apokatastasis) di tutti gli essere umani e del cosmo. Tale salvezza coinvolgerà anche i condannati all’inferno e i demoni.

2- Tale dottrina di Origene fu ripresa anche da altri Padri della Chiesa come Gregorio di Nissa, Teodoro di Mopsuestia ed altri.

3- Nel mondo protestante anche Karl Barth propone la teoria origenista della apokatastasis, nel suo commento al tradimento di Giuda; e a favore della sua teoria cita Coll, 19-20: “Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a se tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli”.

4- Anche la dottrina evoluzionista di Teillhard de Chardin sembra camminare in questa direzione.  5- In questo ultimo periodo il problema dell’inferno è stato ripreso da un teologo famoso e di indubbia ortodossia cattolica come Von Balthasar; il suo pensiero in merito è espresso da questa sua famosa teoria: l'inferno esiste ma si può sperare che esso sia vuoto; “non si può raggiungere la certezza, ma si può giustificare la speranza” in tal senso, appellandoci in modo particolare all'amore di Dio, che in Gesù di Nazareth, si è dimostrato illimitato.

6- Altri teologi, pur affermando la possibilità dell'esistenza dell'inferno, non come un intervento di Dio, ma come autocondanna umana, affermano una possibilità di salvezza per tutti attraverso l'opzione finale: in punto di morte Dio darebbe un’ultima possibilità di salvezza.

“L’inferno non è una condanna, ma un’autocondanna: una reale possibilità, non una realtà già fatta e preformata.  Di nessuno, nemmeno di Giuda, possiamo dire con sicurezza che si sia dannato. Esso comunque consiste nella perdita di Dio non nella pena impossibile del fuoco, la cui natura va interpretata analogicamente e non affermata letteralmente. Una visione nuova, fedele all’insegnamento della Bibbia e della Chiesa, che ha bisogno di un supplemento di attenzione per quanto riguarda il peccato che porta all’inferno.  Una questione che nell’ipotesi dell’opzione finale (l’ultima possibilità di salvezza offerta da Dio in punto di morte) troverebbe la sua soluzione più plausibile” (II).

7- Il teologo latino-americano Leonardo Boff parla dell’inferno in due sue opere.

Nella prima afferma che negare l’inferno è negare l’essere umano e quindi anche Dio, è non prendere sul serio la libertà umana: “L’uomo può tutto. Può essere un Giuda come può essere simile a Gesù di Nazareth.  Può essere un Auschwitz, un Dachau, un Mostar. Può essere un santo e può essere un demonio. Dire cielo e dire inferno significa riferirsi a ciò di cui l'uomo è capace.  Chi nega l’inferno non nega Dio e la sua giustizia, nega l’uomo o non lo prende sul serio. La libertà umana non è uno scherzo. E’ un rischio e un mistero, che implica l’assoluta frustrazione nell’odio o la radicale realizzazione nell'amore. Con la libertà tutto è possibile, il cielo ma anche l’inferno” (12).

In una sua seconda opera Leonardo Boff , approfondendo la sua dottrina, arriva all’annuncio di un inferno vuoto.  “Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui” (lGv 4, 8-9).

 In Dio c’è solo amore, perdono e misericordia; è questa la sua natura, ma anche la sua sofferenza, il suo inferno, in quanto spesso tale amore non trova corrispondenza.  “In Lui non c’è odio o vendetta. E, se non trova amore, continua ad amare e a soffrire. La mancanza di reciprocità nell’amore è riempita dal perdono. Allora Dio perdona e si mostra misericordioso nei confronti di chi Gli ha negato amore. E la sofferenza d’amore, come tutti gli innamorati sanno, è un inferno.

Dio ha il Suo inferno. Non è un inferno continuare ad amare chi non sente niente e non mostra amore? E per causa di ciò, soffrire e perdonare, senza ribellarsi, senza castigare e senza offendere come faremmo noi umani?  L’amore-misericordia è l’inferno di Dio. Dio è condannato a questo amore infernale perché così è la Sua natura. La misericordia rivela un aspetto essenziale della natura divina: il lato femminile di Dio. Misericordia significa, etimologicamente, possedere un cuore (cor) che si conduole della miseria (miseri) dell’altro perché la sente profondamente come sua. In ebraico è ancora più forte, perché la parola misericordia -rahamim - significa avere viscere come una madre e possedere seni come una donna. E’ commuoversi davanti al male dell’altro perché ci si sente intimamente colpiti e per questo con la disposizione ad essere magnanimi, clementi e indulgenti nei suoi confronti” (13). 

Ora nulla può offuscare e opporsi a questo amore - misericordia di Dio, neppure l’inferno. Infatti con tale amore Dio svuota l’inferno.

