COSÌ MUORE LO STATO DI DIRITTO: LA "PROLUSIONE" SULLE RIFORME ISTITUZIONALI

DOC-1567. BOLOGNA-ADISTA. Il card. Ruini ha lasciato i lavori della 44.ma Settimana Sociale dei cattolici italiani (v. notizia precedente) poco dopo l'apertura. "Con la faccia ancora scura per l'intervento di Paolo Casavola", annota sospettosamente Fulvio Fania su "Liberazione" (8/10). È possibile che il giornalista abbia interpretato in modo errato, ma è vero che la "prolusione" dell'ex presidente della Corte Costituzionale, attualmente presidente dell'Istituto dell'Enciclopedia italiana, non poteva essere più lontana dall'impostazione che il cardinale aveva voluto imprimere ai lavori con la sua introduzione. Può aver irritato il cardinale una relazione tutta impostata su una serrata critica nei confronti del governo Berlusconi, autore di riforme istituzionali e costituzionali discutibili proprio in quanto ledono l'impianto democratico del nostro Paese. Ruini può anche aver condiviso molte delle critiche di merito sulle riforme esposte da Casavola, ma questo governo, dalla cui attività la Chiesa ha tratto vantaggi, certo non lo aborre.
Inoltre Casavola, non solo ha difeso ad oltranza, fra applausi scroscianti, i pacifisti che, a milioni, hanno manifestato per la pace contro l'intervento in Iraq - aggiungendo: "Qui non c'è scampo per i se e i ma del machiavellismo italiano" (i se e i ma del cardinale sono invece noti), "i guerrafondai sono criminali e vanno tradotti dinanzi al giudice penale" -, ma ha rivendicato quale strumento democratico anche "sulle grandi questioni morali" il "ricorso a consultazioni popolari tramite referendum consultivi e propositivi". Non deve essere stato piacevole per Ruini ascoltare una simile affermazione nel momento in cui un referendum vuole abrogare la legge sulla fecondazione assistita che egli giudica positivamente, e ascoltarla, come dire, in casa sua. Il contrasto fra Ruini e Casavola è balzato così chiaramente agli occhi dei cronisti lì presenti che in un'affollata conferenza stampa, l'8 ottobre, mons. Chiarinelli, vescovo di Viterbo e presidente del Comitato scientifico delle Settimane Sociali, ha dovuto precisare: "Una prolusione, benché molto autorevole, non necessariamente esprime il pensiero di tutti" (e qui il cronista non può che chiedersi: varrà anche per tutte le prolusioni del cardinale presidente?).
Qui di seguito il testo integrale della "prolusione" dell'ex presidente della Corte Costituzionale, con l'avvertenza che si tratta della relazione scritta che Casavola ha consegnato. Egli ha parlato anche a braccio, e questo è il motivo per cui non vi si rintracceranno le forti affermazioni sopra riportate. (I titoletti interni sono redazionali)

"RIFORME: PER QUALE DEMOCRAZIA?" (di Francesco Paolo Casavola)

Nona, undicesima, tredicesima legislatura del Parlamento italiano sono state invano investite, con mandato a commissioni bicamerali, del compito di proporre riforme costituzionali.
Dunque, da un quarto di secolo si è aperta una fase della vita pubblica nel nostro Paese caratterizzata da un malessere che cerca il rimedio in modifiche della costituzione del 1948, senza riuscirvi, per la difficoltà di costruirle su un largo consenso delle forze politiche e dell'opinione pubblica. Se in un primo periodo di questa fase sembrava che si volesse una correzione o miglioramento dell'edificio costituzionale, come ad esempio il superamento del bicameralismo perfetto, in un secondo tempo si è giunti a chiedere un mutamento della forma di governo, democrazia presidenzialista e non parlamentare, e della forma di Stato, federale e non centralista. Oggi si pone in forse la separazione dei poteri, cioè lo Stato di diritto, e, sconfinando dalla parte seconda (Ordinamento della Repubblica) nella parte prima (Principi fondamentali), si avanzano dubbi sulla effettività del principio lavorista (la Repubblica fondata sul lavoro, con quel che segue in tema di tutela dei lavoratori e di costituzione economica), del principio solidaristico (con una concezione del mercato che rende problematica ogni sopravvivenza del Welfare-State).
