Da
“Missione Oggi” febbraio .2005
Un famoso pianificatore del Pentagono (Ralph Peters, colonnello dell’Esercito americano durante gli anni ‘80 e ‘90, ndr), ha affermato che il fine delle Forze armate degli Stati Uniti sia quello di rendere il mondo sicuro per favorire l’interesse commerciale e l’offensiva culturale americana, aggiungendo: “Toward this end there will be a fair amount of killing” (“Per questo scopo avremo un numero non trascurabile di morti”).
Per questo, a partire dal secondo dopoguerra, in seguito a 70 interventi militari, gli Stati Uniti si sono resi colpevoli della morte di un numero di persone compreso tra 12 e 16 milioni.
Io non sono antiamericano: sono contro l’imperialismo americano, e quindi contro la guerra che provoca. Nel 1980 ho sviluppato una teoria sulla fine dell’impero sovietico che aveva come fondamento la “sinergia delle contraddizioni sincronizzate” e che prevedeva il crollo dell’Urss entro 10 anni, preceduto dalla caduta del muro di Berlino. Nell’ex-Unione Sovietica erano presenti sei contraddizioni sincronizzate: quella tra l’Unione Sovietica stessa e gli Stati satelliti, tra la nazione russa e le altre nazioni dell’impero, tra aree urbane e rurali, tra borghesia socialista e classe operaia socialista, tra liquidità e mancanza cronica di beni di consumo, tra miti e realtà. E’ possibile che un sistema possa dominare con le baionette una contraddizione, ma quando tutte crescono e tra di loro si crea una sinergia, allora bisogna cambiare il sistema per evitarne il crollo.
Due mesi prima rispetto alla mia previsione, nel novembre del 1989, è stato abbattuto il muro di Berlino; subito dopo si è smembrato l’impero sovietico. Al momento gli Stati Uniti hanno ben 15 contraddizioni. Cinque anni fa, nel 1999, ho azzardato che l’impero americano non sarebbe andato oltre il 2025. Da quando è stato eletto Bush, ho ridotto di cinque anni questa previsione: nelle teorie sistemiche ciò si chiama “acceleratore di sistema”.
Quando tra quindici o venti anni un presidente americano dichiarerà alla televisione che gli Stati Uniti ritireranno le proprie truppe di occupazione, elimineranno tutte le loro basi militari dislocate all’estero, e parteciperanno alle Nazioni Unite come uno Stato uguale a tutti gli altri, allora potremo prevedere due cose: o che toglieranno il collegamento durante il suo intervento, o che ci sarà un golpe militare fascista. Ciò è possibile. Siamo stati vicino a questo negli anni ‘30, durante la presidenza Roosevelt.
Ciò che dobbiamo fare fin da ora, è insegnare al popolo americano i valori dell’uguaglianza, far capire loro che non esistono popoli scelti, che viviamo tutti sullo stesso pianeta e che insieme possiamo migliorare le cose. Per fare questo c’è bisogno dell’Onu, non dominata da una sola potenza e nemmeno da un Consiglio di sicurezza dotato di poteri esclusivi.
· Gli americani non colgono il nesso strettissimo tra economia e guerre.
Sono convinto che negli Usa ci sia bisogno di un processo pubblico di verità e riconciliazione. E’ importante ricordare che l’emancipazione dei cittadini tedeschi dall’eredità del passato nazista è avvenuta proprio in seguito a un percorso analogo che essi hanno compiuto non soltanto grazie all’ammissione delle proprie colpe, ma anche grazie alla pubblicazione di testi scolastici in cui la parola “Auschwitz” ricorre molto spesso. In questo modo le generazioni che si sono succedute hanno avuto la possibilità di capire e di imparare. Una scossa positiva negli Stati Uniti favorirebbe il processo di liberazione che sta avvenendo, ad esempio, in America latina, processo che vedo destinato a sfociare nella costituzione degli Stati Uniti dell’America latina, una nuova entità istituzionale e politica, ma senza la bomba atomica.
· Un modello federativo per Africa e M. Oriente
L’idea di Abramo di indicare una terra promessa per un popolo eletto è interessante, ma, come dicono gli arabi, nessuno ha firmato questo patto, né esiste una registrazione o un rapporto stenografico che lo attesti. Credo nella legittimità dell’esistenza di uno Stato israeliano e di uno palestinese, ma non ritengo che la soluzione dei “due popoli, due Stati” sia la migliore. Oltre a un “bilancio militare” esiste anche un “bilancio di pace”. Israele è troppo forte, la Palestina troppo debole. Dovremmo piuttosto pensare a un modello federativo, a creare cioè una comunità di Paesi mediorientali, di cui facciano parte uno Stato palestinese riconosciuto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Egitto, e in cui proprio le nazioni arabe possano rappresentare un legittimo contrappeso rispetto a Israele.