”E’ qui che entra la sua misericordia. La giustizia riempie l’inferno. E’ il bidone dell’immondizia dove Dio dovrebbe gettare tutto quello che non ha funzionato. Ma la misericordia lo svuota” (14).

Dio essendo giustizia infinita, e l’essere umano, spesso ingiusto e peccatore, creano e ri-creano l’inferno, in quanto Dio non è indifferente di fronte al male, tollerante, non è amorale, ma etico.

“La giustizia divina e il buon senso umano creano l’inferno e continuano a crearlo. E le ragioni sembrano convincenti. Perché il criminale e la vittima innocente non possono avere lo stesso destino. Ripugna al buon senso ammettere che i torturatori latino americani si trovino nello stesso posto di chi è stato torturato da loro. O che Hitler stia nello stesso cielo dei bambini ebrei innocenti, da lui mandati alle camere a gas. Non tutto è ammesso in questo mondo. E neanche nell’altro. E Dio non è cinicamente indifferente ai drammi umani. Egli si schiera dalla parte degli schiavi d’Egitto contro il faraone che li opprimeva, degli ebrei mandati alle camere a gas contro i nazisti, molti dei quali cristiani. Gesù non è morto invano sulla croce. Ma per mostrare che non tutto è ammesso. L’inferno è un’esigenza per una mente sensibile all'ordine cosmico. Il caos etico non può essere l’ultima realtà” (15).

Questa giustizia divina esige la figura di un Dio-Padre, giustiziere e ordinatore che nell’aldilà mette le cose al loro posto e lo fa con l’inferno. “Per questo l’inferno è uno strumento della religione del Dio-Padre giusto e giustiziere che mette ordine nel suo universo. E’ un’immagine religiosa, un'esigenza della cultura dell’uomo-maschio, patriarca e gran signore. A partire da questa cultura patriarcale si è creata l’immagine del Dio-Padre giustiziere e ordinatore” (16). 

Ma con l'inferno Dio perde la faccia, la faccia di un Dio Padre-Madre, annulla la sua onnipotenza amorosa e salvante. Subentra allora la sua maternità infinita per liberare l’inferno, svuotandolo in modo che tutti i suoi figli e le sue figlie siano con lui.

“Vince la religione del Dio-Madre che ha introdotto la misericordia. La misericordia -l’amore sofferto e doloroso -è un altro principio creatore di ordine cosmico. Ma con il vantaggio che adesso Dio è totalmente vittorioso” (17).

La religione di Dio Padre-Padrone lascia il posto alla religione del Dio-Madre quindi della misericordia. Dio Padre e Madre svuota il bidone dell’immondizia che è l’inferno, anzi non ne ha bisogno. “La natura divina impedisce che il Padre/Madre eterni abbiano un bidone dell’immondizia perché, come ogni madre, Dio sempre ama, perdona e riconcilia. E’ un fatto, Dio non ha bisogno

di un bidone dell’immondizia. Significherebbe la Sua eterna vergogna e il Suo infinito fallimento. Ma Egli è sufficientemente buono e misericordioso da aggiustare tutto quello che non ha funzionato nella lunga traiettoria dell’evoluzione verso il Suo Utero infinito” (18).

Solo le religioni e le chiese che vogliono dominare le coscienze dei loro fedeli e imporre leggi che restringono la libertà hanno bisogno di mantenere la paura dell’inferno. “E’ il grande strumento della loro dominazione. Esse creano delle comunità basate sul terrore. Ma in questo modo sacrificano l'immagine del Dio misericordioso di Gesù Cristo, l’idea dell’infinita compassione di Budda e il contributo di tutte le donne della storia, portatrici di misericordia. Queste religioni e chiese cristiane sono ostaggi del paradigma patriarcale. Esse hanno bisogno dell’inferno. E continueranno ad annunciarlo sinistramente finche continuerà a vigere il paradigma del padre-padrone” (19).

 

Conclusione

L’inferno non è l’ultima parola di Dio perché è stato vinto da Cristo crocifisso e risorto; questo fatto ci deve dare forza per combattere ed eliminare tutti gli inferni di questa terra. “Se Cristo è realmente risorto dalla morte e dall’inferno, ciò suscita la rivolta della coscienza contro gli inferni della terra e contro tutti coloro che li accendono. Infatti la resurrezione di questo condannato viene testimoniata, e già realizzata, nella rivolta contro la condanna dell’uomo da parte dell’uomo.

Quanto più realmente la speranza crede che l’inferno è stato sconfitto, tanto più militante e politica essa diventerà nel combattere gli inferni, bianchi, neri e verdi, grandi e piccoli” (20).

