BUSH ALLA GUERRA: È LA VOLTA DELL’IRAN?
NON TUTTO È PRONTO PER LA NUOVA AVVENTURA, MA MOLTO È
GIÀ STATO FATTO PER PREPARARLA. MANCA ANCORA IL CASUS BELLI, MA FRA CAMPAGNA
MEDIATICA SUL NUCLEARE IRANIANO, MANOVRE MILITARI E RUOLO DI ISRAELE,
L’OBIETTIVO SEMBRA IDENTIFICATO
di Giulietto Chiesa
da L’Ernesto di dicembre-novembre 2004
Venerdì 27 agosto 2004 la CBS rivela l’avvio di un’inchiesta
su una talpa all’interno del Pentagono che avrebbe fornito informazioni e dati
molto sensibili ai servizi segreti israeliani...
Si dice trattarsi di un funzionario di medio livello, ma il nome non emerge.
Sarà il Washington Post, due giorni dopo, a rivelare il nome della talpa
israeliana: Larry, cioè Lawrence A. Franklin. In realtà, come scopriremo tra
poco, Larry non è affatto un funzionario di medio livello, ma uno degli
aiutanti in campo di Paul Wolfowitz, uno dei falchi dell’Amministrazione Bush,
vice-segretario alla Difesa e parte del gruppo che fa capo ad altri due potenti
neocon come Douglas J. Feith, sottosegretario alla Difesa, e Abram Shulsky,
entrambi impegnati nell’Office for Special Plans, incaricato di orientare i
media nella preparazione alla guerra.
Chi ha dato l’informazione a CBS e Washington Post non lo sapremo né presto né
tardi, ma appare subito evidente che è in corso un’operazione di
smascheramento guidata da altri ambienti del Pentagono e, probabilmente, della
CIA e del Dipartimento di Stato. Gli uni e gli altri, insieme ad ambienti legati
al Partito Democratico, avevano buone ragioni per temere sviluppi sgraditi.
Settori militari già scottati dalla preparazione e conduzione della guerra
secondo le modalità imposte da Donald Rumsfeld; alti livelli della CIA, a loro
volta costretti a pagare prezzi per errori commessi da altri: è da lì,
sicuramente, che escono le rivelazioni anonime. Ma l’odore di manovra politica
non diminuisce la gravità delle rivelazioni. L’essenziale è sapere che c’è
molto arrosto dietro quel fumo.
In realtà i due grandi organi d’informazione americani sono arrivati con
grande ritardo su una pista che già era stata individuata sul web. Il 6 giugno
il giornalista We b s t e r Griffin Tarpley aveva già individuato in Lawrence
Franklin in un articolo intitolato “Rogue Bush Backers Prepare Super 9/11
False Flag Terror Attacks”,1 dove veniva indicato lo scopo del lavoro della
talpa e del gruppo di cui essa faceva parte: “espandere la guerra a paesi
vicini, in particolare l’Iran”.
In quel momento, nell’avvicinarsi delle elezioni presidenziali americane,
l’idea sembrava quella di una “sorpresa di ottobre”, da cucinare a uso e
consumo elettorale. Nelle intenzioni avrebbe dovuto costituire un detonatore
sufficientemente potente da innescare un’esplosione.
Come minimo elettorale. L’ipotesi di Tarpley era che una rete di funzionari
direttamente legati ai neocon stesse predisponendo le pre-condizioni per far
scattare una provocazione che avrebbe potuto, a sua volta, invischiare gli Stati
Uniti in una guerra con l’Iran.
Come? Con un attacco preventivo dall’aria sugl’impianti nucleari iraniani.
Compiuto da chi? L’ipotesi di lavoro è nelle cose. Larry Franklin lavorava
per Israele. Naturalmente la questione (come è sempre, senza eccezione, in
questi casi) richiedeva un casus belli per motivare l’offensiva.
E qui il gruppo Wo l f o w i t z - Feith-Shulsky era proprio il centro operativo
necessario, anche se non sufficiente. Era questo lo stadio in cui Franklin viene
colto con le mani nel sacco: la preparazione dell’o ccasione e la sua
copertura mediatica.
