DOC-1595. ROMA-ADISTA. Un Sinodo che, aperto anche a preti
e laici, uomini e donne, diventi deliberativo; una celebrazione eucaristica che,
ripensata biblicamente, spinga la comunità ecclesiale al "Fare questo in
memoria di me", cioè a condividere la propria vita, appunto come Gesù
fece, con gli altri. È quanto auspica la Comunità cristiana di base di san
Paolo, in Roma, in una elaborata riflessione inviata come contributo per la
stesura dell'Instrumentum laboris, il testo-base che, in ottobre, avrà
in mano il Sinodo dei vescovi convocato dal papa per approfondire le
"implicazioni pastorali" della Cena del Signore alla luce della
dottrina proposta dall'enciclica Ecclesia de Eucharistia.
L'11 febbraio 2004 Giovanni Paolo II accettava le dimissioni del card. Jan
Pieter Schotte, settantacinquenne, dalla carica di segretario generale del
Sinodo dei vescovi, nominando al suo posto mons. Nikola Eterovic (croato,
cinquantatreenne, nunzio in Ucraina). Poco tempo dopo, il 25 febbraio, in attesa
del "passaggio delle consegne", Schotte (morto in questi giorni, il 10
gennaio 2005) sollecitava le varie componenti della comunità ecclesiale ad
inviare, entro fine-anno, le loro proposte per migliorare i Lineamenta (le
prime bozze del documento sinodale) e stilare l'Instrumentum laboris. La
Comunità di san Paolo ha dunque inviato ad Eterovic le sue riflessioni.
Dopo aver espresso al neo-segretario alcune perplessità di merito e di metodo
sul Sinodo, il documento - "Fate questo in memoria di me".
Condividere il pane nell'Eucaristia e nella vita - riflette, alla luce delle
Scritture e della storia, su alcuni problemi nodali (sacrificio, sacerdozio,
ministeri); ritiene "insostenibile", dal punto di vista biblico, il
"no" alla piena eguaglianza di uomini e donne in tutti i ministeri
ecclesiali; si interroga, in un contesto ecumenico, sul ministero del vescovo di
Roma (auspicando che il papa effettivamente faccia il pastore della sua diocesi,
e viva presso la basilica del Laterano); evidenzia come il "rito"
eucaristico diventi una "beffa" se non comporta, per chi vi partecipa,
la decisione di condividere la propria vita con i più emarginati e, per il Nord
"cristiano" del mondo, l'impegno perché il "pane
quotidiano" arrivi sulle mense del Sud depredato.
Il testo, dopo la premessa (una "Lettera a mons. Eterovic"), è così
articolato:
I - Il cuore profondo dell'Eucaristia
A - Il "sacrificio di Cristo", un concetto da interpretare
B - "Mangiare il corpo del Signore", salvezza o condanna
C - Ogni celebrazione eucaristica è un "giudizio di Dio"
D - La "presenza reale": convergenze e divergenze
E - Il consenso ecumenico di "Fede e Costituzione"
II - Comunità, sacerdozio, ministeri
A - L'ultima Cena di Gesù: un convivio aperto
B - Le donne nel Cenacolo
C - Il Nuovo Testamento non parla di "sacerdoti"
D - L'imposizione delle mani
E - La "successione apostolica" e il dibattito ecumenico
F - "La Chiesa che presiede nell'amore"
G - La "ospitalità eucaristica"
H - Il "popolo di Dio" e l'Eucaristia
I - La "primogenitura" di Maria di Magdala
III - "Dacci il nostro pane di ogni giorno"
A - Per un'Eucaristia incarnata nella vita
B - Il "digiuno eucaristico"
C - "Siamo tutti mendicanti"
I/ IL CUORE PROFONDO
DELL'EUCARISTIA
A - Il "sacrificio di Cristo", un concetto da interpretare
1/ La comprensione teologica dell'Eucaristia, con la sua celebrazione
concreta, deve misurarsi con molteplici aspetti teorici e pratici. Soprattutto,
bisogna tenere fermi due capisaldi, diversi ma strettissimamente
collegati: l'Eucaristia e la Parola. Afferma infatti la Dei verbum, la
Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione approvata dal Vaticano II:
"La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il
corpo di Cristo stesso, non mancando mai, soprattutto nella sacra Liturgia, di
nutrirsi del pane della vita dalla mensa sia della parola di Dio che del corpo
di Cristo" (EV, I, 904). Non è però facile raggiungere una tale
alta e feconda sintesi; e giustamente il § 25 dei Lineamenta sottolinea
che è necessario "recuperare l'unità complessiva del mistero
eucaristico". Tuttavia a noi pare che, nell'insieme, le "bozze"
vaticane esasperino alcuni aspetti minimizzandone o ignorandone invece altri.
2/ Il termine sacrificio (o analogo: banchetto sacrificale,
immolazione, vittima sacrificale…) compare nei Lineamenta ben 66 volte.
Sappiamo bene che il Concilio di Trento (1545-63) ha lanciato l'anatema a chi
negasse che nella Messa si offre a Dio "un vero e proprio sacrificio"
(Denz.-Hüner., 37ª, 1750). Ma la categoria del sacrificio può davvero
descrivere l'essenza della Messa? E, in caso, in che senso? Ed è tale categoria
che emerge primariamente dal Nuovo Testamento? Tali domande, come le molte altre
di queste nostre riflessioni, non sono sorte, per noi, a tavolino, o da
discussioni accademiche che non ci sono proprie: ci sono venute dal parlare con
la gente; dal conoscere gruppi e comunità che, non solo in Italia, hanno
riflettuto su tali temi; dal riflettere insieme, domenica dopo domenica e nel
nostro gruppo biblico, sull'Eucaristia; dal tentativo di leggere le Scritture
con le categorie (inevitabili, seppur sempre da assumere criticamente) del
nostro tempo. E, dunque, tali domande evidenziano degli interrogativi che noi,
in queste pagine, esprimiamo a voce alta, naturalmente non presumendo di avere
tutto chiaro e risposta per tutto, né desiderando contrapporre una teologia
dogmatica ad un'altra teologia dogmatica, ma, anzi, sperando che il dialogo con
altri ci aiuti a capire di più e meglio. E, soprattutto, ci aiuti a vivere con
maggior coerenza gli imperativi evangelici.
3/ Nella mentalità di molti cristiani, il concetto di sacrificio rinvia
- magari inconsapevolmente - ad un Dio irato che, per perdonare i peccati
dell'umanità e salvarla, ha bisogno del sangue di suo Figlio: Gesù dunque
sarebbe la vittima che si immola per placare il Padre, e controbilanciare, con
la sua passione e morte, le iniquità del mondo. Infatti, nulla meno del sangue
del Figlio - secondo tale mentalità - poteva offrire a Dio riparazione adeguata
e sufficiente per i peccati di tutta l'umanità contro il Creatore.
4/ È vero che, per certi aspetti, anche dal Nuovo Testamento (in
particolare dalla Lettera agli Ebrei) emerge un tale concetto di sacrificio,
rilanciato poi con particolare insistenza, nove secoli fa, da Anselmo di Aosta
(+1109) e da molti altri dopo di lui. Ma, in proposito, oggi gli esegeti ci
ricordano la necessità di tenere conto, nella lettura e interpretazione delle
Scritture, della mentalità degli "agiografi" (scrittori) che, anche
per descrivere la vita e la missione di Cristo, usarono categorie culturalmente
gravate dalla mentalità del loro tempo. E, ancora, dobbiamo essere consapevoli
dei problemi complessi legati al rapporto Rivelazione-Parola di
Dio-Scritture-Responsabilità degli "agiografi", e alla varietà di
interpretazioni che lungo la storia, e anche oggi, nelle Chiese e, in
particolare, nel mondo teologico, sono state date e si danno a questo intreccio.
Del resto, anche nella nostra comunità vi è, in proposito, un pluralismo di
posizioni.
5/ Se, tanto in ambiente ebraico che in ambiente greco-romano, pur con le
irriducibili differenze e le invalicabili significazioni dei due casi, la gente
poteva capire che cosa fosse sacrificio (sacrificio di animali nel Tempio
di Gerusalemme, sacrificio agli dèi nei templi pagani) oggi, ammaestrati dalle
scienze moderne e da una più raffinata sensibilità, noi diffidiamo di questa
parola. E, comunque, ci riesce difficile credere in un Dio che, per placarsi,
aveva bisogno del sangue di Gesù. Questo Dio tremendo ci appare del tutto
estraneo, e non credibile.
6/ Gesù è Gesù non perché è morto sul patibolo, e Dio non ha fatto
la pace con l'umanità semplicemente perché Gesù è morto sulla croce
straziato dai dolori. Gesù è Gesù perché è stato fedele fino alla fine alla
sua missione, e anche di fronte alla morte violenta - da lui non ricercata, ma
subìta per la prepotenza del potere politico e religioso - non è
indietreggiato ma, con coraggio esemplare, ha amato fino alla fine l'umanità.
L'apostolo Paolo, del resto, contrastando audacemente l'idea, allora comune, del
sacrificio come offerta riparatrice a Dio, scrive che Gesù "è
morto per noi" (cf. Rm 5, 6-8); ed è esattamente questo atto di
fedeltà alla missione affidatagli e di amore per noi, di solidarietà
con noi, che il Padre ha gradito immensamente. D'altra parte, si deve ben
rilevare che, nell'ultima Sua cena, spezzando il pane, Gesù disse: "Questo
è il mio corpo che è dato per voi" (Lc 22, 19). Invece, la formula
della consacrazione usata in Italia dal clero, pur dopo la riforma della Messa
voluta dal Vaticano II, dice: "Questo è il mio corpo offerto in
sacrificio per voi". Quell'aggiunta, in sacrificio, assente dal
testo biblico, potrebbe essere intesa bene dalla gente, come esplicativa del per
noi nel senso appena spiegato; ma anche, più probabilmente, potrebbe essere
compresa come sacrificio compiuto per Dio, confermando così i fedeli nel
loro equivoco.
7/ Ribadiamolo: il Padre non ha inviato il "Figlio prediletto"
nel mondo perché finisse sulla croce: lo ha inviato per nostro amore. E Gesù
non è finito sulla croce per volontà del Padre, che non vuole mai la violenza,
ma è morto sul supplizio a causa della prepotenza umana. In tale situazione, in
cui è stato vittima innocente, Gesù non si è tirato indietro di fronte al
tradimento subìto e alla morte atroce incombente; ma, come dice l'evangelo di
Giovanni, "sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al
Padre, Gesù, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla
fine" (13, 1). E le imploranti parole del rabbi di Nazareth nell'orto degli
ulivi - "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Tuttavia non sia
fatta la mia, ma la tua volontà" (Lc 22, 42) - non vanno intese,
riteniamo, come se Gesù chiedesse al Padre di non mandarLo alla morte ma,
piuttosto, come l'interrogativo che Egli si pone di fronte all'Altissimo che
tace di fronte al prevalere momentaneo, nella storia, delle ragioni della forza
e della violenza contro di Lui. Certo, questo "silenzio di Dio" è del
tutto misterioso e incomprensibile per la mente umana, come del resto ci è
incomprensibile il Suo silenzio di fronte alle tragedie incombenti sull'umanità
e al grido delle vittime, ieri e oggi. Gesù ci è di esempio supremo perché
accettò questo silenzio sconvolgente, e perché non perse la fede di fronte a
questo Dio apparentemente privo della proclamata onnipotenza.
8/ Se queste osservazioni sono fondate, a noi sembra che occorra dunque
usare con cautela la categoria del sacrificio, altrimenti si inducono nei
fedeli immagini di Dio assolutamente incoerenti. Andrebbe perciò abbandonata
l'idea del "sacrificio propiziatorio" di Cristo, immolantesi a Dio per
salvarci dalla Sua ira; si dovrebbe invece assumere, semmai, l'idea del
"sacrificio solidale", cioè del darsi di Gesù, per amore, per noi e
accanto a noi; andrebbe poi dismessa la categoria del Cristo "vittima"
del Padre, per sostituirla, piuttosto, con quella di Cristo "vittima"
di una congiura dei suoi nemici, mandato alla morte non da Dio ma dagli uomini.
Tale correzione di angolazione teologica rispetto anche ad una pur lunga
tradizione ecclesiastica non dovrebbe turbare. Infatti, se ormai comunemente si
usa il metodo storico-critico per interpretare le Scritture (sul problema del
sacrificio di Cristo, e su ogni altro), a molta maggior ragione, ci sembra, un
tale metodo potrebbe e dovrebbe essere usato per "storicizzare" il
Concilio di Trento e ogni altro documento papale e conciliare.
9/ Abbandonando un certo armamentario teologico per tener conto - come
deve essere fatto - della mentalità e della cultura degli uomini e delle donne
dei nostri giorni (e, del resto, la Chiesa dei primi secoli non ha forse tenuto
in gran conto la cultura greco-romana, restandone assai fortemente influenzata?)
si perdono le scorze che racchiudono la fede, ma non certo la sua linfa vitale.
Fondamentale e perennemente valido per la fede cristiana è che Dio ama gli
uomini e li salva in Cristo. E il Verbo, come dice il Credo, "a
causa di noi uomini, e a causa della nostra salvezza è disceso dal cielo e si
è incarnato nel seno della Vergine Maria. Patì sotto Ponzio Pilato, fu
crocifisso, e poi resuscitò il terzo giorno". Le "spiegazioni"
teologiche di tale mistero sono, appunto, fragili tentativi di attingere il
mistero, ma non la sua essenza. E, a riguardo del sacrificio, non va mai
dimenticato che il Credo non afferma solo che Gesù "patì e fu
crocifisso" ma, anche, che esso "resuscitò" (o, come spesso
precisa il Nuovo Testamento, "fu resuscitato dal Padre"). Dunque, la
passione/morte di Gesù non può mai essere disgiunta dalla Sua risurrezione. La
croce, ormai, è vuota, perché Cristo, il Vivente, è nella gloria immortale
presso il Padre. Ecco perché la celebrazione eucaristica va compresa
sottolineando che essa, insieme al "convivio", è
"memoriale", "benedizione", pegno della "vittoria sulla
morte", "annuncio del glorioso ritorno del Signore",
"sorgente di vita eterna".
B - "Mangiare il corpo del Signore", salvezza o condanna
10/ La domanda decisiva che Gesù ci rivolge con l'Eucaristia è, ci
sembra, quel "Fate questo in memoria di me" che Lui lasciò, come
testamento, in quell'ultima Sua cena. Ove il questo non è semplicemente
il mangiare il pane e il bere il vino del calice, cioè un rito: il che è
facilissimo da farsi. In effetti, lungo i secoli, tiranni pur nominalmente
cristiani non hanno sentito alcuna contraddizione tra l'ac-costarsi alla
comunione eucaristica e il mandare a morte migliaia di persone; e, oggi, ricchi
oppressori dei poveri fanno tranquillamente la comunione, e facitori e
sostenitori di guerre si accostano senza rimorsi all'Eucaristia. Con il questo,
insomma, Gesù ci rivolge una domanda radicale, e ci chiede una risposta
altrettanto radicale: di vivere, come ha vissuto Lui, una vita spesa per gli
altri con amore, condivisione, com-passione. In questa prospettiva, ci sembra,
anche il concetto di sacrificio potrebbe sì, allora, essere usato, purché
inteso appunto come un invito a noi a "fare altrettanto" come fece Gesù.
11/ Il problema del rapporto tra il "sacrificio" di qualcosa a
Dio e la coerenza della propria vita con il cuore del messaggio rivelato
percorre, come un filo rosso, le Scritture ebraiche e cristiane che, ciascuna a
suo modo e nel suo proprio contesto storico e teologico, ribadiscono la
insensatezza di pensare di cavarsela offrendo al Signore un sacrificio che non
comporti anche il mettere in conto il proprio ravvedimento e il proprio impegno
per condividere la sorte dei prediletti dell'Altissimo: i poveri, gli oppressi,
i derelitti.