 

Seconda parte

L’Inferno è chiamato nella Bibbia Sheol (nel Primo Testamento) (in greco, Ade) e Geenna (nel Secondo Testamento ). I profeti parlano dello Sheol come simbolo del futuro inferno: cfr. Ger. 7,32; Is 66, 24.  Secondo alcuni studiosi però l’inferno, come castigo finale e definitivo, appare solo nel Nuovo Testamento, non con questo nome, ma con le seguenti espressioni: pianto e stridore di denti, oscurità, esclusione dalla felicità eterna, fuoco che non si spegne mai, ecc.  Secondo la Chiesa Cattolica Gesù parlò ripetutamente dell’Inferno: “Gesù parla ripetutamente della ‘Geenna’, del ‘fuoco inestinguibile, che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l’anima che il corpo. Gesù annunzia con parole severe che egli ‘manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente’ (M t 13,41-42), e che pronunzierà la condanna: ‘Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!” (M t 25,41) (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1034).

Esamino alcuni testi principali dei vangeli, seguendo esegeti che l'interpretano non secondo l'esegesi tradizionale, che invece vede negli stessi testi l’annuncio esplicito della dannazione eterna.

La posizione tradizionale verso l’inferno è chiara e ben nota: “. ..con la morte cessa per la persona umana la possibilità di cambiare la decisione presa in pienezza di luce e di libertà. Essa resta fissata per sempre in quello che ha deciso. La scelta di Dio o la scelta di se stesso contro Dio è irrevocabile, e Dio non può far nulla per cambiarla, altrimenti distruggerebbe la libertà umana, che è il dono più grande che Egli abbia fatto all’uomo nel crearlo, e che Egli mantiene anche quando l’uomo sceglie contro di Lui” (21).

“ Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna” (M t 5, 22).  Geenna (in ebraico Gei-hinnom, “valle di Hinnom” a sud di Gerusalemme) sotto i re Manasse ed Achaz (cfr.  2 Re 16,3; 21,6; Ger 7,31; 19,5; 32,35) era il luogo dove si facevano sacrifici umani al dio Moloch. Con il re Ezechia divenne la discarica pubblica dove sempre ardeva il fuoco. Inoltre vi si portavano anche i corpi delle vittime della peste: così divenne simbolo dell’Inferno.  Nella letteratura apocalittica indica il luogo di raduno degli empi per la condanna finale.

E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna “ (M t 10, 28).

Occorre ora fare una premessa per conoscere la mentalità ebraica sul rapporto anima-corpo: la distinzione o peggio l'opposizione è greca e non biblica.

“Benché Matteo distingua l'anima dal corpo, non prende in considerazione l’esistenza dell’anima separata dal corpo dopo la morte, cioè nel tempo intermedio prima della parusia di Gesù. Comunque, l’anima garantisce all'uomo la continuità della sua esistenza fino al giudizio finale. Per il semita è inconcepibile la vita senza il corpo.  Il detto si riferisce alla totalità della vita dell'uomo, conservata da Dio anche dopo la morte” (22). 

Matteo esorta a non aver paura dei persecutori (vv. 26-33). “Il ‘catacombismo’ perciò e il ‘silenzio’ in cui si vuol relegare la chiesa contrasta apertamente con la volontà del suo fondatore. All’uno e all’altro tentativo si oppone il comando di Cristo: ‘proclamatelo’, ‘annunciatelo” (23). A volte questo annuncio coraggioso dell’Evangelo comportava il rischio del martirio (v. 28) e molti cristiani cedevano e rinnegavano la fede (lapsi).  Per dare coraggio di fronte ai sacrifici e al martirio per la fede, Matteo non esita a far ricorso al deterrente dell’inferno. “Matteo ha fatto ricorso alle minacce (la geenna), segno evidente che le raccomandazioni da sole non bastavano ad impedire le defezioni (cfr. 5, 22.29; 23, 15.33). Lo spavento del fuoco può darsi che sia più efficace del timore dei carnefici” (24).

 

Matteo 13, 18-23.36-43

“Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. II Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti” (vv. 40-42). Molti esegeti mettono in discussione l'autenticità di questa parabola; ( non sarebbe di Gesù, perché rispecchia la situazione post-pasquale della comunità cristiana dove convivevano i fedeli impegnati, peccatori e miscredenti. La parabola della zizzania con la sua spiegazione risalirebbe,”quindi, o alla riflessione della Chiesa delle origini, o alla redazione di Matteo. Il brano è quindi parenetico, non teologico: fa leva cioè sulle minacce apocalittiche per portare gli ascoltatori alla conversione e non intende trasmettere verità di fede sulla vita eterna.  In Matteo e nei vangeli è molto frequente il genere letterario della parenesi: “Dal greco paraìnesis, derivato dal verbo parainein, ‘esortare’. E’ la predica cristiana in quanto si presenta con il carattere dell'esortazione e dell’ammonimento. Come concetto esegetico, indica il genere letterario biblico che contiene esortazioni, incoraggiamenti e propone le esigenze pratico-morali della fede spesso nella forma dell'etica nell'ambiente anche pagano nel quale si sviluppa ]a Bibbia” (25).