Il contorno dei fatti mediatici conferma del resto con assoluta puntualità
questa ipotesi di lavoro. Tutti i media conservatori americani legati al Partito
Repubblicano stavano infatti battendo da oltre un anno la grancassa iraniana; i
toni si erano venuti accentuando con la ripresa delle ostilità sul territorio
iracheno e mesi dopo la dichiarazione di vittoria, di “missione compiuta”,
dispiegata dal presidente in persona a bordo di una portaerei americana nel
Golfo Persico. Chi lavora al nuovo progetto bellico si propone di rovesciare le
sorti mediatiche, riportando l’Amministrazione all’offensiva. Chi rivela il
retroscena vuo- le mettere in difficoltà il progetto, bloccarlo e costringere
sulla difensiva Rumsfeld e Wolfowitz, Bolton e Condoleeza.
In effetti è probabile che nulla sia accaduto di più grave, prima delle
elezioni, e che George Bush & Company abbiano dovuto accontentarsi della
molto tempestiva apparizione in extremis di Osama bin Laden per racimolare i tre
punti percentuali necessari per vincere, proprio perchè ad agosto scoppiò il
caso di Franklin e costrinse i manovratori a schiacciare il pedale del freno.
Ma l’analisi dei dati dice che il progetto non è stato accantonato, e indica
che le intenzioni del gruppo di cospiratori sono assai precise e hanno una
evidente valenza strategica. Se ciò che progettavano si fosse realizzato prima
del voto di novembre, il risultato elettorale di Bush sarebbe stato assicurato.
Ma non si mette in moto una macchina del tipo che descriveremo tra poco solo per
vincere una campagna elettorale. Così come si può essere certi che chi
organizzò l’11 settembre non stava concependo soltanto un atto colossale di
terrorismo, ma stava organizzando un cambio di marcia per l’intero pianeta.
Allarme esagerato? Ai fresconi di turno – assai numerosi nella categoria
giornalistica – che a questo punto si affanneranno a denunciare la
dietrologia, suggeriamo di pazientare un attimo e di leggere con attenzione fino
in fondo. I primi a non prendere sottogamba queste informazioni sono infatti
proprio i dirigenti iraniani. Il 18 agosto, una settimana prima delle
rivelazioni della CBS e del Washington Post, il ministro della difesa iraniano,
Ali Shamkani, dice ad Al Jazeera: “Noi non staremo ad aspettare ciò che altri
si preparano a farci”. E precisa: “Alcuni comandanti militari in Iran sono
convinti che le operazioni preventive, di cui gli americani parlano, non sono un
loro monopolio”2. Cioè comunica, sebbene ellitticamente, e attribuendolo a
comandanti militari nervosi: state attenti, perchè se ci accorgiamo che state
per attaccare, allora potremmo essere noi ad attaccarvi per primi.
A chi si rivolge Shamkani?
Sicuramente, in primo luogo ad Israele. E in secondo luogo agli Stati Uniti. I
missili iraniani non possono raggiungere gli Stati Uniti, ma possono colpire
Israele. E possono colpire anche, come vedremo, le forze aeronavali americane
impegnate nel Golfo, e che lo sarebbero su scala di gran lunga maggiore in caso
di guerra con l’Iran. Vedremo tra poco che l’Iran non è armato dei vecchi e
imprecisi Scud di derivazione sovietica: ne ha molti e molto più moderni; non
più sovietici ma russi. Il che, tra le altre cose, dovrebbe indurre a un
maggiore scetticismo tutti gli entusiasti che interpretano in modo univocamente
amichevole i sorrisi di Vladimir Putin mentre incontra George Bush.
Ma tornando ad Ali Shamkani, sarà utile ricordare che il ministro della Difesa
iraniano parlava ad Al Jazeera il giorno dopo il discorso tenuto da John Bolton
(sottosegretario di Stato per il controllo degli armamenti e la sicurezza
internazionale) nelle aule dell’Hudson Institute di Washington. Il nocciolo
del discorso di Bolton è contenuto in questa frase, con la richiesta imperiosa
di portare il dossier del nucleare iraniano di fronte al Consiglio di Sicurezza
dell’ONU: “Noi non possiamo permettere che l’Iran, uno sponsor tra i
principali del terrorismo internazionale, si procuri armi nucleari e i mezzi per
farle arrivare sull’Europa, sua gran parte del Medio Oriente e dell’Asia
Centrale, o addirittura oltre”.
Di nuovo non viene nominato Israele, e anzi si parla in modo da distribuire la
paura su un vasto numero di potenziali alleati, ma è chiaro che Israele è
incluso tra coloro che devono avere paura.
