Bush o Kerry? Per me
pari sono
Su entrambe le sponde dell'Atlantico
sta crescendo un mito, quello secondo cui negli Usa lo sfidante democratico
avrebbe una visione del mondo diversa da quella del presidente in carica. «Anybody
but Bush», chiunque tranne Bush, è uno slogan di successo. Ma visti da vicino,
George W. e John F. sono davvero simili
JOHN PILGER
Su entrambe le sponde dell'Atlantico sta
crescendo un mito pari alla favola delle armi di distruzione di massa irachene,
secondo cui John Kerry avrebbe una visione del mondo diversa da quella di George
W. Bush. Questa grossa bugia guadagna consensi mentre Kerry è incoronato
candidato dei democratici, e il movimento a favore di «chiunque tranne Bush»
diventa un argomento di dibattito tra i liberal. Se l'ascesa al potere della
banda di Bush, quella dei neoconservatori, ha preoccupato i media americani solo
in modo tardivo, anche il messaggio dei loro equivalenti del Partito democratico
ha riscosso finora scarso interesse. Eppure le somiglianze sono evidenti. Poco
prima dell'«elezione» di Bush nel 2000, il gruppo di pressione neoconservatore
Project for the New American Century aveva pubblicato un piano ideologico per «mantenere
l'egemonia globale Usa, impedire la nascita di una grande potenza rivale e
definire l'ordine per la sicurezza mondiale in base ai principi e agli interessi
americani». Tutte le sue raccomandazioni in termini di aggressione e conquista
sono state adottate dall'amministrazione.
Un anno dopo, il Progressive Policy Institute (un braccio del Democratic
Leadeship Council) ha pubblicato un manifesto di diciannove pagine per i
"nuovi democratici", tra cui vi sono tutti i principali candidati del
Partito democratico e in particolare John Kerry. Il manifesto auspica «il
coraggioso esercizio della potenza americana» quale nucleo di «una nuova
strategia democratica, fondata sulla tradizione del partito di un
internazionalismo dei muscoli». Tale strategia «terrebbe gli americani più al
sicuro della politica repubblicana del `fare da soli', che ha alienato i nostri
naturali alleati e messo a dura prova le nostre risorse. Noi intendiamo
ricostruire il fondamento morale della leadership globale Usa...».
Che differenza c'è, rispetto alle stupidaggini vanagloriose di Bush? Eufemismi
a parte, nessuna. Tutti i candidati presidenziali democratici hanno appoggiato
l'invasione dell'Iraq, tranne uno: Howard Dean. Kerry non solo ha votato a
favore dell'invasione, ma ha anche espresso il suo disappunto perché questa non
è andata come previsto. Alla rivista Rolling Stone ha detto: «Mi aspettavo che
George Bush combinasse un simile casino? Non credo che nessuno se lo aspettasse».
Né Kerry né nessun altro dei candidati hanno chiesto la fine di un'occupazione
cruenta e illegale; al contrario, tutti loro hanno chiesto più truppe per
l'Iraq. Kerry ha chiesto altri «40.000 uomini in servizio attivo» e ha
sostenuto l'aggressione cruenta e protratta di Bush sull'Afghanistan e i piani
dell'amministrazione per «restituire l'America latina alla leadership americana»
sovvertendo la democrazia in Venezuela.
Soprattutto, egli non ha in alcun modo messo in discussione l'idea della
supremazia militare americana in tutto il mondo, che ha già fatto salire il
numero di basi Usa a più di 750. Né ha alluso al colpo di stato del Pentagono
a Washington e al suo obbiettivo dichiarato di una «supremazia a tutto spettro».
Anche la politica «preventiva» di Bush di attacco agli altri paesi va bene.
Persino il più liberal del gruppo democratico, Howard Dean, si è detto pronto
a usare «le nostre coraggiose e notevoli forze armate» contro qualunque «minaccia
imminente». Proprio come aveva detto Bush.
Ciò a cui i nuovi democratici obiettano sono i toni espliciti della banda di
Bush - la sua cruda onestà, se si vuole - nel dichiarare i suoi piani
esplicitamente, senza nascondersi dietro il solito velo o il solito alibi
pretestuoso del liberalismo imperiale e della sua «autorità morale». I nuovi
democratici alla Kerry sono tutti per l'impero americano; ovviamente, essi
preferirebbero che queste parole non fossero pronunciate. L'«internazionalismo
progressista» è di gran lunga più accettabile.