L’aspetto più sconcertante di questa parabola è in questo Dio che rigetta chi non accoglie Cristo (vv. 41-42). Tale sconcerto si prova anche leggendo altre frasi simili in Matteo: “Andate via da me” (7,22), “saranno cacciati fuori” (8, 12), “lo rinnegherò davanti al Padre mio” (10, 33), ‘fin dall’Ade precipiterai” (11, 23), “e la condanneranno” (12, 41), “per bruciarla” (13, 30), “ separeranno i cattivi da giusti “ (13,49), “ gettatelo fuori nelle tenebre “ (22, 12), “via da me maledetti” (25, 14).  Siamo davanti ad un Gesù venuto per condannare e non per salvare?, come invece si legge in Gv 3,17: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”.  Secondo molti studiosi sono testi da attribuire ai primi predicatori cristiani che puntavano sui castighi divini per spingere alla conversione i cristiani tiepidi e indifferenti. Non sarebbero messaggi teologici sul dopo morte.

“C’è pertanto da chiedersi se questi testi evangelici non siano squarci di omiletica cristiana che, come quella degli antichi profeti, ha fatto sempre leva sulle minacce di castighi per portar a ravvedimento gli uditori, più che annunzi divini sulla sorte ultima dell’uomo. Una notizia così grave qual è quella della conclusione della storia (o della fase terrestre de] regno) non può esser dedotta da testi così singolari in cui la fantasia e lo zelo hanno preso la mano del predicatore. Il futuro rimane, può darsi, un segreto che Dio non si è preoccupato di manifestare così facilmente come i predicatori cristiani sembrano fare intendere” (26).

Secondo altri studiosi il testo è di Matteo, ma ha lo stesso intento dei predicatori del tempo: affermare che non salva l’ortodossia, se manca l'ortoprassi: è la fede operosa che salva, non l'anomia, l'infedeltà alla legge di Cristo che è legge di amore e di solidarietà.  “L'appartenenza alla comunità cristiana non garantisce in se la salvezza finale. Il giudizio infatti non avverrà in base a criteri di carattere religioso o confessionale, ma secondo i] metro prassistico significato dal comandamento dell’amore del prossimo. L’evangelista combatte la falsa sicurezza dei cristiani che, fìduciosi negli elementi istituzionali e sacramentali della chiesa, trascurano concretamente la legge rivelata dal Signore” (27).

Luca 16, 19.32: parabola del ricco epulone

Lo scopo dell’evangelista è religioso, invitare cioè alla fede e alla salvezza, ma non esclude giudizi sociali sul rapporto tra ricchi e poveri. Gesù e Luca sono dalla parte di tutti i Lazzari della terra, ne condividono la sorte e così deve fare anche la Chiesa.

“L’intento dell’evangelista è ricordare che nella storia c’è stato almeno qualcuno che ha preso le difese di Lazzaro e della sua classe e che si preoccupa di spingere gli uomini, soprattutto i credenti, a rendersi consapevoli delle situazioni inique, assurde in cui i più vivono a motivo dello strapotere dei pochi” (28). 

Il finale della parabola è crudele e spietato per il ricco; la sorte dei due protagonisti sembra irreversibile; sono divisi per sempre da un baratro, da un “grande abisso”, invalicabile.

Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, ne di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento” (vv.  26-28).

Anche l’intento di Luca è qui parenetico e non teologico: non intende risolvere i problemi sull’aldilà, ma lancia un appello a vivere nell’amore e nella giustizia nell'aldiqua, per essere veramente secondo Dio. “Il bene come il male ha ripercussioni ultraterrene, ma come e in quale proporzione nessuno lo sa, ne forse il parabolista ha inteso rivelarlo. Se l’ha fatto, ha seguito una sua logica umana non quella di Dio” (29).

 Se prendiamo alla lettera la parabola nascono forti dubbi su Dio: è un Dio che sembra non avere la capacità di perdonare un ricco pentito. La presentazione così severa di Dio traduce e rispecchia l’ostilità dura di Luca verso i ricchi, la classe abbiente, durezza presente in tutto il suo vangelo: “Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame” (vv. 24,25).