Condoleeza Rice – che ora, a totale scorno degli ottimisti che si aspettano
una svolta multilateralista della seconda Amministrazione Bush, va a guidare il
Dipartimento di Stato al posto di Colin Powell – aveva ripetutamente sollevato
il problema, con toni perfino più accalorati di quelli di John Bolton, nelle
ultime riunione del Consiglio per la Sicurezza nazionale da lei allora guidato.
E a Teheran certo non potevano non avere notato l’articolo che Charles
Krauthammer aveva pubblicato sul Washington Post 3: “La rivoluzione (in Iran,
ndr) che noi attendiamo da lungo tempo non sta avvenendo. E ciò rende sempre più
urgente la questione di un attacco preventivo. Se nulla sarà fatto, allora un
regime fanatico e terrorista, che non fa mistero di voler distruggere il Grande
Satana, disporrà sia di armi nucleari che di vettori per portarle sugli
obiettivi. La scelta che noi abbiamo di fronte è questa: o una rivoluzione o un
attacco preventivo”. Poichè tutti sanno che Krauthammer va a cena tutte le
sere con i Repubblicani e con alti funzionari del Pentagono, il segnale non
poteva essere più esplicito.
Torniamo allora alla t a l p a L a r ry Franklin. Che aveva fatto di tanto
grave? Aveva “passato” ai servizi segreti israeliani, per i quali lavorava,
oltre a collaborare con Paul Wolfowitz, una serie di importanti, anzi cruciali
documenti riservati. Vi erano connessi diversi “affari” poco puliti, come
quello di Va l e r i e Plame, quello Chalabi, quello dell’uranio che Saddam
avrebbe tentato di comprare nel Niger. La talpa – secondo un ex agente della
CIA intervistato dalla CNN – aveva potuto scavare direttamente negli uffici
della Sicurezza nazionale, del Pentagono e della CIA. Con una certa dose di
probabilità era stato proprio Larry Franklin a far sapere a un giornalista che
Valerie Plame era un’agente della CIA. Un funzionario del Pentagono che rivela
un segreto del genere non è cosa così frequente. Tanto più se la spia che
viene così smascherata è anche la moglie di un ambasciatore. Si trattava di
una vendetta, infatti, scatenata contro Joseph Wilson, ambasciatore americano
che si era rifiutato di avallare (dopo aver verifi- cato, per incarico ufficiale
dell’Amministrazione USA) la notizia, falsa, che l’Irak di Saddam Hussein
aveva cercato di acquistare una partita di ossido di uranio (yellowcake uranium)
nello stato africano del Niger. Serviva per sostenere la tesi che Saddam aveva,
o stava per avere, l’arma nucleare.
In realtà l’intera faccenda era risultata – come Wilson aveva potuto
accertare andando di persona a Niamey, la capitale del Niger – una grossolana
falsificazione. Ma, mentre Wilson comincia a rendere nota la bugia dell’ossido
di uranio del Niger, ecco che qualcuno, dall’interno del Pentagono – per
metterlo in difficoltà, spiattella la notizia della moglie spiona.
Lo scandalo fa da detonatore. Da qui scatta l’inchiesta indipendente, in cui
incappa Larry Franklin e un altro personaggio noto al pubblico italiano per le
sue apparizioni in alcuni talk-show durante la guerra irachena. Si tratta del
prof.Michael Ledeen. Uomo ben noto in Italia, non solo al pubblico televisivo,
Ledeen è ufficialmente un ricercatore e uno studioso di cose medio-orientali,
ma ha avuto parte intensa nell’affare Iran-Contras, ai tempi di George
H.W.Bush (padre), insieme al generale Pointdexter, a Oliver North e altri.
Nell’ambito dell’inchiesta su Larry Franklin la talpa, anche Michael Ledeen
è indagato, e la ragione e duplice. In primo luogo: dove appaiono per la prima
volta i falsi documenti sull’uranio del Niger?
Guarda caso, proprio in Italia, consegnati ai servizi di sicurezza italiani e
fatti per venire alla CIA. Ma emerge anche che Ledeen è stato molto attivo, nel
dicembre 2001, per rimettere in piedi la “connessione iraniana”. Come? È
stato accertato che in quel mese, appunto, Ledeen organizza, a Roma, un incontro
lungo tre giorni tra due funzionari civili del Pentagono, di area neocon, e
Manucher Ghorbanifar, un commerciante d’armi iraniano ben noto alla CIA per
servizi resi in precedenza all’agenzia. All’incontro romano presero parte
anche due funzionari (la cui identità non è stata rintracciata) del governo
iraniano.