Proprio come i neoconservatori avevano messo nero su bianco i piani della banda
di Bush, John Kerry - nel suo libro propagandistico A Call to Service -
riprende quasi parola per parola il manifesto guerrafondaio dei nuovi
democratici. «È giunto il momento» scrive «di far rivivere una visione
audace dell'internazionalismo progressista» insieme a una «tradizione» che
onora «la strategia decisa della leadership e dell'impegno internazionale
forgiata da Wilson e Roosvelt... e sostenuta da Truman e Kennedy nella guerra
fredda». Pensieri quasi identici appaiono a pagina 3 del manifesto dei nuovi
democratici: «Come democratici, siamo orgogliosi della tradizione del nostro
partito di un internazionalismo deciso e di una forte difesa dell'America. I
presidenti Woodrow Wilson, Franklin D. Roosvelt e Harry Truman hanno condotto
gli Stati Uniti alla vittoria in due guerre mondiali... [Le politiche di Truman]
alla fine hanno trionfato nella guerra fredda. Il presidente Kennedy ha
incarnato l'impegno dell'America per `la sopravvivenza e il successo della
libertà'».
Si notino le bugie storiche contenute in questa affermazione: la «vittoria»
degli Usa con il loro breve intervento nella prima guerra mondiale, la
cancellazione del ruolo decisivo svolto dall'Unione Sovietica nella seconda
guerra mondiale, l'inesistente «trionfo» dell'élite americana sugli eventi
internazionali che hanno fatto crollare l'Unione Sovietica, la famosa devozione
di John F. Kennedy alla «libertà» che sovrintese alla morte di circa tre
milioni di persone in Indocina.
«Forse la parte più disgustosa del libro» scrive Mark Hand, direttore di
Press Action, il gruppo di monitoraggio dei media americani, «è quella in cui
Kerry discute la guerra del Vietnam e il movimento contro la guerra».
Autopromossosi eroe di guerra, Kerry ha brevemente partecipato al movimento di
protesta al ritorno dal Vietnam. Nella sua doppia veste, egli scrive: «Alle
interpretazioni sbagliate dei conservatori e dei liberal su questa guerra, io
rispondo che è ora di superarla e di riconoscerla come un'eccezione, non come
un valido esempio delle imprese militari Usa nel XX secolo».
«In questo passaggio» scrive Hand, «Kerry cerca di giustificare i milioni di
persone massacrate dall'esercito americano e dai suoi surrogati durante il XX
secolo [e] suggerisce che le preoccupazioni circa i crimini di guerra americani
in Vietnam non sono più necessarie... Kerry e i suoi colleghi del movimento per
l'«internazionalismo progressista» sono dei fanatici tanto quanto le loro
controparti alla Casa Bianca... A chi andrà il vostro voto di novembre?
Coca-cola o Pepsi?» (...)
Come il manifesto dei nuovi democratici giustamente segnala, l'«internazionalismo
deciso» dei democratici ha avuto inizio con Woodrow Wilson, un megalomane
cristiano convinto che l'America fosse stata scelta da Dio «per mostrare alle
nazioni di questo mondo come esse cammineranno sui sentieri della libertà».
Nel suo magnifico nuovo libro, The Sorrows of Empire (Verso), Chalmers
Johnson scrive: «Con Woodrow Wilson sono state gettate le fondamenta
intellettuali dell'imperialismo americano. Theodore Roosvelt... aveva
rappresentato una visione militaristica ed europea dell'imperialismo basata
sull'idea che il destino manifesto degli Stati Uniti fosse di governare le
popolazioni dell'America latina e dell'Asia orientale, considerate razze
inferiori. Wilson sovrappose a questo la sua idea iper-idealistica, sentimentale
e astorica [della supremazia mondiale americana]. Tale progetto politico non era
meno ambizioso e appassionato della visione del comunismo mondiale lanciata
quasi contemporaneamente dai leader della rivoluzione bolscevica.
Fu l'amministrazione democratica wilsoniana di Harry Truman, alla fine della
seconda guerra mondiale, a creare lo «stato di sicurezza nazionale»
militarista e l'architettura della guerra fredda: la Cia, il Pentagono e il
Consiglio per la sicurezza nazionale. Unico capo di stato ad avere usato le
bombe atomiche, Truman autorizzò le truppe a intervenire ovunque «per
difendere la libera impresa». Nel 1945, la sua amministrazione creò la Banca
mondiale e il Fondo monetario internazionale come agenti dell'imperialismo
economico americano. Più tardi, usando il linguaggio «morale» di Woodrow
Wilson, John F. Kennedy invase il Vietnam e scatenò le forze speciali Usa come
squadroni della morte; esse ora operano in tutti i continenti.
