La
chiesa e la guerra
Da
www.italialaica 12.3.2004
Nel
1991, appena finita la prima guerra del Golfo, Giovanni Paolo II afferma che
la fede in Dio genera la pace tra gli uomini, e perciò "non ci sono
guerre di religione in corso e non ci possono essere guerre sante". E in
occasione della seconda guerra del Golfo ha più volte ripetuto che le
religioni non possono e non debbono essere usate per giustificare le guerre.
Chi
rifiuta l'idea della guerra santa non può che rallegrarsi per queste
dichiarazioni ma, al contempo, non può dimenticare che spesso invece le
religioni hanno provocato sanguinosi conflitti e che per secoli la stessa
chiesa romana ha incoraggiato la guerra.
Nella
Bibbia, in effetti, l'immagine di un Dio che ama tutti gli uomini e che fa
piovere indistintamente sui giusti e sugli ingiusti è inseparabile da quella
di un Dio degli eserciti che incita il suo popolo alla guerra contro i nemici.
Anzi quest'ultima immagine è quantitativamente prevalente in quelle Scritture
che le tre religioni del Libro considerano sacre. La conquista di Canaan, in
particolare, è presentata proprio come una guerra santa. Secondo il libro del
Deuteronomio, all'approssimarsi della battaglia il sacerdote dirà al popolo:
"Ascolta Israele! Voi marciate oggi per combattere i vostri nemici: che
il vostro cuore non si scoraggi... dal momento che il Signore vostro Dio
procede al vostro fianco, combatte con voi i vostri nemici e giunge in vostro
aiuto". E il massacro dei vinti avviene su esplicito ordine del Signore:
"Nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità
non risparmierai anima viva ma voterai allo sterminio Ittiti, Amorrei, Cananei,
Perizziti, Evei e Gebusei".
Nei
primi secoli della storia cristiana non mancano gli scrittori che,
privilegiando i testi biblici che esaltano la pace, arrivano a una condanna
assoluta della guerra. Agli inizi del 300, per esempio, Lattanzio scrive:
"non è permesso al giusto portare armi... Non esiste eccezione al
comandamento divino: uccidere è sempre un crimine".
Ma
la diffidenza nei confronti della guerra sembra venir meno già pochi anni
dopo quando, con Costantino, l'impero comincia a stabilire buoni rapporti con
la Chiesa: la croce fa la sua comparsa sulle insegne dell'esercito, le guerre
di Costantino sono viste come guerre di Dio e le vittorie sui nemici vengono
attribuite al Dio dei cristiani come in passato erano attribuite agli dei
pagani.
Così,
alla fine del quarto secolo, Agostino troverà nelle guerre narrate nella
Bibbia la giustificazione del ricorso alla violenza nei confronti dei nemici:
"non ci si stupirà né si avrà orrore delle guerre condotte da Mosè,
quando si consideri che egli non ha fatto che seguire gli ordini di Dio...
Cosa c'è di biasimevole nella guerra? L'uccidere uomini che un giorno
comunque moriranno, per sottomettere quelli che in seguito vivranno in pace?
Un biasimo del genere sarebbe da pusillanimi, non da uomini religiosi".
Perciò, se è l'autorità legittima che decide la guerra, il soldato che
uccide i nemici obbedendo agli ordini non commette peccato "se è sicuro
che ciò che gli viene comandato non è contrario alla legge di Dio, o almeno
non è certo che sia contrario".
Anzi
uccidere i nemici della Chiesa non solo non è peccato ma diventerà
addirittura un atto meritorio! Esprime questa convinzione Gregorio, vescovo di
Tours, quando narra che papa Stefano II così incoraggia i Franchi che, alla
metà del 700, combattono contro i Longobardi: "Abbiate certa fiducia
che, a motivo della guerra che conducete in favore della Chiesa, vostra madre
spirituale, il Principe degli Apostoli rimetterà i vostri peccati". E
Carlomagno, che impone la fede con la spada e che, alla fine del 700, dopo la
battaglia di Verden fa decapitare in una sola giornata 4500 Sassoni, è agli
occhi del monaco Alcuino il re ideale "alla cui ombra il popolo cristiano
riposa in pace e che da ogni parte ispira terrore alle nazioni pagane".