12/ "Che m'importa dei vostri sacrifici [nel Tempio di Gerusalemme]
senza numero?", dice il Signore. "Sono sazio degli olocausti di
montoni e del grasso dei giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io
non lo gradisco… Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso è un
abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto
e solennità… Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre
mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre
azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene,
ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'or-fano,
difendete la causa della vedova". Così, otto secoli prima di Gesù,
proclama Isaia (I, 10-17). Con queste parole taglienti il profeta disvela e
respinge sdegnato, come trucco miserabile, la pretesa di chi, scrupolosamente
ligio a tutti i precetti formali della sua religione, pensa di essere giusto di
fronte all'Eterno recitando le preghiere, frequentando le sacre liturgie,
facendo nel Tempio i prescritti sacrifici di animali ma, nel contempo, ignorando
"gli orfani e le vedove" (i più esposti alla sopraffazione, ai tempi
del profeta).
13/ Paolo di Tarso - che ben conosceva le Scritture del Primo Testamento
- aveva forse in mente proprio il capitolo primo di Isaia (e altri passi
analoghi dei profeti d'Israele) quando, nella prima lettera ai cristiani della
città greca di Corinto, descrisse quello che è, e quello che non è,
"vera" Eucaristia. Ovviamente con tutte le differenze storiche e
teologiche del caso, il centro del discorso dell'apostolo sull'Eucaristia non è
infatti il sacrificio ma la condivisione, non idea vaga e
romantica, ma concretissima scelta vitale. Scrive l'apostolo: "Quando vi
radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore.
Ciascuno, infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e
così uno ha fame, e l'altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per
mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e far
vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo.
Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il
Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver
reso grazie, lo spezzò e disse: 'Questo è il mio corpo, che è per voi; fate
questo in memoria di me'. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il
calice dicendo: 'Questo calice è la nuova alleanza del mio sangue; fate questo,
ogni volta che ne bevete, in memoria di me'. Ogni volta infatti che mangiate di
questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché
egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del
Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto,
esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché
chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la
propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e
un buon numero sono morti" (11, 20-30).
C - Ogni celebrazione eucaristica è un "giudizio" di Dio
14/ Da tale testo, straordinario per la sua incisività, risulta lampante
che l'Eucaristia come semplice rito, non accompagnata dalla propria convinta
adesione alla persona e al messaggio di Gesù, e dalla decisione di condividere
il proprio pane (la vita) con l'affamato, è pura profanazione e beffa. Chi fa
una tale scissione "mangia e beve la propria condanna": cioè -
traducendo la frase nel linguaggio attuale della nostra cultura - spiritualmente
è "un morto che cammina". Queste parole sono una scure che pende su
ogni celebrazione eucaristica: da quelle solenni in san Pietro presiedute dal
papa a quelle di una parrocchia sperduta nella savana; da quelle al Fanar di
Costantinopoli a quelle nella cattedrale dell'Assunzione al Cremlino; da quelle
a Wittenberg a quelle a Canterbury; da quelle a Gerusalemme a quelle a Ginevra;
da quelle dei movimenti carismatici a quelle in una piccola comunità di base in
Amazzonia o a Roma.
15/ Nel solco del discorso paolino si situa l'Evangelo di Giovanni,
scritto una cinquantina d'anni dopo la prima lettera ai Corinti. Infatti, pur
dilungandosi sull'ultima notte di Gesù molto più di Matteo, Marco e Luca, il
quarto evangelista non racconta affatto la "istituzione"
dell'Eucaristia (già presupposta nel discorso teologico del capitolo VI sul
"pane della vita"), ma la esplicita, narrando un episodio ignorato dai
"sinottici": la lavanda dei piedi. Spiegandone il senso a un Pietro
riottoso, Gesù parla così: "Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho
lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni degli altri. Vi
ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi"
(13, 13-15). Il "fare come Gesù", per tenerne viva la memoria, è
dunque, per Giovanni, il servirsi a vicenda. Comandamento solenne e supremo per
tutti i cristiani, e per tutte le Chiese.
16/ Guardando l'amara realtà attuale, potremmo perciò dire che il Nord
del mondo abusivamente si autoproclama - come talora accade -
"cristiano" se, mentre tale si dice, celebra le sue Eucaristie sedendo
pingue alla mensa che schiaccia il Sud del mondo da lui impoverito. E, dunque,
quando non abbia intenzione di cambiare rotta, le sue Eucaristie sono sì
verissime ritualmente, ma falsissime spiritualmente. Quelle appunto di cui
parlava Paolo, e che determinano la nostra condanna. Perché l'Eucaristia è
quasi un'ordalia (se, con un ardita analogia, volessimo riportare all'oggi
un'usanza del Medio Evo, quando l'esito di una dura prova fisica veniva
interpretato come il giudizio di Dio, di assoluzione o di condanna, su di un
accusato): l'Altissimo nell'Eucaristia giudica nel profondo la verità della
nostra vita. Il ricco Epulone può celebrare in pompa magna tutte le Eucaristie
che vuole; il Lazzaro che ha lasciato alla porta del suo palazzo è, di fronte a
Dio, la contraddizione insanabile che rende l'Eucaristia sciagura per lui, il
ricco che non vuole ravvedersi. O, per dirla con Gustavo Gutierrez: "Senza
un impegno reale contro lo sfruttamento e l'aliena-zione e in favore di una
società solidale e giusta, la celebrazione eucaristica è un atto vuoto, che
non può dare nessun sostegno a chi vi partecipa… 'Fare memoria' di Cristo è
più che realizzare un gesto cultuale: è accettare di vivere sotto il segno
della croce e nella speranza della risurrezione, accettare il senso di una vita
che arrivò fino alla morte, per mano dei grandi di questo mondo, a
dimostrazione di amore per gli altri" (Teologia della liberazione,
Queriniana, Brescia 1973, pp. 263-264).O, ancora, notando con Giulio Girardi:
"Lo scandalo delle divisioni sta veramente nel fatto che le Chiese non
professano lo stesso Credo, o non invece nel fatto che gli sfruttatori
professano lo stesso Credo degli sfruttati, senza sentirsene accusati? Che i
ricchi condividono in chiesa l'Eucaristia con delle persone con cui nella vita
non condividono nulla?" (La tunica lacerata, Borla, Roma 1986, p.
366).
17/ Per questo l'Eucaristia è invito perenne, a ogni cristiano, al
"ravvedimento", alla metànoia (conversione), tutte le volte
che egli osi fare come i ricchi della comunità di Corinto; e, alle Chiese, un
monito incalzante alla continua riforma fattuale e istituzionale per cancellare
da esse ogni scelta/tradizione/legge che, per quanto autorevole e amata, in
realtà favorisca il proprio operare come i ricchi di Corinto; e, in positivo,
il proprio porsi, ogni giorno ripensato e rinnovato, come Chiese, in stato di
lavanda dei piedi del mondo.
18/ Per gli apostoli e per le prime generazioni cristiane era impensabile
domandarsi se segni eucaristici dovessero essere sempre pane di frumento e vino
di vite, essendo questi, per le civiltà mediterranee e mediorientali, simbolo e
realtà comuni e condivise di nutrimento e di festa (ma bizantini e latini
litigarono a lungo se il pane dovesse, o no, essere fermentato). Né si posero
la domanda, più tardi, i conquistatori europei e i missionari, quando
"esportarono" il Cristianesimo. Il dubbio è germinato solo nei tempi
più recenti, e nel Sud del mondo. Scrive Giovanni Franzoni in Farete
riposare la terra. Lettera aperta per un Giubileo possibile (Edup, Roma
1996): "L'assolutezza di un segno legato ad una certa materia è davvero
insita nella sostanza del comandamento di Gesù nell'ultima Cena? Il dubbio ha
fatto capolino… soprattutto in Africa. Il pane di frumento e il vino - notava
nel 1983 mons. Anselme Titianma Sanon, vescovo cattolico di Bobo-Dioulasso, in
Burkina Faso - non sono prodotti del nostro paese; essi provengono
dall'importazione e 'sono il simbolo dei ricchi e dei colonizzatori. Dunque, non
segno di Gesù, del suo amore per i poveri, della sua dedizione, ma segno dei
potenti, dei volenti e dei conquistatori. Ed allora, violiamo noi la volontà di
Cristo se per celebrare l'Eucaristia usiamo i segni che usa la nostra gente,
povera, per mangiare insieme e per dare ospitalità? Tutti i pani, come la
manioca, che non siano di frumento, sono indegni del pane eucaristico?'. E Sione
Amanaki Havea, teologo di Suva (Isole Fiji), nel 1982 affermava: 'Sono certo che
se Gesù fosse nato sotto il cielo del Pacifico, Egli, per la Cena, avrebbe
usato la noce di cocco invece del pane e del vino. Il frumento e la vite sono
infatti sconosciuti ai nostri popoli, e non hanno senso per essi. Il cocco è un
albero della vita per i popoli del Pacifico. Dal suo frutto vengono una polpa ed
un succo, che significano per noi più che il pane e il vino'. Queste voci
dall'Africa e dal Pacifico ci aiutano ad intuire che la inculturazione del
messaggio di Gesù nelle varie culture, soprattutto in quelle che noi europei
abbiamo cercato di schiacciare in nome di Dio, potrà approdare a creare sintesi
fino ad oggi impensabili, e nuovi modi di esprimere non solo la liturgia, ma
anche il complessivo porsi della Chiesa nell'organizzazio-ne dei suoi
ministeri" (pp. 83-84).
19/ Anche sul modo di celebrare l'Eucaristia, e cioè sui riti
fastosi con cui, nel tempo, le autorità ecclesiastiche hanno circondato, e
ricoperto, fin quasi a renderla irriconoscibile, la Cena del Signore, ci si deve
interrogare partendo dal punto di vista dei più umili. In proposito, citiamo da
una "lettera aperta" all'arcivescovo ambrosiano card. Dionigi
Tettamanzi, pubblicata nell'ottobre scorso da don Angelo Casati su Come
albero, il bollettino della sua parrocchia milanese di San Giovanni in
Laterano: "Non si può equivocare: il gesto del pane [spezzato da Gesù
nell'ultima Sua cena] era umile, era silenzioso, era semplice. Ma parlava. Loro
guardavano e capivano. Capivano l'amore di Dio. In un pezzo di pane. Oggi per
farlo vedere l'abbiamo circondato, oserei dire assediato, di mille cose e la
foresta non permette più di intravedere il pane, di intravedere la cena, di
intravedere il cuore. Siamo ormai nella necessità di spiegare i segni, quando
essi stessi di loro natura dovrebbero significare. Il pane, confessiamolo, non
lo si vede più. Non si vede più la cena. Più volte - non so se capita anche a
te nelle tue liturgie dentro e fuori il Duomo - mi capita mentre celebro di
sorprendermi a pensare e mi prende, lo confesso, un brivido: che cosa è rimasto
di quella cena, racconto dell'umiltà di Dio? Non ti è mai capitato di pensare
che gli uomini e le donne di oggi, ritrovando quell'antico segno, sarebbero
presi da emozione come quei discepoli nella notte del tradimento? Prendila per
una stranezza. Da tempo mi vado chiedendo se, anziché aggiungere cose a cose
nei riti, non sia l'ora, questa, di incominciare pazientemente ma fermamente a
scrostare dagli ispessimenti, dai soffocamenti, dalle verniciature sovrapposte
nel tempo, l'affresco. Perché di affresco si tratta. L'affresco dell'amore
incondizionato di Dio. E ritorni a splendere il colore di questa
incondizionatezza, l'incondizionatezza del pane. Dato a Giuda che lo vendeva, a
Pietro che lo rinnegava, ai discepoli sul punto di fuggire. E lui a dire: 'Fate
questo in memoria di me'. Ripulire l'affresco, proposta stravagante. E forse
improponibile? Come ti guarderebbero i vescovi tuoi colleghi se tu ti azzardassi
a parlarne nelle sale prudenti della Conferenza episcopale?".
D - La "presenza reale": convergenze e divergenze
20/ Teologi e Concili molto hanno dibattuto, lungo la storia, su come
Gesù sia presente nell'Eucaristia. Volendo inquadrare brevemente la questione,
va ricordato che tale domanda non attirò molta attenzione nella Chiesa
delle origini. Il problema, allora, non era tanto quello di sciogliere un tale
interrogativo, ma quello di essere coerenti con il significato profondo
dell'Eucaristia, nel senso spiegato da Paolo.
21/ Poi, poco alla volta, l'argomento fu affrontato e, in proposito, si
confrontarono due spiegazioni: "quella realistico-metabolica che parla di
un vero cambiamento del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore, e
quella piuttosto dinamico-spiritualista. Tutte e due tendono a farsi valere
nella controversia eucaristica del secolo nono ed anche più tardi" (Bihlmeyer
- Tüchle, Storia della chiesa, Morcelliana, Brescia 1960, pag. 101). Ma
la prima spiegazione prevalse dopo che la gerarchia cattolica inventò la festa
del Corpus Domini. Tale festa fu organizzata per la prima volta nel 1246
a Liegi, in Belgio. Poi nel 1263 - così si narra - accadde quello che fu
chiamato il "miracolo di Bolsena": nella cittadina laziale un prete
tedesco, pellegrino verso Roma, celebrava messa dubitando, però della
"transustanziazione". E allora - dice la tradizione - dall'ostia
consacrata caddero delle gocce di sangue sul corporale [panno di lino bianco sul
quale il sacerdote all'altare depone il calice e le ostie]. Papa Urbano IV, che
allora si trovava nella vicina città di Orvieto, credette al racconto e, perciò,
nel 1264 estese allora a tutta la Chiesa romana la festa del Corpus Domini. È
in tale clima che, favorita ufficialmente, si rafforza, fino a diventare spesso
prevaricante nella pietà popolare, l'adorazione dell'ostia, a prescindere da
ogni collegamento con la celebrazione eucaristica. Un tipo di devozione che non
ha mancato di suscitare perplessità in campo teologico (perché la Scrittura
non dice "prendete e adorate", ma "prendete e mangiate").
Nei tempi più recenti, poi, il Vaticano II non ha incoraggiato tale devozione,
perché mai la nomina espressamente, limitandosi, nella Costituzione sulla
liturgia, Sacrosanctum Concilium, a "raccomandare i pii esercizi del
popolo cristiano, purché siano conformi alle leggi e alle norme della
Chiesa" (EV, I, 20).
22/ Rafforzando la spiegazione realistico-metabolica il Concilio di
Trento (Denz-Hüner. 37ª, 1642, 1651) confermò come dogma la
"transustanziazione": dichiarò, cioè, che con la consacrazione del
pane e del vino si opera la conversione di tutta la sostanza del pane nella
sostanza del corpo di Cristo, nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino
nella sostanza del suo sangue; e lanciò l'anatema contro chi lo
negasse. E, quindi, proclamò che "nel sacramento dell'Eucaristia è
contenuto veramente, realmente e sostanzialmente il corpo e il sangue di
Cristo". Pochi anni prima, nel 1530, nella Confessione di Augusta,
che raccoglie la fede dei luterani, questi avevano riconosciuto che nella Cena
del Signore "il corpo e il sangue di Cristo sono realmente presenti",
e disapprovato "quanti insegnano diversamente" (Confessioni di fede
delle Chiese cristiane, EDB, Bologna 1996, 39). Proclamazione giudicata però
insufficiente dal Tridentino che, incapsulato nello schema filosofico
aristotelico-tomista di "sostanza" e "accidente" (le
"specie eucaristiche"), trasformava una spiegazione teologica, la
"transustanziazione", in dogma di fede; aprendo così, senza volerlo,
un altro problema: perché "pane" e "vino" non sono composti
da un'unica "sostanza", ma da molte; dunque non hanno una
"individualità". E di fatto innescando - almeno a livello di
catechesi - una mentalità quasi magica o, per altro verso, materialista e
giuridicista, che vedeva Gesù discendere sull'altare nel momento esatto in cui
il sacerdote pronunciava le parole Questo è il mio corpo…, Questo
è il calice del mio sangue… Una tale mentalità ignorava (e ignora)
totalmente quella che i teologi orientali chiamano epìclesi, cioè
l'invocazione allo Spirito santo perché con la sua potenza renda l'Eucaristia,
e cioè l'intera celebrazione, veramente tale.