Nella seconda metà degli anni Novanta, ultimi della sua vita, Dossetti ha dovuto guidare comitati per la difesa della Costituzione, tanto il vento che cominciava a soffiare era di ripudio dell'intera carta del 1948, dell'evento che l'aveva prodotta, la Resistenza antifascista, delle culture politiche, liberale, cattolica, socialista, che avevano ispirato i Padri costituenti, del patrimonio di valori religiosi e civili custodito da una società ancora non deflagrata nel consumismo e nell'anomico individualismo di massa. Si ascoltarono in quegli anni deprecazioni di una Costituzione obsoleta, nata in un contesto, quale quello del dopoguerra, ancora prevalentemente rurale, inadatta ad una economia industriale avanzata. Come se le Costituzioni più salde non fossero quelle che durano da più di due secoli, come la statunitense, che certo dai tempi delle navi a vela e del traino a cavalli è giunta ai viaggi spaziali senza che alcuno le avesse imputato inadeguatezza ai progressi della modernità. Né alcuno dei critici della Costituzione del 1948 si è mai peritato di conoscere quali e quanti avanzamenti della società italiana sono dovuti alla interpretazione evolutiva che la Corte costituzionale ha potuto e saputo rendere dei principi e dei precetti di quel documento, che resta tuttora uno dei punti d'arrivo più alti del costituzionalismo contemporaneo. In realtà l'attacco alla Costituzione iniziato negli ultimi due decenni del Novecento è seguito al silenzioso sabotaggio alla Costituzione dei tre decenni precedenti.
Cominciò la Magistratura con il qualificare programmatici e non precettivi gli articoli della Costituzione che miravano ad un nuovo ordine sociale. Seguirono i partiti a ritardare di oltre venti anni l'attuazione delle autonomie delle Regioni a statuto ordinario.
Un organo decisivo per la nuova legalità repubblicana, quale la Corte costituzionale, fu insediato solo nel 1956, otto anni dopo l'entrata in vigore della Costituzione. E nel discorso di apertura della prima udienza, Enrico De Nicola, che ne era presidente, deplorò l'ignoranza della Costituzione anche nel ceto politico, ricavandone un presagio infausto per il futuro del Paese. La faticosa attuazione delle libertà costituzionali diventò una bandiera dei partiti esclusi dalla partecipazione al governo, sicché chi volle, tra i cattolici della Democrazia Cristiana, come Aldo Moro, uscire da quella democrazia bloccata, anche a causa del contesto internazionale della guerra fredda tra Unione Sovietica e Stati Uniti d'America, parve compromettere, oltre a equilibri sociali, la stessa collocazione dell'Italia nel mondo occidentale.


Non fu la Costituzione ad entrare in crisi
Non la Costituzione dunque, ma l'intero sistema politico nel suo corpo complesso si ammalava di una crisi che avrebbe prodotto la contestazione giovanile prima e poi il terrorismo degli anni di piombo, delle Brigate Rosse da una parte, dello stragismo nero dall'altra. Ma, soprattutto, sintomo di un imminente collasso istituzionale si rivelò il non infrequente reclutamento di uomini della politica, della burocrazia, della magistratura, della forze armate e degli apparati di sicurezza in logge massoniche, in cerca di protezione da eventi che apparivano ormai dominati da un nuovo establishment.
Il centro-sinistra si allargava nella formula della solidarietà nazionale che portava i comunisti nell'area del potere. Moro aveva lucidamente previsto, e, per quanto gli fu possibile, guidato l'evoluzione di questi passaggi tanto temuti, fino ad esserne egli stesso vittima sacrificale. I tanti caduti di quella che è stata definita con pregnanza simbolica "la notte della Repubblica" hanno tra loro anche altri grandi cattolici, come Vittorio Bachelet, rei di tentare di condurre a compimento per vie di pace una evoluzione democratica che si voleva da altre parti, da altre forze, per diversi interessi, affermare o arrestare con la violenza e la divisione del Paese.
