Nulla di nuovo sul
fronte di Ratzinger
Come mai la
«Lettera» di Ratzinger è sembrata così interessante e nuova al femminismo
della differenza? Muovendo da questo domanda, Rossanda osserva come il cardinale
non sfiori neppure l'idea di una libertà femminile che non obbedisca all'ordine
del creato. E conclude declinando l'invito a affidarci all'ineffabilità del
misticismo
La «Lettera sulla collaborazione dell'uomo e della donna» di Joseph Ratzinger,
assumendo senz'altro la differenza sessuale, ha sollevato su queste pagine le
argomentazioni di Luisa Muraro e la lettura di Ida Dominijanni, che ha
individuato nel testo del cardinale una implicita polemica con altre teorie e
politiche femministe
ROSSANA ROSSANDA
Non credo che convenga discutere assieme
di Judith Butler e di Joseph Ratzinger. La prima è una individua, sola,
problematica, esposta. Il secondo è il Sant'Uffizio, custode e sorvegliante
della verità della Chiesa cattolica e apostolica romana, che indirizza a tutti
i vescovi una direttiva sulla «collaborazione fra uomini e donne» siglata dal
Papa Giovanni Paolo II. Luisa Muraro - che ne ha scritto su queste pagine il 7
agosto - è ben indulgente quando si rivolge all'uomo Joseph invitandolo a
partire da sé e a individuare in sé il conflitto fra i sessi; quella lettera
non è di un uomo ma di una istituzione, la quale parte per l'appunto da sé e
si riferisce a sé come alla rivelazione. Soprattutto mi sorprende il clamore
che la lettera ha sollevato. Essa innoverebbe perché assume il tema della
differenza? Non è una novità. La Chiesa ha sempre fatto sua la differenza
femminile, ma in un'accezione molto diversa e opposta a quella per la quale si
batte Luisa Muraro. Per la chiesa i sessi sono sempre stati diversi, anche al di
là del dato biologico, perché diversi Dio li ha creati assegnando una diversa
funzione e definendo fra di essi una gerarchia. Che Ratzinger rimanda alla «antropologia
biblica», riassumendo l'inizio del Genesi: Dio che ha creato per primo Adamo,
poi lo ha visto triste e solo (lasciamo correre su quel prima e poi), allora ha
tratto dalle sue carni e dalle sue ossa quella che sarebbe stata la sua
compagna, stabilendo così - glossa il cardinale ad uso delle mie amiche
femministe - che l'umanità ha «ontologicamente» bisogno della relazione.
Il Genesi aggiunge un essenziale: Dio li fece a sua immagine e somiglianza, e
Paolo dirà: «In Cristo non ci sono maschio e femmina», volendo significare (Sofri
ha inteso male) che uno e uguale è il rapporto fra Dio e la specie umana, altro
è il rapporto fra i due sessi nel loro passaggio terrestre. Il quale è segnato
dalla caduta, il peccato originale di disobbedienza alla sola proibizione che
Dio dette alla prima coppia, cioè il gustare quel frutto della conoscenza che
li farebbe diventare uguali a lui. Eva invece cede alla tentazione, convince
Adamo a mangiare la celebre mela e l'irato Javé condanna i due irriconoscenti,
che aveva creato immortali, a morire. L'umanità si dovrà riprodurre attraverso
il loro congiungimento carnale, Eva partorirà con dolore e, aggiunge Javè: lui
ti dominerà. È stata creata a sua immagine ma è diventata soggetta all'uomo.
Tutto questo era già noto, prima della lettera di Ratzinger, a chiunque sia
andato da ragazzo a dottrina. Ratzinger si guarda bene infatti dall'inserire il
racconto biblico nel contesto storico, ridimensionandone il valore
paradigmatico. Precisa anzi che il congiungimento dei sessi, necessario alla
riproduzione umana (ma anche di quasi tutti gli animali, innocenti da ogni
disobbedienza) è infaustamente legato al peccato originale, e minacciato
dall'ulteriore peccato di concupiscenza. Non si capisce come egli pensi che il
congiungimento carnale avverrebbe senza desiderio, e in che cosa questo
desiderio si distinguerebbe dalla concupiscenza: forse nell'essere cercato per sé,
anche fra coniugi invece che ai fini della riproduzione. Non dice, il cardinale,
che Tommaso d'Aquino sosteneva, nella Questio 94 della Summa ricordata da
Adriana Zarri, che il congiungimento sessuale doveva essere parte dello stato di
perfezione nell'Eden. Si limita a far capire, come Paolo, che meglio sarebbe
rinunciare ad esso, singolarmente o nel rapporto coniugale - a costo di metter
fine all'umanità o affidarne la prosecuzione alla tentazione diabolica; insomma
la carne che si congiunge è indissolubilmente legata al peccato.
La donna se ne può distaccare per il ruolo, separato e superiore al dato
biologico, di compagna «per l'altro», capace di ascolto, compassione,
adattamento, passività (sic) - qualità quasi tristi che, certo, dovrebbero
praticare tutti ma alle quali essa è «per natura» (cioè per disegno di Dio)
predisposta.