23/ Anche un altro grande riformatore, Giovanni Calvino, affrontò
ripetutamente e dettagliatamente il problema dell'Eucaristia. Basti, in
proposito, citare la Confessione di Ginevra, da lui approvata nel 1536:
"La Cena di nostro Signore è un segno mediante il quale, sotto il pane e
il vino, Egli ci rappresenta la vera comunione spirituale che noi abbiamo nel
suo corpo e nel suo sangue". Il testo definiva poi la Messa cattolica
"come un'idolatria condannata da Dio, sia in quanto è considerata un
sacrificio per la redenzione delle anime, sia perché in essa il pane è
considerato e adorato come Dio" (ibid., 1247).
24/ Per quasi mezzo millennio l'interpretazione biblica e teologica
dell'Eucaristia sarà motivo di aspra contesa tra Riforma e Controriforma. Ma,
abbandonando il tono polemico del Tridentino, il Concilio Vaticano II affrontò
di nuovo il tema, senza ribattere alle tesi dei "protestanti" ma,
piuttosto, esponendo in positivo, e molto sinteticamente, il suo pensiero. La Sacrosanctum
Concilium non usa la parola "transustanziazione" ma, al n. 7,
afferma che Cristo è presente "soprattutto sotto le specie
eucaristiche" (EV, I, 9). Tuttavia, aggiunge, Egli "è presente
con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo
stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla
quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la
Chiesa prega e loda, Lui che ha promesso: 'Dove sono due o tre riuniti nel mio
nome, là sono io, in mezzo a loro' (Mt 18, 20)". Aggiungiamo che, nello
stesso paragrafo, il Concilio parla proprio di "sacrificio della
Messa".
25/ La "dimenticanza" (non era ovviamente tale, ma una precisa
scelta teologica), al Vaticano II, del termine tecnico di
"transustanziazione", provocò crescente risentimento nei settori
cattolici tradizionalisti, tanto più che negli stessi anni diversi teologi,
mitteleuropei soprattutto, spiegavano il mistero dell'Eucaristia come "transignificazione"
o "transfinalizzazione" del pane e del vino. Perciò il 3 settembre
1965 Paolo VI intervenne con l'enciclica Mysterium fidei ribadendo
vigorosamente "il dogma della transustanziazione" (Denz.-Hüner.
4410-4411).
26/ La posizione di papa Montini, ripresa da papa Wojtyla, non ha però
potuto chiudere il dibattito teologico. Le opinioni differenti da quelle
ufficiali sono così riassunte, in parole semplici, da Franco Barbero, della
Comunità di base di Pinerolo: "Mangiare il corpo e bere il sangue di Gesù
è un linguaggio simbolico davvero espressivo. Non significa una nutrizione
fisica e biologica, ma la possibilità di entrare in profonda comunione di
pensieri e di vita con Gesù, di esperimentare la sua presenza nel nostro
cammino in modo intimo e profondo. Corpo e sangue esprimono
simbolicamente questo nutrire i nostri cuori del messaggio di Gesù, il nostro
essere uniti a lui come il tralcio e la vite. Quel pezzo di pane rimane pane;
così pure il vino. 'Il problema - scrive il teologo cattolico Armido Rizzi (Attuale
ricerca teologica sull'Eucaristia in campo cattolico, in Comunità cristiane
di base, Eucaristia: alienazione o liberazione?, Com-Nuovi Tempi ed.,
Roma 1982, p. 31) - è quello di vedere che significato ha, nel disegno di Dio,
questo pezzo di pane, anche se continua a restare un pezzo di pane'. Infatti 'i
problemi attinenti al cambio di sostanza vengono a perdere di valore, di
rilevanza, e lasciano posto ai problemi attinenti al cambio di significato e di
finalità' (Ibid.), e noi siamo rimandati alla prassi di Gesù che, dopo aver
ringraziato Dio, nella sua quotidianità spezzava il pane con i vicini e i
lontani, con i perduti, con pagani e prostitute. Dio, attraverso l'opera e il
messaggio di Gesù, non ha interesse a cambiare la sostanza del pane e
del vino. Quello che deve cambiare è la sostanza della nostra vita. In
questa prospettiva - conclude Barbero - non esiste nessuna parola sacerdotale
che trasformi un pezzo di pane, ma ci si affida, come Gesù, all'amore e alla
Parola di Dio che può lentamente cambiare le nostre vite" (Adista,
7 giugno 2003, p. 15). Insomma, riassumendo queste idee, l'Eucarestia può
essere proficuamente intesa come segno efficace, tale cioè da produrre effetti
reali, nel senso che crea in noi misteriosamente, nel momento in cui
l'accogliamo, un "valore aggiunto" che ci sollecita a condividere la
nostra vita con gli altri. E questo è il vero "cambiamento di
sostanza"!
E - Il consenso ecumenico di "Fede e Costituzione"
27/ Nel Consiglio Ecumenico delle Chiese, che raccoglie tutta
l'Ortodossia e moltissime Chiese anglicane, luterane, riformate e
"libere" (oggi, in totale, 342), vi è un organismo, "Fede e
Costituzione", che studia appunto i problemi dottrinali che dividono le
Chiese, offrendo a queste le sue riflessioni per aiutarle a sciogliere problemi
difficili. La Chiesa cattolica romana, pur non essendo membro a pieno diritto
del Cec, ha dodici suoi teologi tra i 120 complessivi di "Fede e
Costituzione", con i quali lavorano in piena parità.
28/ Ebbene, dopo anni di lavoro, nel gennaio 1982 "Fede e
Costituzione" ha approvato, a Lima, un importante documento su
"Battesimo, Eucaristia, Ministero", detto BEM dalle iniziali dei tre
temi. Sul controverso problema del sacrificio il BEM afferma:
"L'Eucaristia è il memoriale di Cristo crocifisso e risorto, cioè il
segno vivo ed efficace del suo sacrificio, compiuto una volta per tutte sulla
croce e ancora operante in favore di tutta l'umanità… L'Eucaristia è anche
l'anticipazione della sua parousìa [il glorioso ritorno alla fine dei
tempi] e del regno finale… L'Eucaristia è il memoriale di tutto ciò che Dio
ha fatto per la salvezza del mondo". Un memoriale [anamnesis]
possibile "attraverso l'invio dello Spirito santo" (Enchiridion
oecumenicum, I, EDB, Bologna 1986, 3076-79). E quindi commenta: "È
alla luce del significato dell'Eucaristia come intercessione che si possono
comprendere i riferimenti all'Eucaristia come sacrificio propiziatorio fatti
nell'àmbito della teologia cattolica. Il senso è che c'è una sola espiazione,
quello dell'unico sacrificio della croce, reso operante nell'Eucaristia e
presentato al Padre nell'intercessione di Cristo e della Chiesa a favore di
tutta l'umanità. Alla luce della concezione biblica del memoriale, tutte le
Chiese potrebbero rivedere le vecchie controversie a proposito della nozione di sacrificio
e approfondire la loro comprensione delle ragioni per le quali tradizioni
diverse hanno utilizzato oppure rigettato questo termine" (Ibid., 3080).
29/ Precisato che "una corretta celebrazione dell'Eu-caristia
comprende la celebrazione della Parola", il BEM prosegue: "Il
banchetto eucaristico è il sacramento del corpo e del sangue di Cristo, il
sacramento della presenza reale. Cristo realizza in molteplici modi la
sua promessa di essere sempre con i suoi, sino alla fine del mondo. Ma il modo
della presenza di Cristo nell'Eucaristia è unico. Sul pane e sul vino
dell'Eucaristia Gesù ha detto: 'Questo è il mio corpo… questo è il mio
sangue'. Ciò che Cristo ha detto è vero, e questa verità si compie ogni volta
che l'Eucaristia viene celebrata. La Chiesa confessa la presenza reale,
vivente e attiva di Cristo nell'Eucaristia". Quindi, il commento:
"Molte Chiese credono che, per le parole stesse di Gesù e per la potenza
dello Spirito santo, il pane e il vino dell'Eucaristia diventano, in una maniera
reale benché misteriosa, il corpo e il sangue del Cristo risorto, cioè del
Cristo vivente, presente in tutta la sua pienezza. Sotto i segni del pane e del
vino, la realtà più profonda è l'essere intero di Cristo, che viene a noi per
nutrirci e trasformare tutto il nostro essere. Altre Chiese, pur affermando una
presenza reale di Cristo nell'Eucaristia, non legano in modo così preciso
questa presenza ai segni del pane e del vino. Le Chiese debbono decidere se
questa differenza può coesistere con la convergenza formulata nel testo" (Ibid.,
3084-86).
30/ Sintetizzando le convergenze/divergenze manifestate nel BEM, si
potrebbe affermare: tutte le Chiese credono che Cristo sia veramente presente
nell'Eucaristia. Per quanto riguarda invece le possibili spiegazioni
teologiche, o fisiche, di come ciò avvenga, è lasciata libertà di
opinione. La Bibbia, infatti, non spiega il come; dunque nessuna Chiesa
potrebbe imporre come dogma un'interpretazione magari legittima, però
niente affatto obbligante secondo le Scritture.
31/ Il modo con cui il BEM elabora la categoria di sacrificio
risente, a nostro modesto parere, di uno sforzo di "mediazione
teologica" forse non perfettamente riuscito. Riteniamo tuttavia consolante
che, sul problema della presenza reale, le Chiese abbiano
raggiunto un così alto consenso ecumenico, cercando di distinguere quanto
appartiene al deposito della fede da quanto è parziale e limitata spiegazione
di esso. D'altra parte ci rincresce però che, dall'accordo di Lima, non siano
state tratte conseguenze per sanare le discordie tra le Chiese dovute anche ai
loro diversi modi di spiegare la presenza eucaristica. O,
comunque, non ha tratto conseguenze, ufficialmente, la Chiesa cattolica romana.
32/ Infatti, nella Ecclesia de Eucharistia, per spiegare il
mistero eucaristico il papa ripropone di fatto la "transustanziazione"
definita dal Tridentino, lasciando cadere il suggerimento del BEM. Sulla stessa
scia si mettono i Lineamenta e anche la Mane nobiscum Domine, la
lettera apostolica del 7 ottobre 2004 con la quale il pontefice ha indetto
l'"Anno dell'Eucaristia" (ottobre 2004/ottobre 2005).
II/ COMUNITÀ, SACERDOZIO, MINISTERI
33/ Una lettura complessiva degli Evangeli mette in luce, ci sembra,
soprattutto queste caratteristiche di Gesù: annunciatore dell'avvento del regno
di un Padre misericordioso; operatore di segni, legati a quell'annuncio, di
liberazione dal peccato e dalle malattie; testimone di un amore indiscriminato e
gratuito; uomo che crede nella sua missione e che rimane fedele ad essa a costo
di venire in conflitto col potere politico e sacerdotale del suo tempo e per
questo risuscitato e glorificato dal Padre dopo la morte ignominiosa in croce.
Gesù non appare un sacrificatore quanto, piuttosto, un sacrificato.
34/ Quando, in quell'ultima Sua cena, Gesù infine disse ai convenuti
"Fate questo in memoria di me", lo disse a tutti i presenti. Ora, in
una cena pasquale ebraica - e Gesù era, e ci teneva ad essere, un ebreo
osservante - partecipava l'intera famiglia e, magari, famiglie amiche: genitori,
figli e figlie, nonni e nonne, zii e zie, cugini, conoscenti. Del resto, anche
oggi al Seder pasquale le famiglie ebraiche si allargano, possibilmente,
alla cerchia degli amici, e si sta tutti insieme, dai bambini agli anziani.
35/ Vediamo più da vicino gli evangeli, considerato che - ci avvertono
molti esegeti - nel loro resoconto forse mescolano, come sembra fare Luca, la
narrazione dell'ultima cena di Gesù con la Cena in Sua memoria celebrata dalle
prime comunità cristiane. Matteo (26, 20) dice che Gesù fece l'ultima sua cena
"con i Dodici"; Luca (22, 14) parla di "apostoli"; Giovanni
(13, 5) di "discepoli". Già tale diversità induce a pensare che
quella di Gesù non fu una cena "esclusiva" per e con i Dodici: e che,
perciò, non solo ad essi lasciò come testamento il "Fate questo in
memoria di me". Del resto, che un'interpretazione "estensiva" sia
più che probabile lo dimostrano il capitolo 14 di Marco, e il 24 di Luca.
Quello di Marco, il vangelo più antico per composizione, è particolarmente
illuminante. Egli afferma che Gesù mandò due suoi "discepoli" a
preparare la "grande sala" (il Cenacolo!) della Pasqua, nella casa di
un innominato ma amico "padrone", e che là Egli giunse poi la sera
"con i Dodici". Quando Gesù parla del traditore, a chi gli chiede,
preoccupato, "Sono forse io?", Egli dà un segnale: "Uno dei
Dodici, colui che intinge con me nel piatto". La precisazione di Gesù si
comprenderebbe con difficoltà se nella sala non vi fossero state altre persone,
oltre ai Dodici.
36/ Luca, al capitolo 24, narra la vicenda dei due discepoli (uno si
chiamava Cleopa, dunque non era uno dei Dodici) che, qualche giorno dopo la
morte di Gesù, in cammino da Gerusalemme verso il villaggio di Emmaus
incontrano il Signore risorto: essi però lo riconoscono solo dopo che Gesù
"a tavola con loro, disse la benedizione, spezzò il pane e lo diede loro.
Ed ecco si aprirono loro gli occhi". Ma se all'ultima cena di Gesù erano
presenti solo i Dodici, come avrebbero potuto i due discepoli riconoscere Gesù
quando ripeté un gesto che essi non avevano visto?
B - Le donne nel Cenacolo
37/ I Dodici, i "discepoli"… E le donne? Gli Evangeli, è
vero, non le nominano espressamente presenti all'ultima cena di Gesù. Ma,
nell'ambiente ebraico di allora, chi preparava la cena pasquale (e i pasti in
generale), se non le donne? È perciò praticamente certo che, quando Gesù
disse "Fate questo", erano con lui anche donne; né è pensabile che,
dopo che ebbero servito, nel momento solenne Egli abbia pregato le donne di
uscire perché stava per "abilitare" solo uomini-maschi al "Fate
questo" per il futuro.
38/ D'altronde, noi leggiamo (Luca, cap. 2) che a dodici anni Gesù andò
a Gerusalemme con i genitori. Ogni famiglia ebraica d'Israele era tenuta,
infatti, a "salire" al tempio di Gerusalemme, ogni anno, per celebrare
la Pasqua. Queste "salite" - con parenti e conoscenti, uomini e donne
- saranno rimaste ben impresse nella mente di Gesù, e a lui care. Anche per
questo è del tutto inverosimile che, volendo Egli, in un momento cruciale della
sua missione, celebrare la Pasqua ebraica, abbia deliberatamente escluso da essa
le donne.
39/ La tesi - tradizionale nella Chiesa romana (ma anche nell'Ortodossia,
seppure oggi, come tra i cattolici, con i dubbi di alcuni teologi e teologhe; è
stata invece abbandonata da decenni da gran parte delle Chiese della Riforma) -
che nel Cenacolo fossero presenti solo maschi è dunque storicamente
improbabile. Naturalmente a noi moderni, e soprattutto alle nostre sorelle,
spiace che gli Evangelisti abbiano omesso di citare espressamente la presenza
delle donne all'ultima cena. Ma trarre da questo silenzio le conclusioni
apodittiche che ancor oggi ne trae il magistero della Chiesa romana ci sembra
quanto meno discutibile.