Ma i nomi dei due funzionari civili del Pentagono sono noti: Harold Rhode e
(guarda chi si rivede!) Larry Franklin.
Harold Rhode non è personaggio di poco conto. Lo ritroviamo come inviato a
Baghdad dell’Ufficio per i Piani Speciali del Pentagono e uomo di contatto con
Chalabi, allora ancora molto amico degli Stati Uniti d’America, subito dopo la
“vittoria” sull’Irak.
Da un’intervista rilasciata a News week4, il mercante d’armi Ghorbanifar
rivela di avere avuto contatti molto intensi con Rhode e Franklin, al ritmo di
“cinque o sei volte la settimana”, nel giugno 2003, e di aver incontrato in
seguito Rhode a Parigi. Cosa avevano da dirsi di tanto importante i tre
personaggi? L’inchiesta è ancora in corso. Ma stiamo attenti alle date, e
qualche cosa capiremo. Ghorbanifar e i due americani del Pentagono
s’incontrano spasmodicamente a giugno. Poco più d’un mese prima, il 21
aprile, George Bush aveva pronunciato due discorsi che segnalavano una evidente
escalation verbale e psicologica, tendente ad accrescere la quantità
adrenalinica di paura nel grande pubblico.
Nel pomeriggio, di fronte alla Newspaper Association of America, aveva
minacciato l’Iran con la sua usuale terminologia: o la smettono di produrre
uranio arricchito oppure “gliela faremo vedere noi”. La sera parlò in una
riunione riservata alla Casa Bianca, che il Washington P o s t5 riferì con
queste parole: “Martedì sera Bush ha detto ai leader repubblicani del
Congresso che (....) vi era la certezza che i terroristi avrebbero tentato un
grande attacco contro gli Stati Uniti prima delle elezioni”. Uno dei suoi
consiglieri, rimasto anonimo, riferì che “i leader furono colpiti dalla
gravità delle affermazioni di Bush e dalla loro precisione”.
Adesso, passate e vinte (da Bush) le elezioni presidenziali, sappiamo che nessun
attacco terroristico, nucleare, chimico, batteriologico, o di altro tipo, è
stato effettuato contro gli Stati Uniti. Però abbiamo molte ragioni per pensare
non solo che qualcuno stava preparando “qualcosa”. Sappiamo che gli Stati
Uniti erano impegnati a progettare una grande guerra, su scala incomparabilmente
più vasta di quella irachena, tuttora in corso. Cioè sappiamo che non di un
generico attacco terroristico si stava (e si sta) parlando, ma di una nuova
guerra tra Stati, le cui dimensioni era previsto che avrebbero potuto essere
assai vaste. Questa guerra concerne in primo luogo l’Iran. I conti tornano.
Vediamo di capire perchè e sulla base di quali dati. A luglio 2004 si tiene
l’operazione Summer Pulse.
Ufficialmente, stando ai comunicati della Marina Militare, si tratta della prima
esercitazione aeronavale per verificare l’efficienza del nuovo FRP, ovvero
Fleet Response Plan (ovvero Piano di risposta della Flotta). Niente di anomalo,
in apparenza. Si voleva soltanto dimostrare al presidente che la Marina era in
grado di muovere la sua potenza di fuoco e di azione in ogni e qualunque punto
del globo? In realtà gli Stati Uniti, mentre sono impegnati in una guerra su
larga scala in Irak, organizzano la più vasta esercitazione aeronavale della
loro storia in tempo di pace. Vi partecipano sette gruppi di combattimento,
ciascuno dei quali composto da una portaerei classe Nimitz, accompagnata da una
squadra navale al completo, di sette otto navi di complemento, e da circa 70-80
velivoli di varia qualità. Per misurare la vastità dell’operazione basti
dire che mai in precedenza tanta forza era stata dispiegata simultaneamente.
Nella Guerra del Golfo del 1991, o nell’assalto all’Irak del 2003, al
massimo si era arrivati a sei gruppi di combattimento.
Sorge inevitabile la domanda: perchè un tale dispiegamento di forze, gran parte
del quale, ma non tutto, si muove al largo delle coste cinesi, mentre
l’esercitazione coinvolge anche la marina di Taiwan? Qual’è la crisi che si
pensa di dover fronteggiare e alla quale ci si sta preparando? Gli osservatori
informati videro, in quella manifestazione di forza, un avvertimento pesante
lanciato in direzione di Pechino. Forse, anche, ma non è questa, probabilmente,
la vera ragione della mossa di Washington. Il messaggio di forza veniva sì
lanciato, ma in diverse direzioni.
