Il
Mattino 12 dicembre 2003
NOGARO:
IN IRAQ GLI ITALIANI SONO IN GUERRA
Antonio
Pastore
Duro,
"radicale" e appassionato. Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta e
portabandiera dei diritti degli immigrati e del pacifismo italiano, non arretra
di un millimetro a un mese da quei morti e dalle polemiche che seguirono alle
sue dichiarazioni sia nella Chiesa che nel mondo politico (vedi l'indignazione
di Pisanu, Landolfi e altri). Domenica diocesi e associazioni scenderanno in
piazza a Caserta per la "marcia della pace" e Nogaro ripete il suo no
alla guerra e "allo sciacallaggio economico mascherato da missione
umanitaria".
Monsignore, ma quei ragazzi italiani a Nassiriya e in Iraq, che cosa sono?
Portatori di pace o soldati in guerra?
"Comunque tentiamo di giustificarla e da qualsiasi punto di vista la si
guardi, quella dell'Italia in Iraq è un'azione di guerra. Una guerra che,
indipendentemente dalla volontà del singolo, l'Italia combatte a fianco degli
Stati Uniti e di sicuro non per nobili ideali".
Il governo dice che siamo andati lì per portare la democrazia e per
pacificare il Paese...
"La pace non si porta con le armi, non si è mai visto da nessuna parte. La
violenza è tutta da condannare, sia che si tratti della guerra che del
terrorismo o di altre forme di resistenza armata. E poi, come si fa a negare che
l'esercito italiano e quello americano siano impegnati in una situazione di
guerra? La verità è che siamo andati in Iraq in qualità di alleati
privilegiati dell'America per difendere gli interessi occidentali".
E allora, come si esce dalla palude irachena?
"Semplicemente ritirando i nostri ragazzi. Non esistono soluzioni diverse
dal ritiro immediato e incondizionato, sarebbe un segno forte nella giusta
direzione per spezzare la spirale dell'odio".
Non ha paura che il ritiro venga interpretato come una fuga, un segno di
cedimento, invece?
"Guardi, in questi giorni è in visita a Roma il patriarca di Baghdad -
patriarca cattolico, badi bene - che sulla sua pelle ha subìto e patito il
regime di Saddam. Ecco, nemmeno lui è favorevole alla permanenza degli eserciti
stranieri in Iraq e lo ha motivato con ragioni che devono far riflettere".
E cioè?
"Il patriarca ha ricordato anzitutto che le nazioni dell'Occidente non
hanno alcun diritto di venire nel suo Paese a imporre regole e leggi che sono
estranee alla sua cultura e che, buone o meno buone che siano, comunque gli
iracheni mostrano di non gradire affatto. Con quali effetti, per giunta. Certo,
ha spiegato il patriarca, sotto Saddam si viveva male, c'erano indigenza e
ingiustizie. Ma adesso, ecco adesso la nazione pare trasformata in un enorme
giungla, dove regnano caos e disperazione. All'America il patriarca chiede di
ritirare le sue truppe: gli iracheni, magari con terribili sforzi, sono capaci
di venir fuori da soli da questo tunnel".
Ma se si ritirassero Bush e Blair, e scendesse veramente in campo l'Onu, lei
sarebbe favorevole all'invio o alla permanenza del contingente italiano sotto
l'ombrello delle Nazioni Unite?
"Certo cambierebbe il senso completo di tutta l'operazione, e a questo
punto bisognerebbe capire, valutare. Ci sono state situazioni, nell'ex
Jugoslavia e altrove, dove in effetti è stato possibile intervenire senza dare
all'intervento il significato di un'occupazione. In Iraq, però, per il momento
non è così".
Qual è la partita in gioco?
"È molto più di una vittoria o di una sconfitta politica. Qui è in gioco
la speranza dell'umanità, la sua salvezza o la sua perdizione".