La fase per cui Moro auspicava che la Democrazia Cristiana divenisse alternativa a se stessa, dal momento che nulla sarebbe stato controllabile e governabile come era stato per tre decenni, si manifestò con caratteri di dissoluzione più che non di transizione ad un assetto più avanzato del sistema politico. Diventò incombente la questione morale, proprio mentre il decisionismo craxiano tendeva a spostare nel governo quel peso ch'era stato proprio di organi extra-costituzionali, quali le segreterie di partito. Tangentopoli decapita giudiziariamente parte della dirigenza dei partiti al governo, ma discredita moralmente l'intero regime dei partiti. È in quegli anni che si fa insistente la terminologia "prima Repubblica", come squalificante tutta l'esperienza politico-costituzionale dal 1948 in poi. Si cominciò a discutere dei modi con cui fondare una "seconda Repubblica", se con una nuova Costituzione elaborata da una Assemblea costituente, o con una radicale revisione di quella vigente, utilizzando la procedura prevista dall'art. 138. Ma intanto lo scioglimento dei tre partiti storici della evoluzione democratica del Paese, la Democrazia cristiana, il Partito socialista e il Partito comunista, apriva una stagione confusa che si usa dire di transizione, senza si sappia da alcuno verso quale approdo.
L'unico punto certo di questo periodo è costituito dal passaggio della legge elettorale proporzionale alla legge maggioritaria, che ha imposto la configurazione bipolare dell'assetto politico in luogo del multipartitismo.
Ma anche per quest'aspetto il coagulo di plurime formazioni - eredi di correnti o frammenti dei vecchi partiti, in coalizioni stentatamente coese, con fantasiose denominazioni botaniche, edilizie o sportive - ha rivelato la difficoltà di sostituire i vecchi grandi partiti di massa e i minori, ma anch'essi antichi, partiti di opinione con formazioni dalle improvvisate morfologie di séguiti personali di leader maggiori, minori e minimi, o nel caso di Forza Italia con l'inedita struttura di un cosiddetto partito-azienda.
La conversione alla democrazia del Movimento Sociale Italiano ribattezzato Alleanza Nazionale, la forte rappresentatività dell'elettorato settentrionale da parte della Lega Nord, hanno consentito nel 1994 e nel 2001 la vittoria elettorale della Casa delle Libertà, il cui nucleo più esteso è costituito da Forza Italia e quello con maggior patrimonio ideologico dai cristiano-democratici. La coalizione contrapposta dell'Ulivo, sostanzialmente originata e strutturata dai cattolici del Partito Popolare e dai Democratici di Sinistra, epigoni del Partito Comunista, ma oggi contenitrice a sua volta di processi di unificazione di forze come è il caso della Margherita, ha un problema, quello della leadership, che lo schieramento avversario non ha.


Dittatura della maggioranza
Il tema del leader unico è fondato sulla necessità di far funzionare il sistema bipolare, perché è il capo di una coalizione ad essere candidato a premier, sia che debba essere eletto a suffragio diretto, sia che debba essere nominato a seguito della vittoria elettorale della maggioranza da lui guidata. Il sistema bipolare rende il confronto elettorale molto aspro e, per quanto finora sperimentato, anche quello parlamentare soffre della stessa durezza, fino alla delegittimazione reciproca di maggioranza e opposizione, ovviamente su un piano di pura offensiva demagogica senza effetti costituzionali. La maggioranza interpreta l'investitura elettorale come mandato a legiferare e governare in nome e per conto dei propri votanti, non di tutti i cittadini. Così, leggi destinate a esprimere la volontà generale e a realizzare il bene comune si votano contro ogni argomento dell'opposizione e finiscono con l'essere o anche soltanto con l'apparire atti di prepotenza. Una siffatta interpretazione del mandato popolare è sempre meno democratica e sempre più populista a mano a mano che è evocata a giustificare la dittatura della maggioranza. Non c'è dubbio che questa pratica è fuori della dialettica democratica, lede le garanzie di un libero Parlamento, tende a trasformare un vantaggio elettorale, che per qualunque schieramento deve presumersi temporaneo, in un regime stabile, ostile in via di principio all'alternanza nel potere. Se dovesse essere riaperto il dialogo per le riforme, occorrerebbe partire proprio da questo punto. Occorre garantire con apposite leggi e regolamenti interni delle Camere che in materie incidenti su libertà e diritti fondamentali, o discipline organiche e innovazioni ordinamentali, siano richieste maggioranze qualificate che impediscano atti arbitrari di parte.
