CHIESA VOLEVA DIRE DEMOCRAZIA
di Leonardo Boff
Quando parliamo di democrazia ci rapportiamo
sempre all'esperienza fondatrice dei greci: nelle loro città i cittadini
esercitavano il potere di decisione in forma diretta, secondo il principio di
maggioranza. Per quanto la idealizziamo, la democrazia, specialmente in seguito
alle teorizzazioni di Platone e Aristotele, era in verità molto limitata. Le
città-Stato erano piccole e solo un sesto della popolazione esercitava la
democrazia, concretamente: i cittadini liberi. Le donne, gli schiavi, gli
artigiani, gli stranieri e gli immigrati erano esclusi. Ma l'esperienza greca è
diventata riferimento per tutta la riflessione politica successiva.
Tuttavia, c'è un'altra esperienza di democrazia molto più radicale di quella
greca e che è stata vissuta dalle prime due generazioni dei cristiani. Essa è
paradigmatica per tutto il pensiero utopico posteriore, sebbene sia stata
abbandonata dal cristianesimo vigente, che si è organizzato in modo opposto.
Essa non è rimasta come riferimento per il discorso politico attuale per il
fatto di essere stata realizzata nel-l'ambito di un'esperienza religiosa, poco o
niente considerata dal pensiero laico e laicista. Oggi vediamo la democrazia
delle comunità cristiane, a dispetto della sua nicchia religiosa, come
qualsiasi altro fenomeno sociale, che merita considerazione specialmente quando
si ricerca una democrazia radicale, destinata a tutti i campi della convivenza
umana, ai movimenti sociali e anche all'economia, cioè una democrazia
illimitata.
L'esperienza generatrice della democrazia radicale cristiana è stata la pratica
di Gesù: assolutamente antidiscriminatoria, antigerarchica e di fraternità
universale. San Paolo ha riassunto tutto dicendo: "Ora non c'è più giudeo
né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, poiché tutti sono uno in
Cristo Gesù" (Gal 3-28). Il risultato è stato che schiavi, liberi,
portuali, commercianti, avvocati, soldati, indipendentemente dalla loro
situazione sociale e di genere, costituivano comunità fraternali che vivevano
una koinonia (comunione), parola che esprime il comunismo radicale del
"mettere tutto in comune", distribuendo i beni materiali "secondo
le necessità di ognuno". E come elogio si diceva "non ‘cerano
poveri tra di loro" (At 2 e 3). Questa democrazia era radicale perché le
decisioni venivano prese con la partecipazione di tutta la comunità. La legge
base era: "quello che concerne tutti, da tutti deve essere deciso".
Questo valeva anche per la nomina dei vescovi e dei presbiteri.
Tale comunità era chiamata ekklesia in greco, ecclesia in latino e igregia in
portoghese. Il senso originale di ekklesia non era religioso, ma politico:
assemblea popolare. Fu scelto questo nome profano per distinguere la democrazia
dei cristiani dalle altre espressioni religiose dell'epoca.
Questa memoria è andata persa nella Chiesa cattolica. Un volta hanno chiesto a
Giovanni Paolo II se la Chiesa è una democrazia. Ha risposto: no, è una
koinonia. Ora koinonia è sinonimo di democrazia radicale, cosa che sicuramente
il papa non ha pensato. In effetti, così come si struttura, oggi essa non è
koinonia. È una monarchia assoluta spirituale organizzata sotto l'influ-enza
delle monarchie del passato. Come tale, chiude le porte alla democrazia
cristiana dei primordi. O l'accetta solo sotto la forma innocua della
spiritualizzazione. È importante riscattare la memoria rivoluzionaria nascosta
nella parola Chiesa. Chissà che non ci ispiri un'altra capacità di essere
cristiani e di essere cittadini.
* teologo della liberazione, Brasile
ADISTA n° 56 del 23.7.2005