C - Il Nuovo Testamento non parla di "sacerdoti"
40/ Se, secondo la dottrina cattolica tradizionale, all'Ultima Cena di
Gesù erano presenti solo uomini, ciò significa di conseguenza che, con il
"Fate questo in memoria di me", Egli creò i primi sacerdoti?
Qui si apre una problematica assai complessa, ardua storicamente e
teologicamente. Non pretendiamo certo di risolverla partendo dalla nostra
piccola vicenda; ma non possiamo nemmeno evitarla, anche perché essa è lo
sfondo di tante esperienze di base, e di proposte teologiche che, come molte e
molti di noi, anche altri hanno potuto constatare e ascoltare dall'Italia
all'America Latina, dall'Africa al Nord America. Parlarne ci sembra importante e
corretto, naturalmente consapevoli di non riuscire a sciogliere ogni nodo
storico e teologico implicato, e del tutto aperti ad accogliere che cosa, in
merito, oggi lo Spirito dica alle Chiese.
41/ A prescindere da riferimenti a sacerdoti pagani (come
in Atti 14, 13), il Nuovo Testamento lega la parola sacerdote solamente
ed esclusivamente a Gesù; proclama Cristo unico e sommo sacerdote,
Colui che compie e supera definitivamente il sacerdozio di Melchisedek e anche
quello di Aronne, fratello di Mosè, e quello levitico del Tempio di Gerusalemme
(ormai distrutto, comunque, quando viene redatta la maggior parte degli scritti
del Nuovo Testamento). Gesù - sempre secondo i cristiani - è l'unico mediatore
tra il mondo e il Padre. Non vi sono più, non vi saranno più sacerdoti,
al di fuori di Lui. Potremmo anche dire: il sacerdozio di Cristo è
"analogico" rispetto a quello esercitato nel tempio di Gerusalemme; e,
rispetto a quello di Gesù, "analogico" è quello dei
"sacerdoti" della Chiesa cattolica romana (e ortodossa). Comunque, le
Scritture cristiane parlano di discepoli, apostoli, profeti,
ministri (=servitori), presbìteri (=anziani), diaconi (=aiutanti);
mai di sacerdoti (preti). Il ministero (=servizio alla comunità) é
qualcosa di sostanzialmente diverso dal sacerdozio (=mediazione necessaria
tra l'uomo e Dio).
42/ Se il Nuovo Testamento vede Gesù come la "via" che
porta al Padre, come il "ponte" che permette di raggiungere, nel Suo
nome, l'Eterno e Ineffabile, e dunque in tale senso lo proclama
"sacerdote" e "pontefice", Gesù non appartenne però al
sacerdozio legato al Tempio di Gerusalemme. Sotto tale aspetto Egli fu del tutto
"laico". E tale radicale "laicità", che connotò la Sua
vita terrena, Egli lasciò in eredità a coloro che avessero voluto ascoltare il
suo Evangelo per testimoniarlo coerentemente.
43/ Perché allora, malgrado la precisa testimonianza delle Scritture
cristiane, nel secondo secolo, forse anche in riferimento - nominale - ad un
ufficio del Primo Testamento ma cambiandogli significato, si cominciò a parlare
di sacerdozio-sacerdoti? È possibile che le comunità cristiane
siano state indotte a dare a chi presiedeva l'Eucaristia, o guidava la comunità,
il titolo che anche la religione greco-romana dava a chi gestiva le cerimonie e
i sacrifici nei templi: sacerdos. E, a chi aveva responsabilità più
grandi, quello di epìskopos (vescovo) - "sorvegliante", nome
preso dall'analogo delle strutture civili romane. E, quello che poteva essere
agli inizi solo un tentativo di semplificazione lessicale, diventa poi un
cambiamento davvero sostanziale quando, nel IV secolo, il Cristianesimo - con un
processo articolato che va da Costantino a Teodosio - viene dapprima
espressamente riconosciuto come religione "lecita" e poi religione
"obbligatoria" dell'impero romano. Perciò, come logica conseguenza,
chi non è cristiano (secondo la fede formulata nel 325 al primo Concilio
ecumenico di Nicea) viene considerato nemico, al tempo stesso, della Chiesa e
dell'impero.
44/ Chiesa e impero - ambedue tentando di trarre il massimo vantaggio
religioso e/o politico dalla "sinergia" - hanno di fronte a sé il
compito difficile e urgente di far diventare cristiane le masse. L'idea vincente
è quella di trasferire nel e sul Cristianesimo tutte le forme istituzionali,
civili e cultuali possibili del tradizionale mondo civile e religioso
greco-romano: la basilica (che di per sé era un palazzo deputato ad
ospitare tribunali e mercati) diventa la basilica-chiesa cristiana; il sacerdote
pagano diventa il sacerdote cristiano; il pontifex pagano diventa
il pontefice cristiano; la diocesi civile romana (amministrazione
e sorveglianza di un vasto territorio) ispira, in piccolo, la diocesi ecclesiastica.
In alcuni casi, pur nell'analogia, la differenza tra il significato pagano e
quello cristiano del termine, del compito o dell'istituzione era minima; in
altri profondissima, ma tale assoluta differenza, chiara ai teologi, era spesso
ben poco evidente agli abitanti dei pagi (i villaggi). Comunque, in tutti
i modi si cercava di facilitare il passaggio in massa della gente, e il più
dolcemente possibile, dalla religione avìta a quella "nuova". Così,
senza scosse eccessive, il mondo (dell'impero romano) da pagano diventava tutto
cristiano.
45/ Il titolo, e la sostanza, di sacerdos, applicato poi
nei secoli al prete, ebbe una radicale contestazione da parte di Martin Lutero
che, sottolineando il sacerdozio comune (=regale) di tutti i battezzati,
attestato dalle Scritture cristiane (I Pt 2, 9), di fatto demoliva l'idea del
sacerdote "mediatore necessario" tra Dio e la singola persona, tra Dio
e la comunità dei credenti; ma le obiezioni del Riformatore furono, allora,
respinte dal Concilio di Trento. Solo nei tempi più recenti nella Chiesa
cattolica romana, a livello ufficiale, si è cominciato a diradare l'uso della
parola sacerdos riferita ai preti. Così il Vaticano II nel 1965 emanò
un "Decreto sul ministero e la vita dei presbìteri", il Presbyterorum
ordinis. Non parla dunque, il Concilio, di "ministero dei
sacerdoti" e di Sacerdotum ordinis. È vero che poi, nel descrivere
la sostanza del "ministero" presbiterale, il testo fa quasi una
equivalenza tra i due titoli, e tra i due concetti. Tuttavia ci pare che la
scelta fatta delle parole manifesti un qualche disagio a proposito del senso
tradizionale di sacerdozio. Disagio comunque approfonditosi - anche in
molti preti - nel post-Concilio, seppure non giunto, per lo più, ad attingere i
nodi biblici di fondo della questione.
46/ Ovviamente, una disamina teologica su sacerdozio/sacerdoti non
può ignorare quanto, nel passato e oggi, moltissimi preti cattolici (come pope
russo-ortodossi o papas greci e sacerdoti di tutte le Chiese orientali) hanno
fatto, e fanno, per testimoniare il vangelo nelle loro parrocchie, annunciare la
Parola, invitare all'Eucaristia, confortare i sofferenti, sacrificarsi - è il
caso di dirlo - per il bene della gente e soprattutto per le persone più
escluse ed abbandonate. Episodi spiacevolissimi (avvenuti soprattutto negli Usa,
ma anche in Europa e altrove) di violenze sessuali di preti contro minori non
possono assolutamente indurre a generalizzazioni ingiuste, anche se ci si deve
interrogare sul sistema della formazione seminaristica e sulle responsabilità
di quei vescovi che hanno tollerato tale scandalo.
47/ Lo zelo e l'impegno pastorale di tantissimi preti (e pope e papas) è
un tesoro prezioso per le Chiese. Riteniamo, tuttavia, che proprio partendo da
questo "capitale" si possa e si debba valutare più accuratamente, dal
punto di vista biblico, storico ed esegetico, e facendo tesoro dell'ap-porto
della Riforma, che cosa significhi "ministro" e quale il suo ruolo nel
contesto di una comunità cristiana ove tutti sono radicalmente eguali per il
battesimo e per tutti vale il sacerdozio regale. È indubbio infatti che
la crescente "clericalizzazione" della Chiesa latina, e il progressivo
formarsi - al di là della buona volontà del singolo - di una "casta"
sacerdotale, abbia creato una struttura oggettivamente invadente, portato spesso
i fedeli alla dismissione delle loro responsabilità, depotenziato i carismi dei
"laici", atrofizzato le comunità. Ci pare dunque che, in prospettiva,
occorra un profondo ripensamento, teologico e pastorale, che metta al centro la
comunità più che il suo ministro. Un tale ripensamento è già in atto, nella
prassi, in molte esperienze di Chiese, anche nel Nord, ma soprattutto nel Sud
del mondo. E noi siamo convinti che questo "stile" ecclesiale sarà un
dono importante per la intera Ekklesìa. Perciò abbiamo fiducia che
questa "ortoprassi" aiuterà anche le Chiese del Nord a vivificare i
ministeri ecclesiali lasciando perdere scorze ormai rinsecchite del grande
albero fiorito delle Chiese. Per ridare senso, ancora una volta, alla lapidaria
affermazione di Paolo ai Galati: "Tutti voi siete figli di Dio per la fede
in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete
rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né
libero; non c'è più uomo né donna; poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù"
(3, 26-28). Se l'apostolo chiede di superare contrapposizioni e divisioni
apparentemente - allora - insuperabili, come si potrebbe coerentemente
introdurre poi nella Chiesa una insuperabile "differenza" tra sacerdoti
e laici?
D - L'imposizione delle mani
48/ La citata prima lettera ai Corinti non parla di chi avesse la
"presidenza" dell'Eucaristia, né di "come" fosse scelto il
"presidente". Non solo ignora, ovviamente, il sacerdote, ma
anche il ministro o l'anziano; il problema sembra non interessare
minimamente Paolo: forse proprio perché non esisteva, in sé, nessun
problema di "presidenza" o di "ordinazione"? Solo di una
cosa l'apostolo appare preoccupato: che la celebrazione comunitaria
dell'Eucaristia non sia un rito vuoto, ma diventi invece momento per decidersi,
con e come Gesù, a spezzare la propria vita per gli altri.
49/ In molti scritti del Nuovo Testamento si parla di "imposizione
delle mani": che significa? Negli evangeli è il gesto che Gesù compie
prima di guarire, o guarendo, un ammalato; non lo compie mai sugli apostoli.
Negli Atti e nelle Lettere l'imposizione delle mani serve per implorare dal
Cielo la guarigione degli ammalati, per invocare lo Spirito Santo su una
persona, per coronare una preghiera, per manifestare il compito pubblico e
specifico di qualcuno al servizio della comunità. Insomma, lo stesso gesto è
compiuto in situazioni diverse, ma sottolinea un identico movimento: una
trasmissione di energia spirituale, di speranza, di tensione, tra chi impone le
mani e chi riceve tale imposizione. Il tutto come dono dall'Alto.
50/ La prima lettera a Timoteo afferma: "Non trascurare il dono
spirituale che è in te e che ti è stato conferito, per indicazioni di profeti,
con l'imposizione delle mani da parte del collegio di presbìteri" (4, 14).
E, anche: "Se uno aspira all'episcopato, desidera un nobile lavoro. Ma
bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta,
sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino,
non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia
dirigere bene le propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità,
perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della
Chiesa di Dio?" (3, 1-5).
51/ Da decenni, però, molti esegeti escludono che sia proprio Paolo,
anche se apparentemente sembra così, l'autore della I lettera a Timoteo - come
della II allo stesso personaggio, e poi di quella a Tito e la II ai
Tessalonicesi, e cioè le cosiddette "lettere pastorali"; come, assai
probabilmente, non sono sue la lettera agli Efesini e quella ai Colossesi (cf.
Giuseppe Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella,
Assisi 1985, pp. 183-184). A queste conclusioni, per la I lettera a Timoteo, gli
studiosi arrivano analizzando lo stile, del tutto diverso da quello delle
lettere sicuramente di Paolo: I Tessalonicesi, Corinti I e II, Galati, Filippesi,
Filemone, Romani; e poi considerando alcuni riferimenti - come il "collegio
dei presbìteri" - che denoterebbe un'orga-nizzazione ecclesiastica
inesistente al tempo di Paolo, e formatasi solo all'alba del secondo secolo. Chi
sostiene questa tesi (da altri comunque contestata), pone perciò la datazione
di Timoteo I al 100/110 d. C., quando Paolo era morto da una quarantina d'anni.
52/ Molti libri delle Scritture ebraiche e cristiane, come è noto, non
vengono più attribuite ai loro autori tradizionali: così, da tanto tempo
ormai, è pacifica acquisizione, per gli studiosi, che il Pentateuco non sia
stato scritto da Mosè, ma infine redatto sette-otto secoli dopo la sua morte:
e, per il Nuovo Testamento, basti dire, per limitarsi a Paolo, che ancora nel IV
secolo la Chiesa d'Occidente esitava ad attribuire all'apostolo la lettera agli
Ebrei, anche se poi gliela attribuì (ma oggi quasi nessuno sostiene che autore
di tale testo sia l'apostolo delle genti). Tali disconoscimenti di
"paternità" non inficiano - per i credenti ebrei e cristiani - il
fatto che i rispettivi libri sacri siano da considerarsi "rivelati"
(anche se variegate sono le spiegazioni sul senso e la portata di
"rivelazione"); tuttavia attribuire un libro biblico ad un autore o ad
un altro, vissuto in Palestina o altrove, in un secolo piuttosto che in un
altro, cambia ovviamente il modo di interpretare e di capire, nel suo
significato storico e teologico, un determinato libro delle Sacre Scritture.
53/ Ciò premesso, torniamo a… Timoteo. Intanto osserviamo che, nella
lettera, una delle qualità richieste per l'episcopato è che il
candidato sia sposato ("una sola volta") e dimostri di saper ben
guidare la sua famiglia prima di pretendere di "sovrintendere" a una
intera comunità ecclesiale. Affermazioni così sensate e cristalline svuotano
inesorabilmente, ci pare, tutte le argomentazioni con le quali, da un millennio,
la gerarchia della Chiesa latina ribadisce come praticamente indissolubile il
legame tra sacerdozio e celibato. Ma, accennata e chiusa tale questione minore,
torniamo alla "imposizione delle mani".
54/ Il gesto dell'imposizione delle mani, come abbiamo visto, nei Vangeli
non è legato al "sacerdozio". D'altronde, proprio il modo variegato
con cui - dagli Atti, ai Corinti, a Timoteo - si organizzano le comunità
cristiane sembra evidenziare un dato, sempre più sottolineato da molti esegeti:
Gesù non aveva lasciato nessun comandamento, nessun "ordine" su come
avrebbe dovuto organizzarsi la Sua comunità dopo la Sua morte, salvo l'invito a
farsi servitori gli uni degli altri. Infatti, se un "modello" preciso
di Chiesa fosse stato da lui delineato, perché mai le prime comunità
cristiane, e gli stessi apostoli, scelsero prassi e modalità assai differenti
per l'organizzazione della comunità? Non sarebbero stati, esse ed essi,
fedelissimi nel realizzare la struttura decisa da Gesù? Dunque, affermano tali
esegeti, fu, ed è, grande responsabilità e grande grazia, della Chiesa, di
ogni Chiesa, trovare - a seconda dei tempi e dei luoghi - quelle strutture che
meglio permettano di rimanere fedeli all'Evan-gelo e testimoniarlo.
55/ Queste ultime tesi possono apparire assai distanti, a prima vista,
dalla dottrina ufficiale attuale della Chiesa cattolica romana, che fa risalire
all'esplicita volontà di Cristo l'istituzione del sacramento dell'Ordine, poi
storicamente sviluppatosi in episcopato, presbiterato, diaconato. Tuttavia, a
ben guardare, forse il fossato tra le tesi ufficiali (che, del resto, hanno alle
spalle una storia tribolata) e quelle dei teologi/teologhe di avanguardia non è
così profondo, ambedue ritenendo un caposaldo per la Chiesa le parole di Gesù
ai Dodici: "I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse, e i
grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma
colui che vorrà diventare grande tra voi si farà vostro servo, e colui che
vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo" (Mt 20, 25-27).