Secondo quasi tutti gli esegeti, questa parabola non ha uno scopo dogmatico: rivelare che cosa c’è dopo la morte. E’ un racconto simbolico, apocalittico, che vuole mettere a fuoco il pericolo delle ricchezze non condivise.  “L’evangelo non intende darci informazioni sull’aldilà, ne sulla geografia escatologica, sul soggiorno degli empi e su quello dei giusti. Per parlare del rischio fatale della ricchezza, che chiude l’uomo agli altri e al futuro, l'evangelo ricorre ad un racconto simbolico aprendo uno scorcio oltre la morte. Ma per descrivere la condizione dei due protagonisti nell'aldilà esso utilizza le immagini e le raffigurazioni fantastiche note nella tradizione biblica e giudaica contemporanea. Nello stato intermedio, prima del grande giudizio in cui verrà assegnata la sorte definitiva, i giusti sono separati dagli empi; i primi sono in un mondo ideale di felicità, i secondi sono tormentati dal fuoco e dalla sete” (30).

 

Matteo 25,31-46: Il giudizio finale

“ E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna” (v. 46). Gli esseri umani egoisti, i capri (vv. 32-33), quelli insensibili alle sofferenze altrui, vengono messi nel giudizio finale a sinistra (perché era la parte meno privilegiata secondo la cultura antica).  Matteo, per loro, parla di fuoco eterno, eis to pyr to aionion (v. 41) o castigo eterno, eis kolasin aionion (v. 46). Il termine eterno, in ebraico ‘olam, in greco aion va interpretato alla luce della semantica antica e della concezione teologica presupposta dal brano, dove il centro è rappresentato dall’etica delle opere a favore degli ultimi.

‘Olam non significa eterno come intendiamo noi moderni, ma una durata lunga, indefinita, indefinibile di una realtà. “Il vocabolo olam nell’originale ebraico non significa assolutamente eterno, ma lunga, indefinita o indefinibile durata. L’ebreo non aveva concezioni filosofiche, o cosmo logiche profonde ed esatte; ne si è in grado di determinarle. L’autore parla secondo un’accezione popolare, generica del termine” (31). 

“La parola ebraica olam per l'Antico Testamento, e la sua traduzione greca aion per la Settanta e il Nuovo Testamento, designano un periodo compiuto, determinato, anche se di durata inafferrabile. Infatti la parola ebraica olam riguarda ciò che è nascosto, segreto, di cui si ignora sia l’inizio che la fine: ciò che è indefinito, indeterminabile” (32).

La parola quindi può avere diversi significati: ciò che è vecchio, antico (Gen 6,4; Lc 1,70; At 15, 18;), ciò che è stabile, come le montagne e gli elementi dell’universo (Gen 49, 26; Sal 72, 5.17), ciò che è permanente, durevole (ISam 2, 30; Gen 17,7; Ger 7,7; Is 61, 7), ciò che non solo dura, ma è anche misterioso come l'esistenza d’oltretomba (Ger 51, 39; Q o 12,5; Mt 18, 8).  Ma è soprattutto a livello teologico che nascono dubbi e perplessità: un Dio giudice inappellabile contrasta con un Dio Padre, Madre, Amico e anche con un Dio presentato come Sposo nello stesso cap. 25, 6. Inoltre Gesù invita i suoi discepoli/discepole a perdonare sempre, settanta volte sette; e Gesù è l’icona perfetta di Dio. Ora tale legge del perdono non vale per Dio che lo ha mandato?

E Gesù gli rispose: ‘Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”’ (M t 18,22).

Alcuni obiettano che la pena è eterna in quanto è irreversibile l'ostinazione dell'essere umano nel peccato: ma non si comprende come qualcuno possa ostinarsi a difendere a tutti i costi la propria infelicità. 

Il brano quindi, seguendo moltissimi esegeti, va interpretato nel suo contesto storico originario: il giudizio di Dio è presentato in modo mitico, secondo le procedure dei tribunali orientali.

“ Anche Dio è un giudice severo e inappellabile, anzi più munifico e più terribile di ogni altro; premia e punisce senza pari. Egli ha i domini che compartisce con gli amici fedeli e le prigioni per punirvi i suoi nemici. Gesù o meglio Matteo è rimasto legato alla mentalità e cultura del tempo nel presentare le manifestazioni della giustizia divina; non è improbabile perciò che molta predicazione cristiana sui destini ultimi sia basata unicamente sugli schemi dell’arte letteraria giudaica. Non possiamo pretendere di fissare il codice a Dio” (33). E’ difficile credere in un simile Dio.

