LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE NELL'EPOCA DI RATZINGER. UNA RIFLESSIONE DI GIULIO GIRARDI
DOC-1659. ROMA-ADISTA. Tutto lascia prevedere che, rispetto
alla Teologia della Liberazione, il pontificato di Ratzinger non segnerà alcuna
svolta rispetto a quello del predecessore. Cambia, è vero, come nota il teologo
e filosofo della Liberazione Giulio Girardi, il "nemico principale":
il marxismo per il papa polacco e il relativismo per il papa tedesco. Ma
entrambi questi "nemici" portano con sé un'eguale condanna della
teologia latinoamericana: se infatti il marxismo è stato sempre considerato dai
vertici vaticani il fondamento della TdL, il relativismo, in particolare quello
religioso, chiama in causa ancora una volta la Teologia della Liberazione, la
cui ultima frontiera di ricerca è rappresentata proprio dall'osteggiato - dal
Vaticano - pluralismo religioso. Si tratta, spiega Girardi nell'intervento che
qui di seguito riportiamo, di un nuovo capitolo della TdL, che "impone un
profondo ripensamento di alcune delle principali categorie teologiche, come
quelle di religione, rivelazione, fede, popolo di Dio". E che impone, in
primo luogo, un ripensamento stesso del concetto di Dio.
Una previsione, ampiamente fondata, sul pontificato di Ratzinger è che esso,
sul tema della teologia della liberazione, come su tutti i temi dottrinali, si
manterrà in continuità con il pontificato di Wojtyla. Il fondamento più
sicuro di questa previsione è il fatto che per oltre 20 anni il cardinale
Ratzinger, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, è
stato il principale ispiratore e punto di riferimento di Giovanni Paolo II .
D'altro lato, in questi primi mesi di pontificato, Benedetto XVI si è
frequentemente riferito al suo predecessore, quasi a voler rendere esplicita la
continuità tra i due pontificati.
Affermare questa continuità nel rapporto con la teologia della liberazione
significa confermare l'attualità dei documenti, redatti dallo stesso cardinale
Ratzinger, di condanna di questa teologia, insieme con il suo presunto
fondamento, il marxismo. Significa in particolare riaffermare il giudizio di
Giovanni Paolo II, nel suo secondo viaggio in Nicaragua, secondo cui la teologia
della liberazione era morta, dato che era morto il suo fondamento, il marxismo.
Si doveva dunque celebrare nello stesso tempo il funerale del marxismo e quello
di sua figlia, la teologia della liberazione.
Affermare la continuità tra i due pontificati significa anche prevedere la
persistente ostilità del Vaticano nei confronti della teologia della
liberazione; e anche la sua incomprensione nei confronti di una esperienza e di
una dottrina che sono espressione di un'altra cultura, la cultura degli
oppressi.
Forse però bisogna anche riconoscere una certa discontinuità tra i due
pontificati, dovuta al diverso contesto culturale in cui essi si muovono. Per il
papa polacco, il nemico principale era il marxismo, cui la teologia della
liberazione sarebbe, secondo la sua analisi, strettamente collegata. Per il papa
tedesco, è forse ancora prematuro individuare il nemico principale; ma molti
riferimenti fanno pensare al relativismo, più esattamente al relativismo morale
e al relativismo religioso, che significa nel suo linguaggio "pluralismo
religioso".
Il pluralismo religioso rappresenta oggi una tappa avanzata della teologia della
liberazione, ed è uno dei nodi sui quali, con molta probabilità, si concentrerà
nel prossimo futuro il dissenso tra la ricerca di base e il magistero
pontificio.
Questa affermazione sembra entrare in conflitto con una delle principali
preoccupazioni manifestate da Benedetto XVI, in continuità anche qui con le
preoccupazioni di Giovanni Paolo II, quella di aprire la Chiesa cattolica e le
altre confessioni cristiane all'ecumenismo e di promuovere così l'unità tra i
cristiani.