56/ A proposito di "modelli" è istruttivo riflettere sul caso
del tutto atipico di Paolo. Egli non era presente all'ultima cena di Gesù, e
dunque al "Fate questo…"; anzi, probabilmente non conobbe mai
Gesù, nella sua vita. Non fu dunque scelto dal Nazareno come apostolo, o
"ordinato" da qualcuno dei Dodici; tale divenne solo per un intervento
mistico del Signore. L'incipit della lettera ai Galati è, in proposito,
illuminante: "Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di
uomini, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai
morti…". Egli precisa di essere l'apostolo dei "gentili" [i
pagani] (Rom 11, 13) come Pietro lo è dei "circoncisi" [gli ebrei]
(Gal 2, 8). Ed è interessante notare che a Gerusalemme "Giacomo, Cefa e
Giovanni, ritenuti le colonne, riconoscendo la grazia conferitami, diedero a me
[Paolo] e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo
verso i pagani ed essi verso i circoncisi" (Gal 2, 9): dunque nessuna
imposizione delle mani, ma semplice stretta di mano - normale, seppur pregnante,
gesto di amicizia - pur di fronte ad una missione così impegnativa.
E - La "successione apostolica" e il dibattito ecumenico
57/ La dottrina cattolica ufficiale sostiene che la "materia"
sacramentale degli ordini sacri "maggiori" (episcopato, presbiterato,
diaconato) è l'imposizione delle mani; e che attraverso tale imposizione si è
formata una catena ininterrotta che dagli apostoli è giunta fino a noi. Perciò
i vescovi sono chiamati "successori degli apostoli". Se questa catena
si spezza, non vi è più "successione" e, dunque, in radice, non vi
è più una Chiesa autentica e piena. Di conseguenza, pur ammettendo che
"nella Santa Cena fanno memoria della morte e della risurrezione del
Signore", lo stesso Vaticano II sottolinea che le Chiese e comunità
ecclesiali nate dalla Riforma del secolo XVI "non hanno conservato,
specialmente per la mancanza del sacramento dell'Ordine, la genuina e integra
sostanza del mistero eucaristico" (Unitatis redintegratio, n. 22, EV
I, 567). Al contrario, precisa il Concilio, le Chiese orientali (=ortodosse),
"quantunque [da noi] separate, hanno veri sacramenti e soprattutto, in
forza della successione apostolica, il Sacerdozio e l'Eucaristia" (Ibid.,
549).
58/ La questione, cruciale, dei ministeri non poteva essere evitata nel
dialogo ecumenico. E, infatti, il BEM l'affronta di petto. A proposito di
persone che "siano pubblicamente e in modo continuo responsabili di
evidenziare la fondamentale dipendenza della Chiesa da Gesù Cristo", il
documento puntualizza: "Il ministero di tali persone, che da tempo assai
antico sono state ordinate, è costitutivo della vita e della testimonianza
della Chiesa" (Enchiridion oecumenicum, I, 3118). E commenta:
"Peraltro, le forme concrete di ordinazione e ministero ordinato hanno subìto
un'evolu-zione nel corso di un complesso sviluppo storico. Le Chiese devono
dunque evitare di attribuire le loro forme particolari di ministero ordinato
direttamente alla volontà e all'istitu-zione di Gesù Cristo" (Ibid.,
3123).
59/ Poi, mentre ribadisce l'importanza della "successione
apostolica", il testo nota: "In ragione delle particolari circostanze
storiche della Chiesa in espansione nei primi secoli, la successione dei vescovi
divenne uno dei modi, insieme con la trasmissione dell'Evangelo e la vita della
comunità, in cui trovò espressione la tradizione apostolica della Chiesa. Tale
successione fu compresa come servizio, simbolo e salvaguardia della continuità
della fede e della comunione apostoliche" (Ibid., 3157). E, ancora:
"Le Chiese che hanno una successione apostolica mediante l'episco-pato
riconoscono sempre di più che nelle Chiese che non hanno conservato la forma
dell'episcopato storico è stata conservata una continuità nella fede
apostolica, nel culto e nella missione". Queste ultime, comunque, "non
possono accettare nessuna ipotesi in base alla quale il ministero esercitato
nella loro tradizione sarebbe invalido sino a quando non sia entrato in una
linea [già] esistente di successione episcopale" (Ibid., 3159-60).
60/ In controluce si intravede un aspro dibattito teologico tra le Chiese
cattolica romana e ortodosse da una parte, e quelle nate dalla Riforma
dall'altra. Secondo le prime, le Chiese protestanti (e anglicane e
"libere") non hanno la successione apostolica in quanto non avrebbero
un episcopato valido; queste ultime, invece, rivendicano la pienezza della
"successione apostolica", legata alla "continuità nella fede
apostolica, nel culto e nella missione". Il contrasto tra le due
interpretazioni è grande e, lasciato irrisolto, impedisce l'unità visibile
delle Chiese. Per superarlo, molti non vedono altra strada se non quella di un
reciproco riconoscimento delle Chiese tra di loro. Non già, ovviamente, per un
compromesso al ribasso che distrugga il messaggio evangelico, ma nella
consapevolezza che le une e le altre, in modi differenti e con un'organizzazione
ecclesiastica differente, hanno conservato la fede degli apostoli. Ciò comporta
che ogni Chiesa sappia distinguere, nella sua proclamazione e nella sua
organizzazione, tra ciò che è volontà permanente di Gesù e quanto è un
tentativo umano - legittimo, del tutto indispensabile, ma potenzialmente
mutabile - di tradurre qui e ora il messaggio inesauribile dell'Evangelo.
61/ Nella Lumen gentium (n. 8), il Vaticano II ha affermato che la
Chiesa "una, santa, cattolica e apostolica" proclamata nel
"Credo" "sussiste nella [subsistit in] Chiesa cattolica,
governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui" (EV
I, 305). Invece, fino a Pio XII la teologia romana ufficiale affermava che
la Chiesa proclamata nel "Credo" è [est] la Chiesa cattolica
romana, e non semplicemente che sussiste in questa. Si trattava ben più
che di una sfumatura verbale: si proclamava la perfetta e piena equivalenza
Chiesa di Cristo=Chiesa cattolica romana.
62/ Intenso è stato, nel post-Concilio, il dibattito teologico sul senso
che la Lumen gentium intendesse dare alla scelta del subsistit al
posto di est. Secondo vari teologi e teologhe, sussiste potrebbe
forse significare che la Chiesa romana ha l'autocoscienza di essere una vera
Chiesa, ma non la presunzione di essere l'unica vera Chiesa (potrebbero
esserlo, almeno, dal suo punto di vista, anche le Chiese ortodosse). In tale
prospettiva, nessuna Chiesa dovrebbe tornare all'altra, ma tutte
dovrebbero convergere verso Cristo. Ma a sbarrare questa strada il 6
agosto 2000 è intervenuto il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della
Congregazione per la Dottrina della Fede - il dicastero vaticano che vigila
sulla "ortodossia" dei cattolici - con la dichiarazione Dominus
Iesus (testo integrale in Adista del 18 settembre 2000, n. 64). In
questa si dice che, con il sussiste, il Concilio affermò che la
Chiesa di Cristo "continua ad esistere solamente nella Chiesa
cattolica"; inoltre, si puntualizza che le Chiese che non hanno conservato
l'episcopato e la genuina sostanza del mistero eucaristico, "non sono
Chiese in senso proprio". Ovvero: possono legittimamente chiamarsi Chiese
anche quelle ortodosse, seppure manchi loro qualcosa di sostanziale, non essendo
in comunione con il successore di Pietro; ma non quelle protestanti.
Affermazione che sollevò un'ondata di critiche da parte delle Chiese della
Riforma.
63/ Per fortuita coincidenza, nello stesso mese di agosto del 2000 anche
il Concilio episcopale russo emanò un approfondito documento (integrale in Regno-documenti,
5/2001) che esprime l'autocomprensione teologica della Chiesa russa e
anche delle Chiese "sorelle". Esso afferma che l'insie-me
dell'Ortodossia è la Chiesa "una, santa, cattolica e
apostolica" proclamata nel "Credo"; e - conseguenza logica - che
ad essersi purtroppo "separate" e "staccate" dalla
"vera Chiesa di Cristo", e cioè dalla Chiesa ortodossa, è stata la
Chiesa romana - e, dietro ad essa, le altre Chiese occidentali (cf. Confronti,
10/2000).
64/ La contesa teologica tra Roma e l'Ortodossia, come tra Roma e le
Chiese della Riforma sembra, allo stato dei fatti, insuperabile. Per fortuna
esiste - esisterebbe - il "luogo" teologico appropriato per comporla
e, in generale, per sanare la divisione storica tra le Chiese: un Concilio
autenticamente universale, da molti negli anni recenti auspicato, e negli
anni Novanta sollecitato da Konrad Raiser, allora segretario generale del
Consiglio ecumenico delle Chiese. La caduta dei muri che dividono le Chiese
dovrebbe appunto essere coronata, in tale Concilio, dalla possibilità di
celebrare, tutti insieme, l'Eucaristia, come segno della ritrovata, pacificata
ed esplicita comunione tra le Chiese sorelle. Utopia? Certo, un tale evento
profetico non appare, per ora, all'orizzonte. Perciò noi uniamo le nostre
preghiere a quanti e quante implorano lo Spirito santo perché spazzi via le
nubi che oggi oscurano il cielo delle Chiese appesantite da secolari inimicizie
e, fecondando la buona volontà di tante e tanti cristiani, renda presto
possibile ciò che al momento sembra irrealizzabile. E, nel frattempo, ci
rallegriamo per quanti già ora sono impegnati per il "processo
conciliare": cioè quelle iniziative e quella tensione ecclesiale (ma che
guardi al mondo, soprattutto all'impegno per la pace nella giustizia) che aprono
dei "percorsi" i quali, intrecciandosi, possono almeno indirettamente
preparare e avvicinare la grande meta. In tal senso, feconde sono state le
Assemblee ecumeniche europee di Basilea (1989), e di Graz (1997), anche se
queste non si sono poste, formalmente, nella prospettiva del futuro Concilio.
F - "La Chiesa che presiede nell'amore"
65/ A rendere ardua la via verso l'auspicato Concilio autenticamente
universale e, comunque, tra gli ostacoli gravi e complessi che impediscono
la comunione eucaristica fra tutte le Chiese, primeggia il contrasto sul
ministero di unità rivendicato dal vescovo di Roma: un ministero che, in
dissonanza con le tesi degli ortodossi e dei protestanti, la dottrina cattolica
ufficiale non fa derivare da contingenti circostanze storiche ma da una volontà
esplicita e permanente di Cristo per la sua Chiesa. Dunque, un ministero che,
nella sua radice e nella sua intima sostanza, è sottratto ad ogni
"trattativa".
66/ Citando il Vaticano II e l'enciclica Ecclesia de Eucharistia,
i Lineamenta sottolineano che "la comunione cattolica si esprime nei
'vincoli' della professione di fede, della dottrina degli apostoli, dei
sacramenti e dell'ordine gerarchico. Essa esige quindi un contesto d'integrità
dei legami anche esterni di comunione, in special modo il Battesimo e l'Ordine.
L'Eucaristia come sacramento è tra questi vincoli necessari, ma perché sia
visibilmente cattolica deve essere celebrata una cum papa et episcopo [uniti
al papa e al vescovo], princìpi di unità visibile universale e
particolare" (n. 19). Il paragrafo tocca problemi difficili, importanti e
assai discussi: tra questi vogliamo qui accennare, dal punto di vista del
dibattito ecumenico, al rapporto Eucaristia/vescovo di Roma/comunione cattolica.
67/ Le Chiese ortodosse, nel loro insieme, respingono fermamente la tesi
che alla loro Eucaristia - celebrata in stato di "non comunione" con
il vescovo di Roma - manchi qualcosa per essere pienamente il sacramento
creduto. L'Ortodossia, oltre a ritenere che sia stata la Chiesa romana, e non
essa, a staccarsi dalla "vera" Chiesa, rifiuta poi risolutamente i
dogmi del primato pontificio e dell'infallibilità papale proclamati nel 1870
dal Concilio Vaticano I. Gli ortodossi, insomma, non ritengono che il ruolo di
Pietro nel collegio apostolico si sia "trasmesso", nel senso che lo
intende Roma, ai papi; e sottolineano che lo stesso capitolo XVI di Matteo apre
una dialettica sul ruolo di Pietro, proclamato "beato" per la sua
fede, ma anche "Satana" per la sua incredulità. E, venendo alla
storia successiva, respingono nettamente la tesi romana che il papa abbia di
diritto una "potestà [giurisdizionale] piena, suprema e universale su
tutta la Chiesa" (Lumen gentium, n. 22; EV, I, 337). Per
l'Ortodossia solo il Concilio ecumenico è la massima autorità della Chiesa,
cui tutti, vescovo di Roma compreso, debbono obbedire. Nell'Ekumene, per
l'Ortodossia, il papa romano ha solo un "primato d'onore".
68/ Analizzando le ragioni del contrasto Roma-Ortodossia, cinquant'anni
fa il teologo russo Nicolas Afanassieff rilevò come, dal suo punto di vista,
una difficoltà insormontabile fosse proprio il rapporto primato
papale/Eucaristia. Insistendo sulla priorità ontologica della Chiesa
"locale" rispetto all'astratta Chiesa "universale",
Afanassieff rileva che il primato papale, così come anche giuridicamente
rivendicato da Roma, significherebbe la pretesa di una Chiesa di avere potere su
un'altra Chiesa, e dunque sul Corpo eucaristico di Cristo che è invece identico
- uno e unico - in ogni Chiesa "locale" celebrante la divina liturgia
(cf. AA.VV., Il primato di Pietro, Il Mulino, Bologna 1965, pp. 487-555).
69/ È al di là delle nostre intenzioni (oltre che, ovviamente, delle
nostre forze) addentrarci in tutta la problematica biblica, storica e teologica
legata al "primato" di Pietro e a quello rivendicato dai suoi
"successori". In proposito, possiamo solo augurarci che i dibattiti
intracattolici, ed ecumenici, arrivino ad una conclusione pacificamente
condivisa. Notiamo, tuttavia, che gli stessi Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno
riconosciuto che il papato, così come storicamente si è configurato e
potenziato, è uno dei massimi ostacoli alla riconciliazione tra le Chiese
cristiane. Perciò, nell'enciclica Ut unum sint (1995) Karol Wojtyla ha
arditamente osato dirsi disposto a rivedere i modi storici di esercizio
del primato papale, purché rimanga integra la sostanza del primato
del successore di Pietro. I dieci anni successivi a quest'enciclica hanno però
dimostrato la difficoltà concreta di cambiare il modo di esercizio del
primato papale (si è infatti rafforzato il potere della Curia romana nei
confronti delle Chiese cattoliche nazionali o continentali); e anche la
difficoltà di Roma a rispondere alle obiezioni delle Chiese non cattoliche sul
ministero rivendicato dal suo vescovo.
70/ Forse solo nel futuro Concilio universale le Chiese potranno,
insieme, trovare un accordo su sostanza e modalità di esercizio del
"ministero petrino" affidato al vescovo di Roma - a servizio, appunto,
della loro unità (e, dunque, come dono prezioso per tutta l'Ekklesìa).