Interessante è pure l’intuizione dell’esegeta Ortensio da Spinetoli: la libertà che è l’essenza dell’essere umano rimarrebbe anche oltre la morte come possibilità di una realizzazione piena nell’amore: “Se l’uomo rimane tale, e quindi libero anche nella fase celeste, mal si comprende il suo presunto stato di fissità nel bene e nel male. Non potrebbe essere, pertanto, questo un ulteriore residuo di una concezione filosofica che pone la perfezione, nella stasi, nell’immobilismo supremo, invece che nel movimento e nell’incessante divenire, come l’antropologia evolutiva inclina a pensare? Se l’uomo continua a essere libero, può darsi che continui anche a realizzarsi e a scrivere ulteriori pagine di storia. Le parabole del servo (24, 45-51) e dei talenti (25,14-30) fanno del cielo non un luogo di comodo riposo ma di superiore impegno” (34).

Anche per altri studiosi, il brano che è una composizione matteana, ha un intento parenetico ed è costruito secondo l’apocalittica giudaica. Il messaggio del valore delle opere è tipico della teologia di Matteo.  “Molti elementi riflettono chiaramente l’impronta matteana, come la compattezza letteraria, la strutturazione accurata con il ricorso ai numerosi parallelismi, l’uso di alcune espressioni (tutte le nazioni, trono della sua gloria), la concezione particolare del regno del Figlio dell’uomo, il tema del pastore, del giudizio divino in base alle opere, del premio eterno, del servizio in favore dei fratelli bisognosi, la presentazione grandiosa di Gesù quale giudice escatologico, l’intento parenetico” (35). 

Lo studioso E. T. Viviano definisce il brano un capolavoro, ma si chiede se esso venga da Gesù, o da Matteo, o dalla Chiesa primitiva, o dal Giudaismo come sosteneva il- grande teologo protestante Bultmann.  Potrebbe quindi essere una composizione di Matteo, unico degli evangelisti a riportare il giudizio finale.  Il brano è sempre stato letto e giustamente in chiave universalistica, non religiosa o confessionale; è l’amore concreto agli ultimi che salva, non salvano le appartenenze religiose o sociali, o di movimenti o di partiti.

Lo scopo di Matteo nel comporre questo brano fu quello di scuotere una Chiesa stanca e rilassata; forse all’origine di questa composizione parenetica ci fu un insegnamento di Gesù sull’amore concreto ai poveri.  “Si ritiene che l’evangelista abbia rielaborato materiale tradizionale. Ma si può pensare che, con probabilità, all’origine ci sia stato un insegnamento di Gesù. Egli è stato profondamente sensibile al tema dell’amore misericordioso per i poveri e i derelitti. Basterebbe a dimostrarlo la parabola del samaritano (Lc 10, 29-37).  Inoltre egli ha dichiarato beati i poveri (Lc 6, 20). Non è avventato congetturare che abbia individuato nelle opere di misericordia il criterio del giudizio ultimo” (36).

 

Alcune riflessioni finali

1- Dai vangeli non appare che Gesù sia stato un predicatore dell’inferno; è la tesi condivisa da molti esegeti e teologi. Certo Gesù parlò dell’inferno come ne parlavano tutti al suo tempo, usando il linguaggio di allora, quello apocalittico.

“Lo stesso Gesù, per quanto riguarda l’inferno, ha indubbiamente condiviso in larga misura le concezioni apocalittiche dei suoi contemporanei. Lo dimostra, insieme ai discorsi escatologici (certamente contestati nella loro autenticità), soprattutto la parabola lucana di Lazzaro e il ricco epulone nell’inferno. No, Gesù non è un apocalittico, che soddisfa la sempre esistita pia curiosità degli uomini circa l’aldilà, che proietta in un altro mondo le paure e le speranze non realizzate di questo mondo” (37).

Dell’inferno Gesù ha parlato marginalmente e con le formule tradizionali del tempo. Il centro del suo messaggio è il Vangelo, cioè una notizia lieta e non minacciosa.

2- Il Dio dell’amore predicato da Gesù non può essere vendicativo e colpire con pene eterne, infinite chi ha peccato.

“Devo credere in un tale Dio? In un Dio che potrebbe assistere a una simile crudele tortura psico-fisica, priva di speranza, di misericordia e di amore, oltre che senza fine, delle sue creature? Magari insieme ai beati in cielo, per tutta l’eternità? Coloro che propugnano un tale Dio pensano che il Dio infinito, di fronte ad un'offesa ritenuta infinita, per ristabilire il proprio ‘onore’ abbia bisogno di una tale punizione infinita; ma il peccato in quanto azione dell’uomo, è realmente più di un atto finito? E nel Nuovo Testamento Dio è davvero presentato come un simile creditore duro di cuore? Un Dio della misericordia, dalla cui misericordia sarebbero esclusi i morti? Un Dio della pace, che rende eterne l’inimicizia e la non conciliazione?” (38).