In
effetti, la Chiesa medievale ha cercato di favorire la pace solo tra i
cristiani ma ha normalmente giustificato la guerra contro i nemici della fede,
tanto che alla metà del 1000 un papa, per la precisione Alessandro II,
afferma esplicitamente che uccidere un infedele non è peccato. “Uccidere un
fascista non è reato”: la scritta che pochi decenni fa campeggiava sui muri
di tante città italiane ha illustri precedenti! E “Deus vult” sarà il
grido che accompagnerà i cavalieri che, allo scopo di liberare i Luoghi santi
strappando quelle terre agli infedeli, partono per la prima crociata, bandita
alla fine del 1000 da Urbano II con queste parole: "Non sono io che vi
esorto, è il Signore stesso... Mettetevi in marcia sotto la guida di
Dio". Ovvio che le stragi seguite alla conquista di Gerusalemme riempiano
di santo entusiasmo il cronista che le tramanda: "per le strade e le
piazze si vedevano mucchi di teste, mani e piedi tagliati... nel Tempio e nel
Portico di Salomone si cavalcava col sangue all'altezza delle ginocchia e del
morso dei cavalli... Presa la città, era mirabile la devozione dei pellegrini
dinanzi al Sepolcro del Signore... le parole non riuscivano ad esprimere le
lodi che il loro cuore offriva al Dio vincitore e trionfante".
E
nel secolo successivo, quando addirittura vengono fondati ordini monastici che
hanno lo scopo di combattere, l'esaltazione dello spargimento di sangue e
della guerra, anche preventiva, contro gli infedeli raggiungerà punte di
agghiacciante fanatismo negli scritti di un uomo come Bernardo di Chiaravalle,
che la Chiesa ha proclamato santo: "la morte inflitta o ricevuta in nome
di Cristo non ha nulla di criminale, e anzi merita una grande gloria. Infatti,
da un lato uccidere un nemico per Cristo è guadagnarlo a Cristo, che riceve
con misericordia la morte di un suo nemico come una riparazione, e dall'altro
Egli dona se stesso al suo soldato con ancora maggiore benignità, come
consolazione... La morte del pagano è una gloria per il cristiano, perché in
essa Cristo è glorificato; la morte del cristiano mostra la generosità del
Sovrano, perché il soldato è elevato di rango e decorato". E la
possibilità di trasformare in martiri dei peccatori che, dopo avere
confessato le loro colpe, muoiono combattendo appare a Bernardo un'idea
semplicemente divina: "Egli si degna di chiamare a servirlo, come fossero
colmi di giustizia, omicidi e ladri, spergiuri e adulteri, uomini rotti a ogni
sorta di crimine. Non è forse un'invenzione mirabile, che Egli solo poteva
concepire?".
La
violenza scatenata contro i Musulmani dilagherà agli inizi del 1200 anche nei
confronti degli stessi cristiani, scismatici come gli Ortodossi o eretici come
gli Albigesi. I teologi partiti al seguito della quarta crociata, infatti,
giudicano una grande opera di zelo la conquista di Costantinopoli, se fatta
per porre fine allo scisma e sottomettere i cristiani d'Oriente alla chiesa
romana. Le conseguenze della vittoria dei crociati, come racconta un cronista
bizantino, furono quelle prevedibili: "quando non trovarono più
resistenza, fecero passare a fil di spada tutti gli abitanti, senza
distinzioni di età o di sesso". E poco dopo la Francia meridionale viene
devastata quando Innocenzo III, invocando paradossalmente il Dio dell'amore e
della pace, impone al re Filippo Augusto di sterminare gli Albigesi: "Noi
vi domandiamo incessantemente, vi incoraggiamo con fervore e, in una tale
drammatica situazione, vi ingiungiamo... di non tardare a combattere tanta
malvagità e di impegnarvi per portare la pace a queste popolazioni nel nome
di colui che è il Dio della pace e dell'amore".