Ma sarà arduo raggiungere questo traguardo se, intanto, il papato non
s'incamminerà sulla strada, dolorosissima ma inevitabile, della spoliazione
evangelica. Il papa è tale, secondo la teologia cattolica ufficiale, perché
è vescovo di Roma. Ma, di fatto, oggi in lui si assommano e si concentrano
molti altri titoli. Oltre a quello di "successore di Pietro", uno di
essi - "sovrano della Città del Vaticano" - suscita particolare
disagio. Tale sovranità mondana (non è una questione di persone, ma di
strutture) dà al papa un potere e dei privilegi che nessun altro capo di Chiesa
ha, o può avere. Così il papa romano visita Paesi nei quali è accolto come
capo di Stato, con il cannone che spara a salve; ha una rete diplomatica di
collegamento con i vari Paesi del mondo e, alle Nazioni Unite, la Santa Sede ha
uno "status" non ammesso per nessun'altra Chiesa, Confessione o
Religione. Non può essere sottovalutato il peso "simbolico", e dunque
il negativo contraccolpo ecumenico di una tale "sovranità",
inestricabilmente saldata al ruolo di vescovo di Roma. Nessuna Chiesa slegata
dalla comunione con il pontefice romano accetta un tale groviglio
storico-teologico che, del resto, turba anche molti cattolici.
71/ Teologicamente facilissimo, di fatto è difficilissimo per il papato
abbandonare la sovranità quasi regale ereditata dalla storia. Forse,
come umile avvio su una strada tutta in salita, sarebbe già qualcosa se, a
partire dal prossimo papa, il vescovo di Roma facesse davvero, direttamente,
come suo compito primario, il pastore della sua Chiesa locale, risiedendo di
norma presso San Giovanni in Laterano, la basilica dove sta la sua cattedra
episcopale, là celebrando la domenica l'Eucaristia per il popolo della sua
diocesi, e annunciando la Parola. Il palazzo del Vaticano potrebbe allora essere
riservato solo ad alcuni rari incontri. E il governo della Chiesa cattolica
sarebbe affidato ad un vero Sinodo - con la partecipazione di vescovi, preti,
monaci, monache, religiosi, suore, laici e laiche - guidato dal vescovo di Roma;
un Sinodo non deputato (come fa oggi la Curia romana) a risolvere tutto, ma solo
concentrato su alcuni pochi problemi, lasciando la gran maggioranza delle
questioni e decisioni alla responsabilità delle Chiese locali sparse nel mondo
e, anche, organizzate continentalmente. Un tale cambiamento nell'esercizio del
ministero del vescovo di Roma non risolverebbe da solo, e d'incanto, i problemi
biblici, teologici e storici ed che stanno a monte del "principio del
primato" e che riguardano proprio la sua sostanza. Ma, forse,
permetterebbe di vagliare la plausibilità, nell'Ekumene di oggi, di una
"Chiesa che presiede nell'amore": è questo il titolo che Ignazio di
Antiochia (vescovo, scrittore e martire del II secolo) dà alla Chiesa di Roma.
Ma su che cosa significasse, nella realtà, o nell'ipotesi, una tale
"presidenza nell'agape", e dunque il rapporto tra essa e la
"inter-comunione" eucaristica tra le Chiese, contrastanti sono le
opinioni di storici e teologi e, soprattutto, delle Chiese stesse. Tali opinioni
divergono ancor più quando si tratti di immaginare per il terzo millennio una
"presidenza nell'agape" a sostegno della comunione delle Chiese
e a servizio della loro unità (non uniformità!) sinfonica e della loro
"diversità riconciliata".
72/ Ma, prima di diventare materia di dibattito ecumenico per la sua sostanza
e, se ammessa questa, per la sua forma, e quindi, in prospettiva,
tema capitale dell'auspicato Concilio autenticamente universale, il
problema dell'esercizio del ministero del vescovo di Roma dovrebbe essere uno
degli argomenti di quel nuovo e ravvicinato Concilio della Chiesa cattolica
(Concilio generale, non certo ecumenico, essendo un'Assemblea
interna ad una sola Chiesa) da molti sollecitato - non solo dalla base, ma anche
dal mondo teologico e pure da diversi vescovi e da alcuni cardinali. Noi uniamo
la nostra piccola voce a quanti e quante auspicano che la preparazione di tale
evento sia impegno prioritario del successore di Giovanni Paolo II. Tale
Concilio sarebbe la sede ideale per confrontarsi responsabilmente, alla luce
delle Scritture e attenti alle lezioni della storia passata e presente, e
sensibili all'attenzione dell'intera Ekumene, su molti problemi: tra
essi, il papato appunto; e l'Eucaristia ("intercomunione";
"ospitalità eucaristica"; ministeri ecclesiali aperti a uomini e
donne; traduzione concreta nella vita del "Fate questo in memoria di
me", e dunque impegno per la pace nella giustizia nel mondo). Un tale
Concilio, ovviamente, dovrebbe essere "nuovo" anche nella sua
composizione, non potendosi immaginare che esso fosse composto solo da vescovi,
senza preti e, soprattutto, senza laici (uomini e donne).
G - La "ospitalità" eucaristica
73/ Il futuro dirà se la prassi della Chiesa di Roma, e il dialogo
ecumenico, faranno fiorire un "consenso" sul significato del
"ministero petrino". Ma, intanto, a molti sembra feconda la strada
suggerita da alcuni gruppi ecumenici: ogni comunità cristiana locale riconosca
come tale l'altra comunità cristiana locale che vive accanto, anche se su di
esse pesa una divisione storica. Insomma, una Chiesa riconosca l'altra Chiesa, e
la reciproca Eucaristia. In tale prospettiva appaiono meno convincenti le
ragioni addotte dagli ultimi documenti vaticani per proibire non solo la
"intercomunione" (concelebrazione di ministri di Chiese separate) ma
anche la "ospitalità eucaristica" (invitarsi reciprocamente, ad
esempio tra una comunità cattolica e una evangelica, a partecipare da una parte
alla Messa, dall'altra alla santa Cena, gli uni e gli altri comunicandosi).
74/ Una tale "ospitalità", affermano i documenti vaticani,
sarebbe possibile solo il giorno in cui le due Parti, eredi della Riforma e
della Controriforma, avessero del tutto superato gli ostacoli dottrinali che
ancora le dividono. L'Eucaristia, dunque, come premio finale all'unità visibile
delle Chiese. Ma agli ecumenisti più audaci - senza contare il fatto
importantissimo che il 31 ottobre 1999 la Federazione luterana mondiale e la
Chiesa cattolica hanno firmato un accordo su punti fondamentali della
giustificazione, superamento quasi totale della contrapposizione insanabile
avvenuta tra loro nel Cinquecento (cf. Confronti, 12/1999) - sembra che
questa "ospitalità" debba essere invece attuata, come medicina
corroborante per spingere finalmente le Chiese a riconoscersi e a incontrarsi.
Eucaristia come viatico, dunque, per i pellegrini affamati ed assetati.
75/ Ricalcando quanto abbiamo visto fare in altre parti del mondo, in
condizioni analoghe, anche noi, come Comunità, alcune volte abbiamo praticato
una tale "ospitalità" con comunità evangeliche romane: e ogni volta
ne siamo usciti corroborati nella fede, consapevoli dello scandalo che offre al
mondo la persistente scissura tra le nostre Chiese, e desiderosi di lavorare di
più e meglio per la causa dell'Evangelo. Non abbiamo affatto nascosto i punti
su cui le rispettive Chiese di appartenenza sono in disaccordo, ma abbiamo anche
pensato che il muro delle nostre divisioni non arrivasse fino al cielo, e che
fosse possibile, ogni tanto almeno, scavalcare questa barriera per ritrovarci
insieme alla mensa del Signore, memori del "Fate questo" che Gesù ha
lasciato come testamento.
76/ Una tale "ospitalità", sottolineano le teologhe e i
teologi orientati al "sì", è possibile perché non sono le Chiese
che invitano all'Eucaristia, ma è Cristo che invita alla Sua mensa. Egli che è
venuto per sanare gli ammalati e non i sani, e per invitare al banchetto storpi
e zoppi; Egli invita i cristiani e le Chiese alla sua mensa, ad una sola
condizione: la consapevolezza di essere peccatori, e la determinazione ad
ascoltare il Suo invito al ravvedimento. Perché dunque le Chiese dovrebbero
porre delle condizioni per e su l'Eucaristia che Gesù non ha posto? Perché
accogliere alla mensa eucaristica solo i "nostri"? O perché escludere
dall'Eucaristia quei cristiani che come noi credono che Cristo sia in
essa presente, anche se non spiegano tale presenza con le nostre
categorie filosofiche e teologiche?
77/ Sempre in favore della "ospitalità eucaristica", diversi
teologi e teologhe sottolineano poi che, dal Vaticano II ad oggi, sono passati
quarant'anni, densi di dialoghi ecumenici bilaterali e multilaterali, per non
parlare del BEM. Non si potrebbero dunque porre i problemi, le domande e le
risposte, come se questi quattro decenni fossero rimasti, ecumenicamente,
sterili. Al di là poi delle nuove "concordie" teologiche ecumeniche,
è la prassi "alternativa" che è cresciuta. È davvero arduo
sostenere - dicono ancora questi studiosi, e molti gruppi con loro - che
cristiani di Chiese diverse insieme impegnati per la pace, la giustizia e la
riconciliazione nel mondo debbano poi dividersi nel momento della Cena del
Signore, costretti a celebrare Eucaristie parallele e incomunicanti.
78/ Le autorità delle Chiese (non solo della cattolica; ancor più
rigida è la posizione nell'Ortodossia) si oppongono comunque alla
"ospitalità eucaristica". Si possono ben capire le ragioni teologiche
e pastorali da loro addotte. Tuttavia, ci sembra, dovrebbero essere presi in
attenta considerazione quanti ritengono giunto il momento di superare antichi
steccati e compiere dei gesti concreti che mettano in discussione lo status
quo delle Chiese. Come la "ospitalità eucaristica" che una
parrocchia cattolica ed una evangelica hanno reciprocamente compiuto a Berlino,
nel maggio del 2003, durante l'Oekumenische Kirchentag. La storia
insegna, del resto, che l'ufficialità delle Chiese di solito è mossa ad
interrogarsi, e a cambiare, solo quando la gente insiste in una prassi che,
sulle prime, è malvista dalle autorità ecclesiastiche. Data la complessità
geografica, sociale e culturale delle comunità che insieme compongono la Chiesa
cattolica romana, questo rinserrarsi nella "ragion di Chiesa" - e cioè
nella logica dell'istituzione che tende ad autoconservarsi immodificata - può
ben essere capito. Ma anche, e ciò non dovrebbe scandalizzare nessuno, va
storicamente situato e criticamente valutato.
H - Il "popolo di Dio" e l'Eucaristia
79/ Ovviamente, se la Messa è vista prima di tutto come sacrificio,
non solo è impensabile ogni "ospitalità eucaristica" ma, anche,
ogni Eucaristia che non sia presieduta da un ministro ordinato ad hoc. Il sacrificio
esige che, a compierlo, vi sia un sacerdote a ciò deputato: solo lui
può essere pontifex, facitore di ponti tra l'umanità e Dio. Se
si parla invece di Eucaristia come dono di Cristo all'assemblea, come
popolo di Dio convocato dalla parola di Gesù, la prospettiva cambia
radicalmente. Una domanda sorge, allora: un gruppo di cristiani, desideroso di
adempiere intensamente e fedelmente il "Fate questo in memoria di me",
ma privo di ministro ordinato, potrebbe celebrare un'autentica Cena del Signore?
O una tale celebrazione dovrebbe essere considerata, sempre e comunque,
solamente una del tutto non sacramentale "agape fraterna", o preghiera
comunitaria, ma non propriamente, in senso stretto, "Eucaristia"?
Sfiorando tale tema, Armido Rizzi, nel libro citato al n. 26, afferma: "Di
fronte alla domanda precisa: è necessario che la celebrazione
eucaristica abbia come soggetto forte e determinante il sacerdote,
nell'accezione precisa, cattolica del termine, che è un individuo appositamente
ordinato con un apposito sacramento; ecco, di fronte a questo, mi pare che c'è
una certa riluttanza dei teologi a rispondere e a pronunciarsi. Credo che la
ragione principale [di ciò] sia proprio nei residui di concezione
dell'Eucaristia sul piano dell'efficacia, cioè del potere, potere di
dire una parola che cambia la sostanza delle cose, per cui bisogna essere
investito di uno specifico potere per dire quelle specifiche parole con quella
loro specifica efficacia" (pp. 36-37). Analoga la tesi di Hans Küng che si
domanda, e chiede a teologi e pastori di domandarsi: perché, in casi
eccezionali, in assenza di un sacerdote ordinato, anche un semplice cristiano
non potrebbe celebrare nella sua comunità una vera Eucaristia? (cf. La
Chiesa, Queriniana, Brescia 1967, p. 514).
80/ Tocchiamo, qui, un punto molto delicato. Sappiamo quale sia, in
proposito, la dottrina cattolica ufficiale, come anche le proposte di ricerca e
la prassi "alternativa" di varie comunità in diverse parti del mondo
(per le Comunità di base, cf. Martino Morganti, Eucaristia raccontata.
Prassi e riflessioni delle Cdb italiane, Borla, Roma 1988, p. 278). Non
pretendiamo di poter risolvere sotto ogni aspetto le questioni teoriche e di
fatto connesse ad un tale problema, sovente fonte di sofferenza per le persone
implicate. Ci sembra però significativo che dal mondo teologico si levino delle
voci per ipotizzare: se una comunità cristiana, per questioni di diritto
canonico o di fatto, fosse priva di un sacerdote "ordinato", essa
avrebbe comunque la possibilità di celebrare l'Eucaristia. Infatti, senza
Eucaristia, quella comunità morirebbe. Ma una comunità cristiana viene prima
delle norme canoniche.
81/ Alcuni recenti orientamenti della Curia romana sembrano tuttavia
contrastare del tutto una tale evoluzione. Basti, in proposito, qualche
spigolatura dalla Redemptionis sacramentum, un'istruzione (25 marzo 2004)
della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Per
prevenire scelte etichettate come "abusi", tale dicastero curiale,
guidato dal cardinale Francis Arinze, elenca divieti come questi: "È
vietato usare canoni non approvati dalla Santa Sede" (51); "è vietato
che i fedeli recitino, con il sacerdote, la preghiera eucaristica [il canone],
riservata solo a lui" (n. 52); "è vietato ai laici predicare durante
la Messa" (66); "non è consentito ai fedeli di prendere da sé e
tanto meno di passarsi tra loro di mano in mano la sacra ostia o il sacro
calice" (94).
82/ È giusto, come fa il documento vaticano, sollecitare i fedeli ad
evitare ogni sciatteria (difetto che incombe talora anche sulla nostra comunità,
purtroppo), ma non ci sembra necessario, per questo, sgranare un puntiglioso
ventaglio di proibizioni. Così, dell'insieme dei "no" vaticani appena
elencati, particolarmente insostenibile ci appare la proibizione ai laici di
"predicare" durante la Messa. Di solito, nella nostra comunità un
gruppo a turno prepara un'introduzione alle letture bibliche della domenica; poi
liberamente prende la parola ogni partecipante all'Assemblea eucaristica che lo
desideri. La nostra esperienza trentennale ci ha insegnato che questo modo di
commentare, e attualizzare, le Sacre Scritture, questa indifferibile
"riappropriazione" della Parola confiscata da secoli ai laici e alla
comunità intera, è di fondamentale importanza per una crescita della
consapevolezza ecclesiale di ciascuna persona, per favorire una lettura
personale della Bibbia e per rafforzare la comunità nel suo insieme. Non
vogliamo dire, con questo, che tale prassi sia l'unica possibile, né criticare
chi segue la normativa ufficiale (il sacerdote predica, i fedeli ascoltano senza
poter intervenire); e nemmeno nascondere che la "libertà
d'intervento" può indurre talora ad un certo spontaneismo o a riflessioni
improvvisate. Ciononostante, ci sembra che una celebrazione
"partecipativa" sia da preferirsi ad un'oggettiva riduzione al
silenzio del "popolo di Dio" indotta dalle norme ufficiali.
