L'orrore
e l'orgoglio
SANDRO PORTELLI
La nuova Statua della libertà non ha la corona di
raggi, ma un cappuccio nero. Il piedistallo è il cubo di una batteria. In mano
non ha la fiaccola dei diritti ma un altro strumento di fiamma, due elettrodi
che vanno a scomparire fra le pieghe della lunga veste nera. Chi ha fissato
quest'icona perfetta ha il senso della composizione e della simmetria. I mucchi
scolpiti di corpi con al centro i dominatori, in sequenza plastica verticale,
sono un omaggio all'arte fotografica e al linguaggio dell'immagine, in cui la
nostra cultura si è data un'alfabetizzazione diffusa. Lasciamo stare le
espressioni delle facce: basta guardare l'accurata costruzione di queste
immagini per capire che non stanno solo «eseguendo gli ordini». No, ne sono
orgogliosi; nei limiti delle loro capacità, cercano di dare una forma estetica
alla violenza che stanno praticando, la vogliono esibire, vedere ed essere
visti, celebrare e ricordare. C'è qualcosa di penosamente déjà vu in queste
fotografie. Qualche anno fa, al City Museum di New York, ci fu una mostra di
fotografie di scene di linciaggi avvenuti negli Stati Uniti fra il 1870 e il
1940. Anche qui, la stessa simmetria, la ricerca di equilibri di masse e spazi:
il corpo disfatto e penzolante da un albero, al centro; ai lati, i cittadini
schierati, con giacca e cappello, chi con le braccia conserte di chi ha fatto un
buon lavoro, chi con lo sguardo avido di venire ripreso, chi con l'innocenza di
un picnic socializzante e comunitario. Non mancano bambini e donne. Attorno a un
corpo appeso col collo spezzato come i bambini di Cattelan, si vedono tre
bambine; una, avrà tredici anni, con un sorriso che spara sul flash. Alle loro
spalle, due donne, forse le madri. E' il 19 luglio 1935, a Fort Lauderdale, oggi
rinomata località balneare della Florida; il pupazzo pendulo, lo «strano
frutto» di cui cantava Billie Holiday, si chiamava Rubin Stacy. Scattate e
riprodotte da fotografi professionisti locali, queste immagini venivano spedite
ad amici e parenti, regolarmente inoltrate e consegnate a destinazione dalle
poste federali. Dietro un corpo appeso e bruciato, il mittente ha scritto: «Questo
è il barbecue che abbiamo fatto ieri sera. Io sono quello nella foto a sinistra
segnato con una crocetta. Tuo figlio Joe».
La galleria dei linciaggi e quella delle torture condividono l'orgoglio,
l'esibizione, la posa; ma anche il colore delle vittime e l'origine sociale e
geografica degli aguzzini. Sono tormenti inflitti a gente di colore da parte di
bianchi del sud, per lo più rurali, poveri e meridionali. Anche il Vietnam,
altra guerra contro gente di colore, ci ha lasciato un'analoga scia di immagini:
dopo una strage in un villaggio, «cominciarono a uscire fuori tutte queste
Istamatic e le lampadine dei flash cominciarono a scoppiettare tutte insieme».
I soldati in posa «sorridono con grandi sorrisi pieni di gioia, come se fosse
appena successa una cosa bellissima» (da Mark Baker, Nam, 1982). Le
uniformi dell'esercito prendono il posto dei vestiti di cotonina stampata, ma i
corpi e i sorrisi sono gli stessi. A monte della guerra, la radice di questi
orrori è l'orgoglioso razzismo con cui il nostro Occidente combatte le sue
guerre per la libertà.
Già nel rituale del linciaggio, cantava Bob Dylan, il bianco povero del Sud è
«solo una pedina nel loro gioco», il gioco di un sistema che lo disprezza e lo
emargina, e gli offre il razzismo come compensazione, lo aizza, gli promette
l'immunità, e poi lo chiama «mela marcia», white trash, monnezza
bianca, quando la cosa viene fuori. La spudoratezza trionfante dell'esibizione
essuda potenza: gli ultimi si sentono primi, i dominati dominano, scatenando su
esseri che stanno sotto di loro nella scala dell'umanità tutte le frustrazioni
dello squallore e dell'umiliazione delle loro vite ordinarie in società dure e
competitive.
Agli albori delle guerre imperiali americane, Mark Twain proponeva di sostituire
le stelle coi teschi nella bandiera; noi potremmo immaginare la nuova Statua
della libertà al centro del porto di New York. Forse, specchiandosi in essa,
l'America intera potrà rendersi conto di quello che rischia di diventare.
"il manifesto" 12.5.2004