E rappresentava la conseguenza di una valutazione degli effetti di un attacco
contro l’Iran, fosse esso effettuato da Israele o dall’aviazione
statunitense.
Il fatto è che la Russia ha prodotto un missile anti-nave di tipo completamente
nuovo e lo ha venduto sia ai cinesi che all’Iran, Si chiama 3M- 82 Moskit (la
denominazione Nato è SS-N-22 Sunburn) ed è una variante estremamente
sofisticata dei famosi, all’epoca, Exocet francesi che permisero
all’Argentina di affondare la Sheffield e un’altra nave da guerra britannica
durante la guerra delle Falkland. Si tenga conto che l’Argentina aveva in
tutto cinque missili Exocet e, con quelli, affondò due navi. Ne avesse avuto
cinquanta, la signora Thatcher avrebbe avuto qualche problema a uscire
vittoriosa da quella piccola guerra.
Ma gli Exocet erano subsonici, erano piccoli e avevano un raggio d’azione di
circa 50 miglia. Bastò perchè due di quelli, durante la prima guerra del
Golfo, riuscissero a colpire la USS Stark, tagliandola in due e uccidendo 37
marinai. I Moskit (o Sunburn) russi sono invece due volte più veloci del suono
(2,1 Mach), sono decisamente più grossi, hanno un raggio d’azione di 100
miglia, e possono portare una testata convenzionale di oltre 250 chilogrammi, o
una testata nucleare di 200 kiloton.
Anche senza testata nucleare, combinando la massa e la velocità, i Sunburbn
sviluppano un’energia cinetica devastante, in grado di affondare anche navi di
grande tonnellaggio.
Il loro sistema di guida variabile, che consente manovre violente e bruschi
cambi di direzione, la loro capacità di volo a pelo dell’acqua, ne fanno
un’arma praticamente imparabile. I sistemi radar americani Aegis non
potrebbero avvertire in tempo gli obiettivi, e il sistema di difesa a tiro
rapido Phalanx (che spara 3000 proiettili al minuto) funziona solo se viene
preavvertito in tempo.
Quanti sono i M o s k i t che i russi hanno venduto all’Iran? Non è cifra
nota. Forse lo è soltanto ai servizi segreti americani e israeliani. Ma una
nave qualsiasi che pattuglia il Golfo Persico, o una squadra navale che vi
entrasse a supporto di un’offensiva militare in grande stile, come quella
contro l’Irak, sarebbero un bersaglio tremendamente vulnerabile a lanci di
Moskit piazzati sulle coste iraniane del Golfo, facilmente mimetizzabili,
difficilmente liquidabili in anticipo (perchè sicuramente molti).
Ecco perchè gli Stati uniti hanno fatto l’esercitazione Summer Pulse.
Perchè probabilmente sanno bene che non potrebbero entrare nel Golfo Persico
con le loro navi e dovrebbero affrontare una guerra da grande distanza. Quello
che è certo, è che i Sunburn sono già là (probabilmente la Russia ha già
venduto a Teheran – secondo la rivista Jane’s Defense We e k l y – anche
l’ultima generazione di missili anti-nave, gli SSNX- 26 Yakhonts, velocità
Mach 2,9, raggio d’azione 180 miglia) e, in caso Israele decidesse di colpire
preventivamente gl’impianti nucleari iraniani, la risposta colpirebbe non solo
Israele ma tutte le navi americane nell’area. E, in ogni caso, quei missili
possono chiudere completamente per settimane, forse mesi, la navigazione delle
petroliere nel Golfo, provocando effetti catastrofici sull’economia mondiale.
Forse è pensando a questa concatenazione di effetti che, per il momento, ci si
limita alle esercitazioni. Ma la confraternita dei Ledeen, dei Franklin, dei
Rhode, dei Ghorbanifar e dei loro committenti Wolfowitz, Feith, Bolton e Rice,
non è stata con le mani in mano. E Israele non ha ricevuto in dono per
distrazione la nuova flotta di 25 F-15s, che hanno un raggio d’azione
sufficiente per raggiungere gli impianti iraniani portandosi sotto il ventre una
cinquantina delle nuove bombe capaci di perforare i bunker a grande profondità
di cui hanno recentemente ricevuto (a spese dei contribuenti americani) una
partita di 5000 pezzi. Non tutto è pronto per la nuova avventura, questo è
certo. Ma molto è già stato fatto per prepararla. Si è giocata solo una parte
di una tripla o quadrupla partita mortale, che ha evidenti risvolti strategici.