3- Molti però obiettano: non è Dio a castigare, a condannare con un verdetto dall’esterno, ma sono l’uomo e la donna che, liberamente, si autocondannano; e, con la morte, questo loro rifiuto di Dio diventa definitivo, irreversibile. A tale obiezione molti rispondono così: ci può essere qualcosa di definitivo, che resiste all'onnipotenza coniugata con la misericordia infinita di Dio?

“Che cosa significa qui definitivo? Dio, già secondo i Salmi, non domina anche sul regno dei morti? Che cosa può allora diventare qui definitivo contro la volontà di un Dio onnipotente e misericordioso? Perché un Dio infinitamente buono deve rendere eterna l’inimicizia, invece di superarla, e deve voler di fatto condividere per l’eternità la sovranità con un qualche anti-Dio?  Perché egli non dovrebbe avere più da dire qui una parola? Perché dovrebbe essere costretto a rendere impossibile per l’eternità una purificazione dell’uomo colpevole?” (39).

4- E’ strano: oggi la psicologia e la giustizia penale cercano alternative alle punizioni per i condannati e al carcere, per cercare di redimere e ricuperare chi ha sbagliato, anche molto, mentre Dio continuerebbe col vecchio sistema della pena vendicativa, definitiva ed eterna?

5- Per l’esistenza dell’inferno eterno ritorna spesso la risposta che esso rappresenta, anche se in maniera drammatica, il rispetto della nostra libertà. Ora sul problema del rapporto tra libertà umana e Dio (con la sua grazia), la teologia recente non li mette in concorrenza (cioè più energicamente opera la grazia, minore è la libertà e viceversa). Molti si chiedono: Dio non può salvare anche chi non può essere salvato? “Non si potrebbe pensare a una vittoria definitiva della grazia di Dio anche nella piena libertà dell’uomo?” (40).  Dicevano i teologi Scolastici “Nikil volitum, quin praecognitum” non si può volere quello che non è prima conosciuto; chi conoscerà bene la dannazione eterna da accettarla come stato definitivo della propria anima? 

6- Credere al paradiso è diverso dal “credere” all’inferno; infatti le due cose non sono sullo stesso piano.  “E’ esatto dire che il cristiano crede nel paradiso, ma non lo è altrettanto (per lo meno se si usa il verbo ‘credere’ nello stesso senso) dire che il cristiano crede nell'inferno. La fede cristiana è essenzialmente speranza.  Ma questa speranza viene proclamata davanti all’abisso del_fallimento. Parlare dell’inferno significa richiamare l’attenzione sull’abisso, ma non fissare l’attenzione su questo abisso e tanto meno affermare che qualcuno senz’altro ci cadrà dentro” (41).

 

Bisogna parlare dell’inferno, oggi?

7- Nella Bibbia se ne parla soprattutto a livello parenetico più che informativo: per spingere a vivere eticamente il presente. Quindi “non bisogna ‘predicare l’inferno’.  Predicare significa proclamare, annunciare la Buona Notizia. Si predicano il regno di Dio, la penitenza, il perdono dei peccati, la carità, il cielo, ma non si predica l’inferno” (42).

Occorre predicare la speranza della salvezza per tutti; infatti “quando Gesù parla dell’inferno non si tratta per lui di guardare al futuro, ma di far vedere l’importanza del momento presente” (43). Secondo il teologo Ruiz de la Pena, “la dottrina della morte eterna non appartiene al vangelo, che, nel suo significato letterale, è la ‘Buona Notizia’, annuncio di salvezza e non di salvezza o di condanna” (44). Secondo altri teologi nel Nuovo Testamento si afferma l’inferno come possibilità reale nella nostra vita. “Ma in contropartita si afferma la speranza della salvezza per tutti. Ciò che sfugge alla riflessione biblica, però, è in che misura si realizzi la possibilità reale della condanna dell’uomo” (45).

 8- Occorre inoltre ricordare che nelle antiche Professioni di fede ( Credo) e in quella più recente di Paolo VI non si parla dell’inferno.

Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell'aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della Resurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi. ...E con la fede e nella speranza, noi attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà (30 giugno 1968).

Interessante è un aneddoto medievale, narrato da uno storico e compagno del re Luigi IX, durante una crociata:

“Un frate domenicano, inviato dal sovrano a trattare coi Saraceni, aveva trovato sulla strada una vecchietta di nome Caritea. Costei reggeva, uno per mano, due recipienti: nel primo c’erano braci infuocate, nel secondo acqua gelata. “Che cosa vuoi farne?”, le aveva domandato il frate; e la vecchietta aveva risposto che col fuoco intendeva bruciare il paradiso e con l’acqua spegnere le fiamme dell’inferno in modo che nessuno facesse il bene per la speranza di un premio o si astenesse dal male per paura del castigo, ma unicamente ‘per amore di Dio’ “.