83/ La Lumen gentium (n. 10, EV I, 312) afferma: "Il
sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico,
quantunque differiscano di essenza e non soltanto di grado, sono
tuttavia ordinati l'uno all'altro; ambedue infatti, ognuno nel proprio modo,
partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo". A prescindere qui dalla
questione del sacerdozio gerarchico (abbiamo già espresso, sopra, i
problemi che essa solleva) non si vede ove l'affermazione conciliare sarebbe
violata o smentita quando una comunità, nella celebrazione eucaristica,
compisse quelle scelte, appena elencate, che la Redemptionis sacramentum considera
"abusi".
84/ Sembra crescere, in certi settori della Curia romana e della
gerarchia cattolica, la tendenza a minimizzare la portata del Vaticano II,
sottacendo le novità conciliari che tentavano di alleggerire il
"clericalismo". Infatti, anche se i documenti della Santa Sede - di
svariato genere - usciti in questi ultimi anni citano sempre l'ultimo Concilio,
in realtà ne danno di solito un'interpretazione restrittiva, e finiscono per
svuotarlo di ogni dinamismo. Semplificando, si potrebbe dire che si tenta di
leggere il Vaticano II alla luce del Concilio di Trento, e non questo alla luce
di quello.
85/ In verità, descrivendo la Chiesa come sacramento, e
cioè come "segno e strumento" dell'amore di Dio per l'umanità, la Lumen
gentium (n. 1, EV, I, 284) ha cercato di superare la
"ecclesiologia giuridica" (la Chiesa come "società
perfetta", ben divisa tra "docente" e "discente", come
trasluce dal Tridentino o comunque dall'interpretazione che ne è stata fatta a
Roma) inserendola nella "ecclesiologia di comunione" (sgorgante dalle
Scritture e dalla Grande Tradizione dei primi secoli). Ma mentre il capitolo II
della Lumen gentium ("Il popolo di Dio") ha il suo asse in
questa seconda prospettiva, il capitolo III ("La costituzione gerarchica
della Chiesa e in particolare l'episcopato") parte dalla prima e, pur con
qualche apertura, in quella rimane impigliato. Per questa ragione - a livello
ufficiale - si è tratta ogni possibile conseguenza dal capitolo III (ma, anche
qui, rafforzando il papato e senza attuare veramente la pur proclamata
collegialità episcopale), e nessuna dal capitolo II. E, infatti, non vi è
alcun organismo che, a livello dell'intera Chiesa cattolica romana, rappresenti
il popolo di Dio, clero e laici, nella varietà dei loro carismi e ministeri. I
"semplici fedeli" non hanno voce in capitolo, nemmeno per la scelta
del loro parroco e del vescovo della loro diocesi; e solo i maschi sono ritenuti
degni del carisma di "governare".
86/ Una delle radici inespresse, ma reali, di tale anomala situazione,
che stride con le esperienze di vita ecclesiale che ci sembrano emergere dal
Nuovo Testamento, è proprio l'interpretare la Messa come sacrificio fatto a
Dio, e il sacerdote come l'unico sacrificatore autorizzato.
Ben diverso, invece, è lo sfondo teorico, e la sua concretizzazione pratica, se
al centro dell'Eucaristia si pone la comunità che, tutta insieme, accoglie dal
Signore l'invito al "Fate questo". La comunità si dà certo, come
anche volentieri accoglie, delle esili strutture, necessarie per vivere in modo
sereno e arricchente e per essere in comunione con le altre comunità; ma, se e
quando non previste dal Signore, tali strutture non sono assolute, ma di per sé
sempre riformabili per venire meglio incontro alle esigenze e ai contesti che
cambiano secondo i tempi e i luoghi. È ben vero che "lo Spirito spira dove
vuole" (cf. Gv 3, 8), ma di solito Egli all'interno della comunità, di
ogni comunità, fa nascere i Suoi doni - i diversi "carismi" - tutti
convergenti verso il bene di tutti. È la comunità che fa il ministro, non il
ministro che fa la comunità: dove "fare" non significa che la comunità
crei o inventi i "carismi" per conto suo e con le sue sole forze, ma
significa che per e nella comunità scende lo Spirito - come a Pentecoste - con
una pioggia di doni per l'utilità della Ekklesìa. La comunità, se è
saggia, "riconosce" tali doni e ne fa tesoro ringraziando il Donatore.
I - La "primogenitura" di Maria di Magdala
87/ In tale prospettiva non si comprende perché le donne siano escluse,
in linea di principio, dalla presidenza dell'Eucaristia. Con le molte e i molti
che già lo hanno detto, anche noi esprimiamo le nostre perplessità sul
"no" pronunciato, in merito, con Paolo VI, dalla Congregazione per la
Dottrina della Fede (dichiarazione Inter insigniores, 15 ott. 1976), e
poi il 22 maggio 1994 ribadito con più impegnativa solennità da Giovanni Paolo
II nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis: "Dichiaro che la
Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l'ordinazione
sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti
i fedeli della Chiesa" (EV 14, 1348).
88/ Naturalmente, se ci fa problema il sacerdozio di mediazione
degli uomini (maschi) - perché solo Cristo può averlo, secondo il Nuovo
Testamento - non possiamo poi desiderare la donna-sacerdote. Del resto,
un'accettazione della "donna-prete" che si basasse sulla dottrina
cattolica ufficiale del sacerdozio, semplicemente aprendolo anche al femminile,
non farebbe che clericalizzare ancor più la Chiesa romana. È ben vero che
forse, nella prassi, una tale ammissione innescherebbe profondi cambiamenti
nella simbologia sacramentaria, nell'organizzazione interna della Chiesa e nel
modo con cui questa vede la sessualità; e perciò comprendiamo i gruppi che si
battono per tale prospettiva. Ma, a nostro giudizio, non è l'ammissione della
donna-prete (né, sull'altro fronte, l'abolizione della legge del celibato
sacerdotale nella Chiesa latina, lasciando immutata la struttura clericale) che
metterà in questione la radice del potere sacro: la strada maestra del
rinnovamento - noi pensiamo - può passare solo per un profondo ripensamento,
biblico e fattuale, dei ministeri ecclesiali, egualmente aperti a uomini
e donne, senza preclusioni basate sul sesso o sullo stato civile. Perciò non
siamo d'accordo con alcune tesi fondanti della Lettera ai vescovi della
Chiesa cattolica sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella Chiesa e nel
mondo, firmata dal card. Ratzinger il 31 maggio 2004 e pubblicata il 31
luglio (testo integrale in Adista, n. 60 del 4 settembre). Infatti, pur
dando talora la sensazione di accogliere le idee del femminismo "non"
radicale, in realtà il testo appare intriso di pensiero universalistico
maschile; ripropone saldamente l'impianto e la mentalità patriarcale della
Chiesa romana; tace sulle cause storiche, teologiche, antropologiche e sociali
che hanno determinato la subordinazione delle donne nella società e nella
Chiesa e la loro esclusione dalla gestione del sacro.
89/ Sappiamo bene che Paolo intima ai Corinti: "Come in tutte le
comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano, perché non è loro
permesso parlare" (I, 14, 34). Però quasi unanimemente gli esegeti oggi
dicono che tale affermazione non voleva essere normativa per tutti i secoli, ma
solo un precetto disciplinare contingente, richiesta da una particolare
situazione (ma vi sono perfino studiosi secondo i quali l'inciso restrittivo non
sarebbe paolino, ma una "glossa" aggiunta da qualcuno per poter meglio
fondare un atteggiamento misogino, o armonizzare la lettera di Paolo con quelle
"pastorali" [cf. sopra n. 51] della fine del primo secolo). In ogni
caso, è invece normativo per sempre quanto l'apostolo afferma nella lettera ai
Galati: "Non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in
Cristo" (3, 28).
90/ Altri esegeti attirano anche l'attenzione sul fatto che, nella
conclusione della lettera ai Romani, Paolo afferma: "Salutate Andronico e
Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono degli apostoli insigni che
erano già in Cristo prima di me" (16, 7). Che significa quell'apostolo riferito
anche ad una donna? È un modo di dire retorico, o contiene qualcosa di
sostanziale? Per lungo tempo, appoggiandosi su alcuni codici, nelle Bibbie si
leggeva Giunio (maschio), tralasciando i codici che parlavano di Giunia
(femmina). Ma oggi quasi tutti gli studiosi ritengono che la parola originale,
nel greco paolino, fosse proprio Iounian, Giunia - così anche la Bibbia
tradotta a cura della Conferenza episcopale italiana.
91/ Ancora: quale era esattamente il compito/carisma di quella Febe che,
sempre nella lettera ai Romani (16, 1), Paolo qualifica come "diaconessa
della Chiesa di Cencre (Corinto)"? Semplice "inserviente"
come sostiene la teologia curiale, o qualcosa che dovrebbe far parte - usando le
categorie della dottrina sacramentaria cattolica ufficiale -
dell'"ordine" del diaconato? E quale funzione esercitavano le due
cristiane che Plinio il Giovane, allora governatore delle province romane della
Bitinia e del Ponto, nella sua famosa lettera scritta nell'anno 112 o 113
all'imperatore Traiano confessa di aver sottoposto a tortura, e che dagli stessi
cristiani erano chiamate ministrae? (cf. Giuseppe Barbaglio, Gesù
ebreo di Galilea. Un'indagine storica, EDB, Bologna 2002, pag. 44).
92/ Un'interpretazione "aperta" del pensiero di Paolo può
essere supportata anche dall'audacia con cui egli mise in discussione, rispetto
ad un Pietro invece più timoroso, la necessità assoluta della circoncisione:
un rito, si badi, ritenuto non inventato dagli uomini, ma stabilito dalla Torah,
la legge di Dio stesso (capitolo 12 del Levitico), e perciò per gli
apostoli, tutti ebrei, dapprima considerato intangibile. Eppure, dopo una
serrata discussione, il cosiddetto "Concilio di Gerusalemme" (verso il
48 dell'era volgare) adottò il rivoluzionario punto di vista di Paolo che non
chiedeva la circoncisione ai pagani che si facevano cristiani. Se Paolo di
Tarso, e poi gli altri apostoli e discepoli, tanto osarono, analogamente ancor
più potrebbero oggi fare le Chiese, mutando una lunga tradizione ecclesiastica
contraria all'uguaglianza di responsabilità di uomini e donne nella comunità
cristiana. E, per fortuna, ormai da alcuni decenni la gran parte delle Chiese
della Riforma hanno cominciato risolutamente a concretizzare, con precisi
cambiamenti istituzionali, tale uguaglianza.
93/ Vi è, del resto, una singolare contraddizione nella Chiesa romana:
essa - come le altre - alla base dell'appartenenza alla Chiesa pone, come
"porta", il battesimo. Ora, dice la teologia ufficiale, attraverso il
battezzatore è Cristo stesso che battezza. Ma, secondo norme da sempre in
vigore, questa persona non è obbligatoriamente un prete, anche se di solito lo
è: in caso di necessità può essere un laico, uomo o donna. Dunque, quando
battezza, anche la donna "agisce in persona di Cristo". Perché mai la
stessa donna può battezzare, ma non presiedere l'Eucaristia? Può agire
"in persona di Cristo" nel primo caso, ma non nel secondo? La teologia
"tradizionale" dovrebbe essere logica: o la donna non può mai battezzare,
perché, come donna, non può mai "rappresentare" Gesù che era un
maschio; oppure essa può anche celebrare e/o presiedere
l'Eucaristia.
94/ La questione donna/sacerdozio e donna/ministeri non poteva non essere
toccata dal BEM. Che, in proposito, rileva: "Le Chiese che praticano
l'ordinazione delle donne lo fanno a motivo della loro comprensione
dell'Evangelo e del ministero. Essa si fonda, per loro, sulla convinzione
teologica profondamente motivata che il ministero ordinato della Chiesa manca di
pienezza quando è limitato a un sesso soltanto… Le Chiese che non praticano
l'ordinazione delle donne ritengono che il peso di diciannove secoli di
tradizione contro tale ordinazione non possa essere messo da parte. Credono che
esistono problemi teologici riguardanti la natura umana e la cristologia che
stanno al cuore delle loro convinzioni e della loro comprensione del ruolo delle
donne nella Chiesa. La discussione di questi problemi pratici e teologici
all'interno delle diverse Chiese e tradizioni cristiane dovrebbe essere
completata da uno studio e da una riflessione comuni nell'àmbito della
comunione ecumenica di tutte le Chiese" (Enchiridion oecumenicum,
op. cit., 3135).
95/ Una riflessione problematica sul sacerdozio e sui ministeri lambisce,
inevitabilmente, il nodo del potere nelle Chiese, e il modo di rappresentare e
nominare Dio (o D*o, una grafia usata da alcune teologhe per sottolineare che
l'Ineffabile non è né maschio né femmina, e comunque per mettere in crisi
l'automatismo Dio=Lui, al maschile). Scrive in un suo libro la teologa della
liberazione brasiliana Ivone Gebara: "La questione del cambiamento del
potere nelle Chiese non è solo concessione di spazi per una partecipazione più
ampia delle donne. Si tratta di una rivoluzione nella comprensione delle
relazioni umane di potere, di una riflessione sulla sua genesi e sulle sue
conseguenze storiche per ricominciare finalmente un altro modo di essere
donna e uomo di fronte al mistero insondabile che siamo, dinanzi alla Fonte
della Vita che ci costituisce e che costituiamo" (Noi figlie di Eva,
Cittadella ed., Assisi 1995, pp. 81-82). E al loro XIII Incontro nazionale
(Frascati, 2002), le donne delle Comunità cristiane di base italiane hanno
rilevato che "nella ricerca che esse stanno affrontando da alcuni anni sul Divino,
per liberarlo dalla gabbia del patriarcato, per dirlo con modalità più consone
alla sensibilità delle donne e degli uomini di oggi e per poterlo quindi
condividere, le parole di Elisabeth Green, teologa battista, sono illuminanti.
Ella dice: 'Come noi tutte sappiamo, il discorso di colui che pretendeva di
parlare in nome di tutti e di tutte a prescindere da genere, età, appartenenza
etnica, orientamento sessuale, posizione socioeconomica e così via, si è
rivelato non solo parziale, ma addirittura di parte'" (Atti XIII
Incontro, Qualevita ed., Torre dei Nolfi-AQ 2003, p. 10).
96/ In questo impegnativo cammino di ripensamento e di conversione, ci
sembra che ogni Chiesa sarebbe aiutata a compiere grandi passi se riflettesse più
profondamente sul capitolo XX del vangelo di Giovanni. Il quale racconta che non
Pietro o l'altro discepolo, "quello che Gesù amava", ebbero per primi
l'apparizione del Resuscitato. La "primogenitura" nel testimoniare una
verità così impensabile, costitutiva della "nuova era" e della
ragion d'essere della Chiesa, messaggio folgorante al mondo, toccò invece a
Maria di Magdala. Essa, una donna, viene mandata a dare il grande annuncio:
"Va' dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro,
Dio mio e Dio vostro". Ed ella "andò subito ad annunziare ai
discepoli: ho visto il Signore". Perciò Tommaso d'Aquino chiamò questa
donna apostola apostolorum (apostola degli apostoli). Oggi, con la nostra
sensibilità, noi osiamo porre una domanda più esplicita: Maria di Magdala, che
ebbe il compito singolare di scuotere i discepoli e gli apostoli testimoniando
loro che Gesù, pur dopo la passione e morte, era il Vivente, potrà mai essere
stata privata dal Signore della possibilità del "Fare questo" in
memoria di Lui, e di spezzare il pane dell'Eucaristia?
III/ "DACCI IL NOSTRO PANE DI OGNI GIORNO"
97/ La nostra "carrellata" di queste pagine non è solitaria:
infatti, abbiamo espresso non solo idee o prassi della nostra Comunità, ma
abbiamo raccolto, e guardato in filigrana, valutazioni e prospettive che salgono
da molte parti, e modi di celebrare l'Eucaristia che si diffondono sempre di più
nei cinque Continenti. Il prossimo Sinodo dei vescovi potrebbe misurarsi con
queste realtà, o prendere da esse le distanze, o bollarle come
"abusi", o semplicemente ignorarle. Noi ci auguriamo che l'Assemblea
di ottobre guardi ad esse con benignità.