E quale essenzialismo, quale ontologia è più solidamente basata di quella
derivante dalla creazione? Si capisce che la Lettera dichiari fin dall'inizio la
sua preoccupazione, essendo scritta per mettere in guardia da due recenti
tendenze: il fatto che la donna tende a riappropriarsi di sé e «per sé»
andando così contro la sua intima natura e il suo «genuino» interesse, e
l'avanzare di idee e pratiche di intervento sulla riproduzione «naturale»;
nonché la tentazione che avanza di un polimorfismo sessuale, che rivelerebbe la
tendenza diabolica dell'uomo a uccidere il suo corpo prescindendo dall'ordine di
natura. Tutte derive fatali che stanno mettendo in pericolo l'ordine famigliare,
che è alla base dell'ordinamento sociale.
Dov'è l'innovazione? Non è nuovo neppure che, pur nella gerarchia naturale dei
sessi, il cristianesimo assegni all'essere femminile una dignità che lo
distingua sia dalla tradizione greca (per Esiodo la donna è il «bel male» che
l'irato Giove fa confezionare da Minerva per punire gli uomini), sia da quella
ebraica, in quanto impone una unicità di rapporto fra un uomo e una donna, che
nel Libro non c'è. Si può avere dignità a parte intera, anche essendo «un
altro io dell'umanità»: altro e senza quel potere di mediazione fra l'umanità
stessa e il suo creatore che compete all'uomo attraverso la chiesa. Il sacerdote
è infatti il solo ad amministrare i sacramenti, il solo che abbia l'immenso
potere conferitogli dal signore di far rifiorire nella messa e nell'eucarestia
la presenza e il sacrificio di Cristo, il solo che possa condannare e assolvere
dai peccati dell'umanità che è tenuta a confidarglisi nella confessione, il
solo che può legare o separare, il solo a somministrare o negare la presenza di
Dio nell'eucarestia, insomma il solo a essere parte della funzione della Chiesa.
A lui «esclusivamente» riservata in virtù della non casuale mascolinità di
Gesù.
La donna è nella chiesa ma appunto passivamente, in funzione di compagna,
madre, moglie, sorella, figlia se non sposa di Dio. A Ratzinger piace la dizione
«nuzialità» in quanto simboleggia questo rapporto assieme impari e amoroso:
non è nuziale nel Libro il rapporto di Dio con Israele. Egli è lo sposo che
l'ha eletta mentre lei, Israele, è la sposa incline a cadere, a idolatrare
altre immagini, a prostituirsi, attirandosi la collera di lui che però è anche
pronto a un amoroso perdono. Le pagine di Osea sono profuse di questa indulgente
tenerezza che ristabilisce fra Javè e Israele il patto da lei violato. E
nuziale sembra al nostro cardinale il rapporto fra Dio e la chiesa, che legge
anche nel Cantico dei Cantici - metafora sublime d'una reciproca attesa che la
Chiesa è costretta un po' faticosamente a desessualizzare.
Più recente e insistente l'indicazione di Maria nella donna assolutamente
perfetta, quella che accoglie l'intervento divino nel concepire Gesù
magnificando Dio per averla scelta, che adora il figlio e lo segue, ne patisce i
tormenti e la morte in croce e ne riceve in grembo la salma e lo seppellisce
senza una sola parola di protesta. Maria è soltanto amore e dolore. Papa Pio IX,
centocinquanta anni fa, ha deciso che era stata concepita lei stessa senza
peccato, cosa che ai padri non era neanche passato per la mente. E Pio XII,
quasi un secolo dopo, le ha risparmiato addirittura la morte perché sarebbe
stata «assunta in cielo». Si direbbe che una certa mariologia, propria dei
papi più tremendi - salvo il rispetto per la figura di Woytila - tenda a
disumanizzare la madre di Cristo, quale che ne siano le conseguenze per la
scelta del figlio di Dio di essere uomo in tutta l'umana miseria. Uomo sì, ma
passando per il ventre di una donna non soggetta ai limiti del resto dell'umanità.
Ma non voglio continuare: stanca anche me, come Luisa Muraro, l'analisi della
Lettera ai vescovi, facilmente consultabile sul sito vaticano. Chiedo piuttosto
alle mie amiche del femminismo della differenza perché questo testo le abbia
così singolarmente interessate. Certo, Ratzinger interessa loro più di quanto
loro interessino lui, considerando che non è neppure sfiorato dall'idea di una
libertà femminile che non sia obbedienza all'ordine del creato. Ordine subìto
e amato, fino a quel sostare davanti al mistero, rinunciando alla conoscenza
(Eva ne è stata scottata) cui saremmo inclini, preferendo comprendere «per
amore» che «per ragione».
Ragione fatale, afferma Luisa Muraro, madre di tutte le guerre. Ma come la
mettiamo con il Logos? Neanche Ratzinger se la cava molto bene con l'apostolo
Giovanni, per il quale «al principio era il Logos», quando se la prende con
l'astrazione e loda la concretezza femminile. Astratto perché senza corpo? Come
il Logos? Povero Logos. Che ne pensano quelle di noi che usano il terribile
neologismo: fallologocentrismo? Oppure si tratta di una metafora? E di che?
Ratzinger preferisce assegnarci una volta per tutte all'ineffabilità del
misticismo, sulla traccia di Meister Eckhart. Da parte mia ringrazio e declino.
"il manifesto" 22.8.2004