Dopo mille anni senza traccia alcuna di una cultura delle sinergie, questa soluzione permetterebbe, sul modello della Comunità europea del 1958, l’affermazione di un’economia cooperativa, confini aperti per la libera circolazione delle persone, oltre che degli investimenti, nell’intera regione. Del resto, la pace in Europa occidentale non si è fatta sulla base di un trattato tra Germania e Lussemburgo. E’ stato creato un contrappeso alla Germania, ed esso era rappresentato da Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia e Italia.
Ho tenuto moltissimi seminari, conferenze, incontri in Medio Oriente, e ho accumulato una lunga esperienza da cui ho tratto insegnamenti preziosi.
Occorre agire dal basso, coinvolgendo in modo ampio e costante quante più persone e gruppi possibili della società civile della regione, perché discutano tra loro sul Medio Oriente in cui vorrebbero vivere. La pace sta nel futuro, non in un dibattito senza uscita sulle colpe del passato.
Il modello federativo che ho proposto per il Medio Oriente vale anche per l’Africa centrale. Qui, dove è molto forte il peso dell’imperialismo europeo, vedo infatti la possibilità della costituzione di una confederazione bioceanica che comprenda Tanzania, Uganda, Rwanda, Burundi, Rd Congo e Congo Brazzaville. Parlo di una confederazione con confini aperti, dall’Oceano Indiano all’Oceano Atlantico, attraversata da una ferrovia, a patto che non venga costruita dagli europei: essi non conoscono la direttrice Est-Ovest, ma solo quella Nord-Sud. Ciò rappresenta il loro “crimine geografico”. Il Sudafrica ha già fatto questo. Per quanto riguarda, inoltre, l’intero continente, dobbiamo sostenere con forza il processo di unità africana, fortemente osteggiato da Europa e Stati Uniti. Noi occidentali non abbiamo alcun diritto di mantenere le divisioni, ma solo il dovere delle scuse, della ricompensa e della verità nei confronti delle popolazioni africane che abbiamo colonizzato e sfruttato.
· La terza guerra mondiale
Spostiamoci ora nella zona più delicata del mondo, quella che comprende Cina, India e Russia. Proprio qui gli Stati Uniti stanno preparando la terza guerra mondiale. Gli strateghi americani della Casa Bianca e del Pentagono seguono una dottrina imperiale concepita da un geografo britannico nei primi anni del ‘900, e che si può sintetizzare così: chi domina l’Europa orientale domina l’Asia centrale; chi domina l’Asia centrale domina l’isola mondiale (cioè la regione che comprende Europa, Asia e Africa); chi domina l’isola mondiale domina il mondo.
Questa tesi, evidentemente folle, gode di grande considerazione a Washington. Essa viene riproposta nientemeno che nel più importante documento che attesta l’attuale linea geopolitica americana, il documento JCS570/2. Questo rappresenta la risposta all’interrogativo di Roosevelt riguardo a quale linea di politica estera avrebbero dovuto tenere gli Stati Uniti dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. L’esigenza era quella di rendere il mondo sicuro per i commerci americani. A questo scopo furono individuate tre aree geografiche su cui imporre un rigido controllo: l’Europa occidentale, l’Asia orientale e l’America latina del nord. Il progetto fu concretizzato e formalizzato attraverso la sigla di tre distinti trattati militari, rispettivamente la Nato, l’Ampo e il Tiap. Tornando alla regione di Cina, India e Russia, appare subito evidente che essa presenta il 40% dell’intera popolazione mondiale e che si situa precisamente nel bel mezzo dell’espansione della Nato, da una parte, e dell’Ampo dall’altra. Se a questo poi aggiungiamo che gli Stati Uniti stanno prendendo il controllo della regione grazie alla costruzione di numerosi avamposti militari, ad esempio nelle repubbliche islamiche dell’ex-Unione Sovietica, e che i tre Paesi in questione prevedibilmente raggiungeranno un accordo per il controllo comune della zona, avremo tutti gli elementi per comprendere la delicatezza della situazione.
L’idea poi di fare dell’Afghanistan e dell’Iraq due Stati unitari è un’illusione occidentale. Sul territorio iracheno convivono quattro nazionalità: curda, turcomanna, sunnita e sciita. Su quello afghano ben undici. Un modello federale è l’unica alternativa praticabile per questi due Paesi.