Quelli
che resteranno vivi, poi, saranno costretti ad abbandonare i loro errori. Nei
confronti degli eretici, infatti, il maggior teologo del tempo, Tommaso d'Aquino,
sosterrà che è lecito combatterli per obbligarli a tornare alla vera fede, a
cui si erano impegnati col battesimo, mentre la conversione non può essere
imposta ai Musulmani, che sono da combattere solo perché ostacolano la
diffusione del vangelo. Per cercare di limitare il ricorso alla guerra,
Tommaso dedica tuttavia particolare attenzione alla determinazione dei criteri
che permettono di considerarla moralmente giusta, ma insiste anche sul dovere
di obbedire del soldato, che perciò non è colpevole se agisce in virtù di
un ordine. Anche i nazisti processati dal Tribunale di Norimberga si sono
appellati a un simile principio! Principio, invece, contestato nello stesso
1200 dagli Albigesi, per i quali non c'erano guerre giuste e che consideravano
un assassino anche il soldato che uccide obbedendo a un ordine. E ancora alla
fine del 1300 sarà condannato in Inghilterra, dai vescovi che sostenevano la
teoria della guerra giusta, anche il pacifismo dei Lollardi, che giudicano la
guerra di per sé contraria al messaggio evangelico.
Col
Rinascimento e la riscoperta dei valori del mondo classico, le motivazioni
religiose della guerra cedono il passo a quelle decisamente terrene, e invano
un umanista cristiano come Erasmo da Rotterdam mette in guardia contro i
pericoli dell'esaltazione dei condottieri dell'antichità: "quando ti si
parla di Achille, di Serse, di Ciro, di Dario e di Cesare non lasciarti
sedurre dal prestigio del nome: non si tratta che di grandi, pazze canaglie
furiose". Così nel 1500 gli stati cristiani, più che a combattere gli
infedeli, pensano a combattersi tra loro e non fa eccezione lo stato
pontificio, tanto che il papa Giulio II si mette personalmente alla testa
delle sue truppe nella guerra contro i Veneziani, suscitando evidentemente lo
sgomento di Erasmo: "cosa c'è di comune tra la mitra e l'elmo, la tunica
santa e la corazza da guerra, le benedizioni e i cannoni, il pastore mite e i
banditi armati, il sacerdozio e la guerra?". Simili critiche non
impediranno a Paolo IV di benedire i propri soldati, tra cui non pochi
protestanti tedeschi, da inviare contro gli Spagnoli, sudditi di un sovrano
cattolico che vengono però gratificati dal papa di simpatici epiteti quali
“semenza di Giudei e di Mori” e “feccia del mondo”.
Ma
la motivazione religiosa non scompare; negli stessi anni essa rientra in gioco
anzitutto per giustificare la conquista dell'America: gli Europei, infatti,
hanno il dovere di portare a quei selvaggi non solo i benefici della civiltà
ma anche la vera fede, da cui dipende la salvezza eterna. Conseguenza di
questa generosa operazione, legittimata da Alessandro VI, che assegna ai
sovrani spagnoli "per l'autorità di Dio onnipotente,a noi concessa nella
persona di san Pietro, tutte le terre trovate e da trovare, scoperte e da
scoprire", saranno lo sterminio di milioni di indigeni e lo sfruttamento
delle loro ricchezze, mentre inascoltata resterà la voce di chi, come il
vescovo domenicano Bartolomé de Las Casas, considera ingiusti aggressori
proprio i conquistatori spagnoli, paragonati a "lupi, tigri o
crudelissimi leoni da lungo tempo affamati", e riconosce invece alle
popolazioni indigene il diritto di resistere agli oppressori.