Altro obiettivo riformatore dovrebbe essere quello di restituire al Parlamento una iniziativa legislativa, che appare oggi quasi monopolizzata dal governo. Se le Camere sono chiamate a rivestire della forma della legge parlamentare disegni di leggi presentati dal governo, è arduo immaginare distinti potere esecutivo e potere legislativo.
Lo Stato di diritto riposa sulla separazione, non sulla confusione dei poteri.
Così il potere giudiziario, quando nell'esecutivo figura il ministro di Grazia e Giustizia che ha potere ispettivo e disciplinare sui magistrati, non è separato dagli altri poteri. Opportunamente nei progetti dei costituenti si proponeva l'abolizione del ministro di Giustizia, che ereditava la logica dell'edificio costituzionale dello Statuto albertino, quanto a questa competenza del governo sulla giurisdizione, del tutto incongrua nel regime repubblicano.
Stato di diritto significa uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, o meglio, come s'esprimeva la formula originaria nelle Costituzioni francesi, che la legge est toujours la même pour tous, che non c'è una legge per i potenti e una diversa per i più deboli.
Stato di diritto significa che, quando una legge viola il principio di uguaglianza dei cittadini, essa deve non essere obbedita, ma sottoposta al giudice delle leggi, supremo garante delle libertà e dei diritti fondamentali.
Questo implica che i giudici sono interpreti della legge e ad essa soggetti, ma non che siano sottoposti a governo e Parlamento. Si è diffusa la convinzione di una superiorità gerarchica degli eletti dal popolo sui giudici nominati per concorso.
Questo è un errore di cultura politica da dissipare. L'elezione della rappresentanza politica è l'unico strumento razionale per distinguere le opinioni, i partiti, i programmi politici. Perché i cittadini devono dividersi per potersi rispecchiare nella pluralità dei loro orientamenti trasposti in un Parlamento democratico e non unificarsi fittiziamente in una compatta votazione plebiscitaria.
Ma se i giudici fossero eletti, essi sarebbero rappresentativi di diverse istanze politiche, non garantirebbero la soggezione loro alla legge né l'eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Per questo essi sono scelti in base alla competenza e conoscenza del diritto attraverso quel vaglio assolutamente neutrale e tecnico che è il concorso. Le due investiture, quella elettorale e quella concorsuale, sono assolutamente paritarie e funzionali ai diversi compiti della rappresentanza democratica e della giurisdizione.
In uno Stato di diritto i cittadini debbono poter contare su una giustizia giusta, secondo quanto prescrive l'art. 111 della Costituzione, recentemente emendato per ricevervi i criteri del giusto processo, già stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia delle libertà e dei diritti fondamentali del 1950. Postulato di quel giusto processo è che i giudici siano strutturalmente separati dai magistrati d'accusa. In uno Stato di diritto i pubblici ministeri non possono essere sudditi del potere esecutivo, come furono un tempo, ma devono organizzarsi in una autorità indipendente per provvedere a quei compiti di tutela della legalità e della difesa sociale concettualmente distinti dalla giurisdizione, che ha per fine l'accertamento del torto e della ragione, della colpevolezza e dell'innocenza, e per soggetto il giudice e la sua coscienza.
In uno Stato di diritto, accanto a un forte potere esecutivo e a un potere legislativo e di controllo politico del governo, devono poter avere spazio i poteri neutrali di garanzia del capo dello Stato, della Corte Costituzionale, delle magistrature ordinarie e speciali. Se il capo dello Stato fosse eletto dal popolo, il suo non sarebbe un potere neutrale, ma un potere di parte. Egli non potrebbe rappresentare l'unità della nazione essendo il capo o il candidato di una fazione.
Quando si enuncia la indispensabilità di una elezione diretta del presidente della Repubblica per bilanciare con una forma centripeta di Stato presidenziale le spinte centrifughe di un assetto federalistico della Repubblica, si enuncia inconsapevolmente un teorema più di scienza fisica che politica. Proprio la molteplicità dei governi regionali e locali esige che la Repubblica non abbia un presidente espresso da una sola parte per il gioco della aritmetica elettorale e non per la scelta ponderata di una sanior pars parlamentare.