Manca la certezza della vittoria, questo è evidente e, per il momento, manca
anche il casus belli, l’occasione. Probabilmente la talpa israeliana e i suoi
amici stanno lavorando a costruirla.
Summer Pulse serviva a valutarne le varianti tecnico-militari. Alla superficie
si muovono le pedine diplomatiche e politiche e si armano le corazzate
dell’informazione, già quasi pronte a lanciare i loro fuochi di sbarramento
per giustificare preventivamente la guerra. L’accusa – dopo l’Irak meno
credibile, ma che con il passar del tempo, degli articoli che verranno scritti a
migliaia, dei reportages televisivi che dovranno convincere i pubblici
d’Occidente – è di preparare armi di distruzione di massa, l’arma
atomica. Lo schema si ripete. Da quattro anni a questa parte sui media
statunitensi è in atto una grande tenzone, in cui i moderati (oggi diremmo i
seguaci di Kerry, ma sappiamo che sono stati sconfitti) hanno cercato di
disinnescare i preparativi dell’attacco. “Washington non andrà lontano
minacciando Teheran”, scriveva Dilip Hiro su I n t e rnational Herald
Tribune6. Il 21-22 agosto, sullo stesso giornale, Martin van Creveld, professore
di storia dell’Università Ebraica di Gerusalemme scriveva – sotto il titolo
“Israele si sta preparando ad attaccare l’Iran?” – che “tutto dipende
da Ariel Sharon, un vecchio cavallo da guerra che, nel lontano 1982, condusse
Israele nella disastrosa invasione del Libano. Oggi possiamo solo sperare che in
questo frangente ci penserà due volte”. Ma quel frangente è già stato
superato.
La vittoria di Bush potrebbe consigliarlo a pensarci solo mezza volta.
Sull’altro fronte, quello di coloro che ci pensano con angoscia, si è
attestato il direttore generale della IAEA (Agenzia Internazionale per
l’Energia Atomica), Mohamed El Baradei, che in una conversazione con Al
Jazeera7 ha fatto, lo scorso 3 ottobre 2004, la più chiara dichiarazione
possibile circa lo stato di preparazione all’atomica dell’Iran. “L’Iran
– ha detto – non ha un programma per costruire armi nucleari”. Poi, per
non lasciare equivoci, ha aggiunto: “Io non ho visto alcun programma per armi
nucleari in Iran. Ciò che ho visto è che l’Iran sta cercando di avere
accesso alla tecnologia per l’arricchimento nucleare, ma per il momento non
c’è un pericolo proveniente dall’Iran. Perciò noi dovremmo fare uso di
mezzi politici e diplomatici prima di pensare di ricorrere ad altre
alternative”.
Ma difficilmente basterà, come non bastò la testarda determinazione dell’ispetto
capo delle nazioni Unite Hans Blix per impedire che Bush attaccasse l’Irak.
Gli ayatollah ne sono consapevoli. Mentre gli Stati Uniti colpivano Saddam e
l’Irak, se ne sono stati buoni e silenziosi, ma non è bastata la loro non
belligeranza. Adesso – sono le ultime notizie dal fronte virtuale che si sta
combattendo – il governo di Teheran ha annunciato, domenica 14 novembre, “di
avere inviato una lettera all’agenzia atomica delle Nazioni Unite in cui
dichiara che sospenderà le attività di arricchimento dell’uranio come parte
di un accordo con l’Unione Europea per evitare possibili sanzioni da parte del
Consiglio di Sicurezza”8 . Con tutta evidenza ciò che temono, sia l’Iran
sia l’Unione Europea, è precisamente ciò che abbiamo raccontato nelle righe
che precedono.
note:
1)http://www.911review.org/Wiki/Behind TheIsraeliMole.shmtl
2) Agosto 19, 2004, UPI, Martin Sieff: “Una guerra su larga scala tra Stati
Uniti e Iran potrebbe essere molto più vicina di quanto il pubblico americano
possa immaginare”.
3) Washington Post, 23 luglio 2004.
4) Newsweek, 22 dicembre 2003
5) Washington Post, 22 aprile 2004
6) International Herald Tribune, 17 agosto 2004.
7) h t t p : / / w w w . a l j a z e e r a . c o m / c g i - bin/news_service/middle_east_ful_story.as
p?service_id=5051
8) International Herald Tribune, 15 novembre 2004