“Signore, se ti adoro per timore dell’Inferno, bruciami nel fuoco infernale; se ti adoro per la speranza del Paradiso, rifiutami il Paradiso. Ma se ti adoro soltanto per amor tuo, non mi negare il tuo eterno splendore” (Ràbi’a al-Adawiyya).

 

 don Luciano Scaccaglia (teologo e parroco di S. Cristina, S. Antonio Abate, S. M. Maddalena, S. Pietro d'Alcantara -Parma)

NOTE

(1) O. Ravasi, La Bibbia, risposta alle domande più provocatorie, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, p. 101.  (2) Lessico di teologia sistematica, a c. di W. Beinert, Queriniana, Brescia 1990, p. 352.

(3) Ibid.

(4) Ibid.

(5) Lexicon, Dizionario Teologico Enciclopedico, Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 528.

(6) Il Nuovo Catechismo Olandese, Elle Di Ci., Torino-Leumann 1969, pp. 581-582.

(7) La Verità vi farà liberi, Catechismo degli adulti, p. 586 (8) Ibid, p. 588.

(9) Cfr L'Osservatore Romano-Ediz. Settimanale, 30/7/1999. 

(10) M.de Unamuno, Diario intimo, Alianza Editorial, Madrid 1981, 6 ed. p.41 (tr. it. Patron, Bologna). 

(11) Cfr Vita pastorale, n. 4,2002, p.51.. 

(12) L. Boff, Vita oltre la morte, Cittadella Editrice, Assisi 1980, p. 83.

(13) L. Boff, Il bidone dell’immondizia che Dio non ha e altri racconti, Sperling & Kupfer Editori, Milano 1997, pp.45-46. 

(14) Ibid, p. 48.

(15) Ibid, pp. 46-47.

(16) Ibid, pp. 47-48.

(17) Ibid, p. 51.

(18) Ibid, p. 53.

(19) Ibid, p. 52.

(20) Brano riportato dal H. Kung, Credo, Rizzoli, Milano 1994, p. 172.

(21) A. Torres Queiruga, L'inferno, isg edizioni, Marna, Barzago (LC),.2002, p. 100.

(22) A. Poppi, I quattro vangeli, VoI. n, Edizioni Messaggero, Padova 1997, p. 142.

(23)     O. da Spinetoli, Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 1983, p.318.

(24)     Ibid.

(25)     Cfr Dizionario del Cristianesimo, Edizioni Jesus, Milano2000, p. 126.

(26)     0. da Spinetoli, Matteo, op. cit., p. 405.

(27)     I Vangeli, Traduzione e commento a cura di G.Barbaglio, R. Fabris, B. Maggioni, Cittadella, Assisi 1989, p. 326.

(28)     0. da Spinetoli, Luca, Cittadella, Assisi 1986, p. 532.

(29)     Ibid, p. 534.

(30)     I Vangeli, op.cit., pp. 1173-1174.

(31)     0. da Spinetoli, Matteo, op.cit., p. 677.

(32)     L. Monloubou-F.M. Du Buit, Dizionario Biblico, a c. di R. Fabris, BorIa, Roma 1987,p.359.

(33)     0. da Spinetoli, Matteo op. Cit., p. 678.

(34)     Ibid.

(35)     A. Poppi, I Quattro vangeli, op. cit., p. 216.

(36)     I Vangeli, op. cit., p. 545.

(37)     H. Kung, Vita eterna ? , Arnoldo Mondatori Editore,Milano 1983, p. 175.

(38)     H. Kung, Credo, Rizzoli, Milano 1994, p. 171.

(39)     Ibid, pp. 171-172.

(40)     P. Nocke, Escatologia in Giornale di Teologia, 1985, p. 141.

(41)     Ibid, p. 143.

(42)           A.M.Roguet, Preche-t-on suffisamment sur l’enfer? In AA.VV., Le Christ devant nous, Desclee, Paris 1967, p. 143. 

(43)            O. Oreshake, Màs fuertes que la muerte, Sal Terrae, Santander 1981, p. 120.

(44)           J.L.Ruiz de la Pena, La otra dimensiòn. Escatologia cristiana, Sal Terrae, Santander 1986, p. 254. 

 (45)    J. J. Tamayo-Acosta, L'escatologia cristiana, BorIa, Roma 1996, p. 414.