E
la difesa della vera fede torna in primo piano anche nelle guerre che
insanguinano l'Europa in seguito alle divisioni religiose provocate dalla
riforma di Lutero. La convinzione che lo stermino degli eretici sia un dovere
sacro è comune alla maggior parte delle confessioni cristiane: Calvino, per
esempio, è sicuro che "Dio vuole che non si risparmino né le città né
i popoli; bisogna radere al suolo le mura, distruggere la memoria degli
abitanti e abbattere ogni cosa in segno del più grande odio, per timore che
l'infezione si estenda oltre".
Quando,
alla metà del 1600, diventa evidente che l'unità religiosa dell'Europa non
si potrà ottenere con la guerra, i sovrani cercano altre giustificazioni per
la loro politica espansionistica, servendosi tuttavia della religione per
giustificare agli occhi dei sudditi il loro buon diritto ad aggredire i
nemici: in effetti le lettere pastorali dei vescovi, le prediche dei parroci,
i Te Deum che regolarmente accompagnano le vittorie militari sono gli
strumenti di comunicazione di massa dell'epoca, e quindi efficacissimi per
rafforzare l'obbedienza dei sudditi con l'assicurazione che il loro sovrano
combatte per la causa di Dio. Così anche nelle guerre tra stati cattolici le
chiese nazionali si schierano sempre a fianco del re, che viene acclamato come
un nuovo David dal proprio clero e bollato come un Anticristo dal clero della
nazione vicina.
Luigi
XIV, per esempio, viene rimproverato per le sue numerose amanti ma viene
elogiato per le numerose guerre che intraprende: nel corso di quella contro
l'Olanda un eminente ecclesiastico, che presto diventerà vescovo, sostiene
che "la provvidenza divina permette che il re, giustamente irritato, vada
a portar guerra nel cuore degli Stati di una repubblica ingiusta e ingrata, e
faccia provare la forza delle sue armi a coloro che disprezzano i suoi
benefici e che vogliono opporsi alla sua gloria". Le guerre di Luigi sono
sempre giuste, anche quando le sconfitte si susseguono, perchè queste con
ogni evidenza sono una punizione divina meritata dai peccati del popolo e
un'occasione per mettere alla prova la costanza e il coraggio del re. Il
servilismo di tanti ecclesiastici francesi, non diverso da quello di tanti
giornalisti contemporanei, verrà alla luce ad opera dello stesso Luigi XIV,
che alla fine della sua vita avrebbe riconosciuto, rivolgendosi al suo
successore, che le sue guerre, spesso scatenate per futili motivi, erano state
causa di enormi sofferenze: la guerra "è la rovina dei popoli. Non
seguite il cattivo esempio che vi ho dato: spesso ho intrapreso la guerra con
troppa leggerezza e l'ho sostenuta per vanità".
La
gerarchia cattolica, se è apparsa disorientata e incapace di assumere una
posizione unitaria di fronte alle guerre frequenti anche tra gli stati
cattolici, tutte in qualche modo da essa giustificate, ritrova la sua
compattezza alla fine del 1700 nella condanna della violenza rivoluzionaria.
Contro la Francia rivoluzionaria e i suoi detestabili principi di libertà e
uguaglianza, la sua lotta alla religione e la sua rivolta al sovrano
legittimo, il papa Pio VI chiede all'imperatore d'Austria di essere "il
promotore e il capo di una coalizione necessaria per difendere la causa di
Dio, vostra propria causa, e per farla trionfare con l'unione delle
forze".
Nell'età
della Restaurazione, l'alleanza con i sovrani riportati sul trono dopo la
sconfitta di Napoleone fa ovviamente della Chiesa il baluardo dell'immobilismo
e della controrivoluzione. Ma la progressiva affermazione del sentimento
nazionale e delle idee liberali, democratiche e socialiste è inarrestabile:
la cristianità medievale cede lentamente il posto a una società
secolarizzata. Per la chiesa romana non è facile adattarsi alla nuova
situazione: dopo la perdita del potere temporale, essa si sforza di assumere
con scarsi risultati un ruolo super partes, impegnandosi nella difesa dei
principi morali e del valore della pace. Ma, come risulta evidente nel corso
della prima guerra mondiale, il clero delle diverse nazioni belligeranti non
segue le direttive di Benedetto XV, che invoca la fine del conflitto, ma si
identifica con gli interessi del proprio governo e prega per la vittoria
militare del proprio Paese.