Bush ha beneficiato di questo. I suoi neoconservatori non derivano dalle radici
tradizionali del Partito repubblicano, ma dalle ali di falco del Partito
democratico - come l'istituzione del sindacato, l'Afl-Cio (noto come l'«Afl-Cia»),
che ha ricevuto milioni di dollari per sovvertire i sindacati e i partiti
politici in tutto il mondo, e l'industria delle armi, costruita e nutrita dal
senatore democratico Henry «Scoop» Jackson. Paul Wolfowitz, il più fanatico
dell'amministrazione Bush, ha cominciato la sua vita politica a Washigton
lavorando proprio per Jackson. Nel 1972 un eretico, George McGovern, affrontò
Richard Nixon come candidato dei democratici contrario alla guerra. Virtualmente
abbandonato dal partito e dai suoi potenti sostenitori, McGovern fu schiacciato.
(...)
Una domanda che i nuovi democratici amano porre è: «Cosa avrebbe fatto Al Gore
se non fosse stato defraudato della presidenza da Bush?». Il principale
consigliere di Gore era il super-falco Leon Fuerth, il quale ha detto che gli
Usa dovrebbero «distruggere il regime iracheno, rami e radici». Joseph
Lieberman, che correva con Gore nel 2000, ha contribuito a fare approvare dal
Congresso la risoluzione sulla guerra all'Iraq. Nel 2002, lo stesso Gore ha
dichiarato che l'invasione dell'Iraq «non era essenziale a breve termine» ma
«nondimeno, tutti gli americani dovrebbero riconoscere che l'Iraq rappresenta
davvero una grave minaccia». Come Blair, Gore voleva una «coalizione
internazionale» che coprisse i piani preparati da tempo per acquisire il
controllo del Medio Oriente. La sua critica a Bush era che, agendo da sola,
Washington avrebbe potuto «indebolire la nostra capacità di guidare il mondo
in questo nuovo secolo».
La collusione tra l'entourage di Bush e quello di Gore era un fatto consueto.
Durante le elezioni del 2000, Richard Holbrooke, che probabilmente sarebbe
diventato il segretario di stato di Gore, si è accordato con Paul Wolfowitz
affinché i rispettivi candidati non dicessero niente sulla politica americana
circa il ruolo cruento dell'Indonesia nell'Asia sud-orientale. «Io e Paul siamo
frequentemente in contatto» ha detto Holbrook, «per essere sicuri di tenere [Timor
Est] fuori della campagna presidenziale, dove non farebbe alcun bene agli
interessi americani o indonesiani». Lo stesso si può dire dell'espansione
illegale e spietata di Israele, su cui non veniva e non viene detta una parola:
tale crimine gode del pieno sostegno sia dei repubblicani che dei democratici.
John Kerry ha appoggiato l'esclusione di milioni di americani poveri dal welfare
e l'estensione della pena di morte. L'«eroe» di una guerra che fu un'atrocità
documentata ha lanciato la sua campagna presidenziale davanti a una portaerei
all'ancora, e ha attaccato Bush per non aver fornito finanziamenti sufficienti
al National Endowment for Democracy. Quest'ultimo, ha scritto lo storico William
Blum, «è stato istituito letteralmente dalla Cia e da vent'anni destabilizza
governi, movimenti progressisti, sindacati e chiunque altro sia sul libro nero
di Washington». Come Bush - e tutti quelli che hanno preparato la strada a Bush,
da Woodrow Wilson a Bill Clinton - Kerry promuove i valori mistici «del potere
americano» e ciò che lo scrittore Ariel Dorfman ha chiamato «il contagio
della vittimizzazione... Niente di più pericoloso: un gigante che ha paura».Quanti
sono consapevoli di tale pericolo, eppure ne sostengono i responsabili in una
forma che trovano accettabile, pensano di poter avere entrambe le cose. Non
possono.
Michael Moore, il film-maker, dovrebbe saperlo meglio di tutti. Eppure ha
appoggiato la candidatura per i democratici di Wesley Clark, che sganciava le
bombe per conto della Nato. Ciò fa aumentare il pericolo che tutti noi corriamo
perché significa che si può bombardare e uccidere, e poi parlare di pace. Come
il regime Bush, i nuovi democratici temono le voci degli oppositori autentici e
i movimenti popolari: cioè la democrazia genuina, nel loro paese come
all'estero. È il caso del furto colonialista dell'Iraq. «Se ci si muove troppo
in fretta» sostiene Noah Feldman, un ex consulente legale del regime Usa a
Baghdad, «potrebbero essere elette le persone sbagliate». Nel suo stile
inimitabile, Tony Blair ha detto altrettanto: «Non possiamo fare un'indagine
per stabilire se la guerra [in Iraq] fosse giusta o sbagliata. Questa è una
decisione che spetta a noi. Siamo noi i politici»
copyright pilger/the new statesman traduzione marina impallomeni - 4.2004