E parimenti una regionalizzazione della Corte Costituzionale porterebbe non solo a snaturare un collegio imparziale di giudici nazionali facendone in parte un corpo rappresentativo delle regioni, come dire un iudex in causa propria, ma priverebbe inoltre, con una indebita politicizzazione, questo organo dell'autorevolezza e neutralità propria della massima istanza di garanzia.


Una cultura democratica
Proseguendo in una sommaria esemplificazione di appena alcuni tra i punti nodali di auspicate riforme, che ben possono innestarsi sul robusto impianto della Costituzione dell'ancora unica e non prima o seconda o ulteriore Repubblica Italiana, si va incontro ad una non eludibile domanda radicale: ma che cosa è politica in una società democratica? L'emergere di movimenti, da quelli estemporanei dei girotondi a quelli più estesi e permanenti dei no e new global, così come l'affiancamento dei movimenti sindacali ai partiti, pone il problema sulla legittimità e credibilità democratica di modalità nuove di partecipazione alla vita politica. La limitazione delle attività politiche, solo entro luoghi istituzionali e corpi o associazioni prestabiliti come il Parlamento, i comizi elettorali, i partiti, imporrebbe il divieto di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero, sarebbe una compressione di libertà costituzionali assolutamente impensabile. Perciò tante perplessità dovrebbero cadere dinanzi alle spontanee iniziative di cittadini, di quella che impropriamente si indica come società civile, contrapposta, come un tempo si usava, alla altrettanto cosiddetta società politica.
In verità, lo sfaldamento di quelle giunture politiche della società ch'erano i vecchi partiti determina la spinta dei cittadini a parlare con voce propria senza le mediazioni di quei professionisti della vita pubblica, che si sospetta ogni giorno di più inclini a chiudersi in oligarchie dove gli interessi particolari sono più forti delle idee generali. È la morte della democrazia che i cittadini intravedono nelle consorterie sempre più esclusive del personale politico. La estensione delle autonomie territoriali può allargare la base della classe dirigente e delle rappresentanze elettive. Ma, seconda domanda, come si sceglie una classe dirigente elettiva per compiti di amministrazione e di rappresentanza? La logica della sussidiarietà e della prossimità dei poteri alla cittadinanza esigerebbe la conoscenza diretta, da parte delle comunità, degli uomini che si candidano alle pubbliche responsabilità e che per questo devono dar conto di sé in ogni implicazione o risvolto della propria vita privata e sociale. Ma questo è possibile solo se si consolidasse un costume di interlocuzione permanente tra candidati o aspiranti candidati alla vita pubblica e le comunità di cittadini. Una cultura democratica deve poter nascere, diversa da quella disciplina, da quell'indottrinamento propri dei partiti, potenzialmente totalitari, inghiottiti dal crollo dei vecchi scenari ideologici otto-novecenteschi.
Una cultura democratica che deve cominciare nelle famiglie, nella scuola, nelle istituzioni educative e culturali, in ogni luogo sociale ove si propongono i problemi della convivenza ordinata sui parametri della solidarietà e non dell'egoismo. Una cultura, informata e competente, che sappia riconoscere per distinguere e ricomporre il piano delle istituzioni e dei poteri e quello delle persone e delle libertà. E tra i poteri occorre imparare ad aggiungere a quelli tradizionali i nuovi poteri dell'economia, della tecnologia, dei media.
Una società democratica, come non può essere condizionata da chi usa la forza, o fa la legge, o fa giustizia arbitrariamente, così non può essere condizionata da monopoli di mercato, da modelli di vita e strumenti tecnologici imposti da gruppi di pressione, da una informazione di massa tendenziosa e demagogica.
Tutto ciò che limitando o distorcendone le conoscenze impedisce al cittadino di giudicare i governanti, e di scegliere i programmi di governo più aderenti ai bisogni e al bene della comunità è un attentato alla democrazia.
La democrazia vive in una società colta, critica e libera.
Ogni riforma delle istituzioni politiche dovrà misurarsi in questa sfida con una società che dovrà poterle giudicare, se ne trarranno giovamento o nocumento l'elevazione della cultura, la costruzione della coscienza civile, la conservazione della libertà.

ADISTA n°74 del 23.10.2004