Dopo
la catastrofe della seconda guerra mondiale, il tema della pace è posto al
centro dell'insegnamento del Magistero. Particolare solennità ha la
dichiarazione approvata dai vescovi riuniti nel concilio Vaticano II:
"Facendo proprie le condanne della guerra totale enunciate dagli ultimi
pontefici, il Concilio dichiara che ogni azione di guerra che tende
indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni, con
i loro abitanti, è un crimine contro Dio e contro la stessa umanità, e deve
essere condannata con fermezza e senza esitazione". Ma né la
dichiarazione conciliare, né l'enciclica sulla pace di Giovanni XXIII, né
l'invocazione 'Mai più guerra!' di Paolo VI nel corso della visita all'ONU, né
i ripetuti interventi di Giovanni Paolo II riescono ad impedire le guerre.
Secondo le statistiche più accreditate, dal 1945 in poi a causa dei vari
conflitti esistenti nel mondo muoiono dai tre ai quattro milioni di persone
all'anno: pare che le parole dei papi, così efficaci quando esortavano alla
guerra, ora che invitano alla pace abbiano effetti solo sul piano mediatico ma
siano irrilevanti persino per le cancellerie dei paesi di tradizione
cattolica.
E
la cosa non stupisce, dal momento che per secoli le religioni, e in Occidente
in particolare quella cristiana, hanno legittimato la guerra, e ancora oggi
esse risultano efficaci per rinsaldare l'unione delle forze contro il nemico.
Non è un caso che, se Saddam ha fatto appello alla gihad, già Bush aveva
presentato la guerra al terrorismo come la lotta del Bene contro il Male,
intessendo i suoi discorsi di citazioni bibliche per accreditare se stesso e
il suo Paese come investiti di una missione religiosa.
E'
ovvio, quindi, che strappare l'arma della religione dalle mani di chi vuole
usarla per giustificare la guerra non è un'impresa facile. E occorre ben
altro che la condanna della guerra santa, le fiaccolate o le preghiere per la
pace. Perché l'inversione di rotta delle chiese cristiane sia credibile ed
efficace occorrerebbero gesti molto più concreti, come un esplicito ripudio
della passata legittimazione della violenza, un fraterno e paritario dialogo
sia tra i credenti delle diverse religioni che con i non credenti, il sostegno
agli organismi internazionali che operano per la pace, la fine del
collateralismo con governi che fanno ricorso alla guerra e l'invito a non
votare per quei candidati che ne ammettono la possibilità, l'appoggio alle
politiche che favoriscono i Paesi del Terzo mondo e la tutela dei diritti
dell'uomo, l'impegno di non affidare i propri risparmi a banche che investono
nel commercio delle armi e il rifiuto di lavorare nelle fabbriche che le
producono, l'abolizione della figura del cappellano militare, la promozione
delle diverse forme di disobbedienza civile e la valorizzazione dell'obiezione
di coscienza, la scelta della difesa popolare nonviolenta...
Purtroppo,
invece, le nuove aperture convivono nell'insegnamento pontificio con le
vecchie posizioni. Basti pensare al fatto che il Catechismo della Chiesa
Cattolica riafferma la teoria tradizionale della guerra giusta e conclude che
"la valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al
giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene
comune". Ma non sappiamo ormai da diversi secoli che sulla base di questi
principi nessun capo di stato ha difficoltà a scatenare un nuovo conflitto?
Evidentemente, se negli ultimi decenni l'atteggiamento della Chiesa nei
confronti della guerra appare mutato, è innegabile che siamo ai primi passi e
che molto resta da fare per eliminare le ambiguità che ancora permangono.