98/ Infatti, se si va alla sostanza dell'evangelo, non dovrebbe essere
troppo difficile accettare prassi e prospettive teologiche che, per quanto
diverse tra loro, sottolineano questo o quell'aspetto di una Realtà che
comunque ci sorpassa tutti, perché attinge l'Ineffabile (D*o, "non
dicibile"); e che concordano sull'annuncio fondamentale: il Vangelo ci
conferma che l'Eterno, nella sua misericordia e nell'amore per le sue creature,
si è fatto Emanuel, Dio-con-noi. D'al-tronde, se diciamo che
l'Eucaristia, per certi aspetti, tocca il mistero di Dio, non dovremmo poi avere
la pretesa di poterla spiegare completamente in ogni suo singolo aspetto, o
incapsularla dentro categorie filosofiche e teologiche presentate come degli
occhiali indispensabili per penetrare oltre il visibile.
99/ Partendo da quanto scrive Paolo ai Corinti (nel passaggio cruciale di
I, 11 [cf. n. 13]), e dal fatto che il quarto evangelo ignora, nell'ultima cena
di Gesù, la "istituzione" dell'Eucaristia, ma narra invece la lavanda
dei piedi, la citata (al n. 32) lettera apostolica Mane nobiscum Domine
elenca "le tante povertà del nostro mondo" che le comunità
cattoliche, soprattutto durante l'"Anno dell'Eucaristia", dovrebbero
cercare di lenire: "il dramma della fame che tormenta centinaia di milioni
di esseri umani, le malattie che flagellano i Paesi in via di sviluppo, la
solitudine degli anziani, i disagi dei disoccupati, le traversie degli
immigrati. Non possiamo illuderci: dall'amore vicendevole e, in particolare,
dalla sollecitudine per chi è nel bisogno saremo riconosciuti come veri
discepoli di Cristo (cf. Gv 13, 35; Mt 25, 31-46). È questo il criterio
in base al quale sarà comprovata l'autenticità delle nostre celebrazioni
eucaristiche" (n. 28).
100/ Parole, queste, che bene illuminano come debba essere una
"coerente" Cena del Signore. Nella stessa linea di pensiero, ci sembra
che una più attenta consapevolezza nel proclamare il Padre nostro potrebbe
aiutarci nel saldare ogni celebrazione eucaristica con il suo inveramento nella
nostra vita. Nella preghiera che Gesù di Nazareth ci ha insegnato si
fondono perfettamente il riconoscimento della Signoria di Dio - un Dio amoroso -
e l'attenzione ai nostri problemi quotidiani, concreti, anche economici:
"Sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà";
e, poi: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri
debiti, non ci indurre in tentazione, liberaci dal male".
101/ Quel pane è proprio il pane che - allora - faceva in casa ogni
massaia d'Israele, il pane che faceva anche Maria di Nazareth nella sua
famiglia: dunque è la richiesta di poter mangiare per vivere. Una richiesta
"materialista", niente affatto romantica o spiritualista. Il pane era
allora - e in molte parti del mondo lo è ancor oggi - il cibo fondamentale dei
poveri. Chi non aveva (ha) nemmeno il pane, almeno il pane, o il cibo che in una
data cultura è ciò che nel bacino mediterraneo rappresenta il pane, era (è)
destinato a morire di fame. Ma la preghiera non dice "il mio pane";
dice "il nostro pane". Dunque, "Dacci il nostro
pane di questo giorno" significa che ciascuno e ciascuna di noi deve essere
bene attento a non badare solo alla sua fame; deve nel contempo essere vigile e
aver cura perché anche l'altro, e soprattutto il povero, possa nutrirsi.
Altrimenti diventa bestemmia e sacrilegio pregare il Padre nostro e
celebrare la Cena del Signore. In altri termini: l'Agape eucaristica che
non sbocchi poi in agape concreta (=condivisione reale) è contraffazione
di una Eucaristia autentica.
102/ E perché quel "Dacci il pane" non suoni come attesa
oziosa demandando a Dio di fare tutto, e di risolvere automaticamente i nostri
problemi, Gesù subito aggiunge: "Rimetti i nostri debiti come noi
li rimettiamo…". Perché il Padre non riserva a Sé la misura del suo
dare sovrano ma, in qualche modo, l'affida a noi: tanto quanto noi rimetteremo,
Lui rimetterà; tanto quanto noi non rimetteremo, Lui non rimetterà.
Ciò vale per i debiti personali e per i debiti collettivi, per ogni cristiano e
per le Chiese come tali. L'onere della prova è rovesciato su di noi. Questo,
forse, è il "potere delle chiavi" di cui parla Matteo (16, 19) e a
cui lo stesso evangelista accenna in 18, 18. Infatti - come ci ricorda Dietrich
Bonhoeffer, teologo luterano martirizzato dai nazisti - Dio non è un
Tappabuchi. Ma è un Dio esigente: e dunque (Matteo 5, 23-24) Gesù ci ricorda
che non saremmo credibili di fronte al Padre se chiedessimo a Lui quel perdono
che però noi non riusciamo ad offrire a chi ci ha offeso. E perciò il Nazareno
ci invita (il che vale per i singoli cristiani ma forse anche per le Chiese) ad
interrompere "l'of-ferta sull'altare" - e cioè un rito, per quanto
solenne - per andare, prima e subito, a riconciliarci con il fratello, al fine,
allora sì, di poter poi proseguire pacificati nell'offerta del nostro dono
sull'altare.
103/ Ancora: "Dacci il pane quotidiano". Non mucchi di
pane che si possono accumulare per giorni, ma il pane di questo giorno; ogni
giorno noi dobbiamo pregare per il dono del pane (o per il cibo
equivalente), e dunque per il nostro singolo ed ecclesiale impegno per fare,
spezzare, condividere questo pane. Domani… si ricomincerà di nuovo a fare il
pane, a condividerlo in solidarietà. Analogamente a quanto accadeva per la
manna: il Signore - nel racconto, ovviamente simbolico, di Esodo c. 16 e Numeri
c. 11 - faceva scendere dal cielo questo cibo, ogni giorno (Sabato escluso), per
la quantità sufficiente per quel giorno; se qualcuno, diffidente della
provvidenza del Signore, ne faceva avanzare una parte per l'indomani, questa
generava vermi e imputridiva. La preghiera insegnataci da Gesù non accenna a
non "accumulare" il pane, ma va in quel senso: un senso alto e
profondo di affidamento alla Provvidenza e, nel contempo, di
responsabilizzazione personale ed ecclesiale. Ci spinge insomma - per usare
ancora un'espressione di Bonhoeffer - a "stare dinanzi a Dio come se Dio
non ci fosse". I cristiani, allora, dovrebbero immergersi pienamente e
laicamente nella storia per contribuire a dare ad essa senso, però non
presumendo di avere in tasca tutte le soluzioni degli enormi, e spesso inediti,
problemi etici, sociali e geopolitici che incombono sul mondo, ma ricercandole
umilmente insieme a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà.
104/ "Dacci il nostro pane…". Con questo nostro
decisivo - sbarramento invalicabile che denuda nella sua contraddittorietà ogni
celebrazione eucaristica solo rituale e vuota o, peggio, convocante come nulla
fosse i carnefici non pentiti accanto alle loro vittime - Gesù ci ha consegnato
una parola oggi più importante che mai. Proprio oggi, infatti, le teorie della
"guerra infinita e preventiva" contro il terrorismo, identificato
peraltro spesso con l'Islam o con un Paese tout court; quelle della
"insindacabilità" delle scelte dell'impero economico e militare
dominante; quelle della legittimità di sfruttare e di violare impunemente
l'ecosistema della Terra Madre per il vantaggio economico di pochi e potenti;
quelle della "non-discutibilità" del modello di sviluppo capitalista
che, nell'era della globalizzazione, fonda le sue fortune sull'affamamento di
gran parte dei popoli del mondo (inutili "esuberi"); quelle della
intangibilità non solo del debito estero che i Paesi del Sud hanno verso quelli
del Nord, ma anche dell'interesse sul debito che dissangua le economie di quei
Paesi (o, forse, dopo lo tsunami che il 26 dicembre 2004 ha
spaventosamente devastato il Sud-Est asiatico, il Nord avrà una qualche
resipiscenza in proposito, almeno verso i Paesi indebitati, colpiti dalla
recentissima sventura?); quelle della superiorità della razza bianca e della
religione cristiana; quelle della liceità di accaparrarsi i beni comuni (Common
Goods) della terra e dello spazio escludendo da questa corsa i popoli che
non siano tecnicamente in grado di parteciparvi… tutte queste teorie (e
prassi!) partono esattamente dalla negazione dell'unità della famiglia umana.
Pare non esservi all'orizzonte politico ed etico dei Gruppi Multinazionali e dei
Paesi del Nord - con l'eccezione di crescenti settori - nessun nostro (comune)
pane; ma solo il nostro (ristretto): quello del club, limitato ed
esclusivo, degli arricchiti.
105/ Non sarà l'Eucaristia, da sola, a risolvere questi problemi immani
e queste ingiustizie planetarie: se essa avesse una tale potenza, già da
duemila anni avremmo sulla terra il regno della giustizia e della pace! Se tale
regno, con ogni evidenza, non c'è ma, anzi, oggi più che mai - da Baghdad a
Gerusalemme, da Kinshasa a Grozny - oscuro è l'orizzonte del mondo, ciò
dipende, secondo i credenti, dal fatto che Iddio ha lasciato agli uomini e alle
donne la responsabilità di costruire la pace nella giustizia. E la storia
dimostra che, anche tra i cristiani depositari del dono della Cena del Signore,
se tanti e tante hanno coerentemente vissuto il "Fate questo", molti
altri e altre invece lo hanno tradito. Perché l'Eucaristia può essere vissuta
come alienazione e dismissione dalle proprie responsabilità nella storia, e
vernice che copre i nostri misfatti; o, al contrario, come spinta possente che
mette le ali per contribuire a spezzare ogni catena che soffochi la dignità
umana e il cammino verso la liberazione. Questa duplice ed opposta possibilità
si dà perché il Regno di Dio c'è e non c'è. C'è già ("Il regno dei
cieli è vicino"; "Il regno di Dio è in mezzo a voi", disse Gesù
- Mt 3, 2; Lc 17, 21) e si fa intravedere, come un lampo nella notte, ogni volta
che sulla terra vi sia chi opera per la giustizia e per la pace, chi perdona,
chi accarezza un povero e condivide ciò che ha con lui, chi compie un gesto
d'amore. E viene occultato ogni volta che vince la violenza, la guerra, il
terrorismo, l'odio, l'abbandono dei derelitti al loro destino, la religione come
copertura della prepotenza e dell'avidità, l'invocazione del nome di Dio per
"santificare" l'assassinio.
B - Il "digiuno" eucaristico
106/ Di fronte a tali stridenti contraddizioni, e mentre l'Eterno sembra
tacere impenetrabile pur dinanzi alle molte preghiere che invocano da Lui la
pace, ma la violenza continua a dominare, ci sembra che il "digiuno
eucaristico" sia un grido, un atto di pentimento corale che ogni tanto ci
obbliga a fare i conti con le nostre pigre, assonnate e alienanti Eucaristie.
Perciò, nel nostro piccolo, talora l'abbiamo fatto. Così, mentre si consumava
il dramma di Srebrenica - espugnata l'11 luglio 1995 dalle truppe
serbo-bosniache, provocando un massacro di civili e un esodo di massa della
popolazione musulmana - la domenica seguente, il 16 luglio, la nostra Comunità
decise di fare il "digiuno eucaristico" come gesto estremo per dire
"no alla guerra" e, ancor più, "no alla guerra in nome di
Dio".
107/ Ma, in merito, qui vogliamo citare un evento più rilevante. Il
giorno dell'Epifania del 2003, convocati da missionari comboniani, Pax Christi e
altri gruppi pacifisti cattolici invitarono i fedeli di Bari a "non andare
alla Messa", ma a recarsi tuttavia in una chiesa proprio per riflettere sul
senso di questo singolare "digiuno" che avveniva in un preciso
contesto geopolitico: si avvicinava l'inizio della "guerra preventiva"
contro l'Iraq (sarebbe poi scoppiata due mesi dopo). Un volantino diffuso per
l'occasione diceva: "Noi missionari, presenti in molti Paesi in guerra e
testimoni della sofferenza che un sistema profondamente ingiusto e di opulenza
genera, ci sentiamo profondamente turbati e rinunciamo a celebrare la nascita
del Principe della pace in un clima di complicità nell'ingiustizia e di guerra
nei confronti del Sud del mondo". L'evento di Bari suscitò contrastanti
reazioni ecclesiali: tanti cattolici, religiosi e laici, parlarono di atto
"profetico"; altri si lasciarono interrogare, stretti tra la simpatia
e il dubbio; l'ufficialità lo qualificò come "gesto che crea
disorientamento e confusione in molte persone".
108/ A noi pare comunque che sarebbe stato davvero un gesto profetico e
dirompente se domenica 23 marzo 2003 - tre giorni dopo l'inizio dell'attacco
anglo-americano contro Baghdad, attacco compiuto al di fuori della legalità
internazionale e contro le risoluzioni dell'Onu - le Chiese cristiane nel mondo
(la cattolica e le anglicane, le ortodosse e le luterane, le riformate e le
pentecostali…) avessero appunto invitato i loro fedeli a fare il "digiuno
eucaristico". Un'iniziativa tanto più significativa per il fatto che tutti
i capi di Stato e di governo nordamericani ed europei favorevoli a quella guerra
erano, formalmente, cristiani.
C - "Siamo tutti mendicanti"
109/ Certo, i mali e le contraddizioni del mondo sono così grandi, e
anche le colpe e responsabilità storiche di noi cristiani e delle nostre Chiese
così evidenti che… mai si potrebbe celebrare degnamente la Cena del Signore,
e perciò il "digiuno eucaristico" dovrebbe essere l'unica possibilità
rimastaci. Ma, dicevamo, Gesù ci invita alla Sua mensa non per premiare la
nostra giustizia, ma per donarci la sua salvezza. L'abitudine e l'assuefazione
ci portano però, quasi inevitabilmente, a offuscare la consapevolezza di che
cosa significhi il "Fate questo". Perciò, talora, lo shock del
"digiuno eucaristico" può farci del bene. Stiamo lontani un momento
dall'Eucaristia proprio per poi tornare, ad essa convocati dall'Alto, a
celebrarla il meno indegnamente possibile.
110/ Tutte le Chiese (come il mondo con tutti i suoi abitanti,
naturalmente), come pure le nostre persone e la nostra Comunità, sono sempre
ricoperte dal manto della misericordia di Dio che rifulge nel dono della sua
Parola e dell'Eucaristia; ma su di esse pende anche il Suo giudizio: Egli valuta
che cosa ne facciamo della Cena del Signore, e se, e come viviamo
coerentemente con la comunione con Lui, con la condivisione da lui attesa, e con
la Parola da Lui annunciata. E perciò, terminando queste nostre riflessioni,
l'augurio che facciamo ai fratelli e alle sorelle di tutte le Chiese, e a noi
stessi, è che riusciamo ad esprimere con sincerità - analogamente al
centurione romano che chiedeva a Gesù di guarire il suo servo (cf. Mt 8, 8) -
l'invocazione che la liturgia romana pone come premessa alla comunione
eucaristica: "Signore, non sono degno di partecipare alla Tua mensa, ma di'
soltanto una parola e io sarò salvato". Perché, come in punto di morte
lasciò scritto su un bigliettino Martin Lutero, pensando alla salvezza e alla
grazia che viene da Dio: "Wir sind Bettler; hoc est verum" -
"Siamo mendicanti; questa è la verità".
Roma, 30 dicembre 2004
La Comunità cristiana di base di san Paolo