Ma per cogliere il significato del dibattito in cui prevedibilmente sarà
impegnata la teologia della liberazione nel-l'epoca di Ratzinger, bisogna
distinguere l'ecumenismo che il magistero cattolico promuove dall'ecumenismo che
il magistero cattolico condanna, che implica il pluralismo religioso. La presa
di posizione più esplicita sull'argomen-to è la dichiarazione Dominus Iesus,
emanata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, e sotto la responsabilità
principale del suo prefetto, il cardinale Ratzinger, in questo documento il
pluralismo religioso viene condannato, e qualificato appunto di
"relativismo". Si attribuisce pertanto ai fautori del pluralismo
religioso, peraltro erroneamente, la convinzione che la verità assoluta non
esiste. Chi non riconosce un'unica religione pienamente valida, e precisamente
la cattolica, non ammetterebbe l'esistenza della verità assoluta.
Ma per capire in che senso il magistero cattolico, quello in particolare di
Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, promuova l'ecumenismo, mi pare si debba
riferirsi ai due interlocutori del dibattito ecclesiale, la gerarchia e il
"popolo di Dio; nuova categoria, questa, introdotta, come è noto, dal
Concilio Vaticano II. Su questa base bisogna distinguere, mi pare, in funzione
dei vari soggetti, fra ecumenismo istituzionale ed ecumenismo popolare. Questa
distinzione permette di tenere conto della complessità dei movimenti ecumenici
e della problematica che li riguarda. Vorrei tentare di chiarirla. Per
"ecumenismo istituzionale" intenderei il rapporto di rispetto, stima e
collaborazione tra le diverse istituzioni religiose, promosso dalle rispettive
gerarchie. Per "ecumenismo popolare" intenderei invece un rapporto
promosso dal "popolo di Dio", indipendentemente dalla gerarchia e
spesso in contrasto con essa. Il contrasto si riferisce specialmente alla natura
della relazione che, in questo ecumenismo, è di uguaglianza e reciprocità tra
tutte le religioni, compresa la cattolica.
Un esempio tra i tanti che illustra il concetto di "ecumenismo
popolare" è il movimento macroecumenico, nato nel V Centenario
dell'invasione dell'America, erroneamente chiamata "scoperta ",
secondo l'interpretazione che ne hanno dato gli invasori.. Questo movimento è
nato a Quito (Ecuador), nel 1992. Si è qualificato come "Assemblea del
popolo di Dio", per distinguersi dall'Assemblea episcopale che si sarebbe
celebrata alcune settimane dopo a Santo Domingo. Per distinguersi, ma anche per
contrapporsi. Infatti, l'assemblea episcopale assumeva il punto di vista degli
invasori e considerava l'evento del 1492 una svolta estremamente positiva sia
nella storia dell'Europa , che accresceva così il suo potere e la sua
ricchezza, sia nella storia della Chiesa, che vedeva dischiudersi nuovi
orizzonti all'evangelizzazione, sia ancora nella storia dei popoli indigeni,
che, sempre dal punto di vista degli invasori, venivano "civilizzati".
Ma per gli stessi indigeni coscientizzati, il 1992 era il centenario del loro
genocidio. Con pieno diritto essi proclamavano: "Non abbiamo nulla da
celebrare". D'altro lato, l'Assemblea del popolo di Dio, ispirata dalla
teologia della liberazione e fedele alla scelta dei poveri, faceva suo il punto
di vista delle vittime. Pertanto la storia de-ll'Europa moderna, "faro di
civiltà a tutte le genti", comincia con uno dei più gravi crimini contro
l'umanità. Questa tragica constatazione cambia il senso della questione del
debito estero dei paesi del Terzo Mondo, che diventa il debito dell'Europa nei
confronti del Terzo Mondo.
Queste evocazioni storiche permettono di comprendere il significato dei temi
teologici che vogliamo affrontare. In dialogo con papa Ratzinger, supposto che
voglia ascoltarci. Perché il 1992 non è solo un crocevia storico ma anche un
crocevia teologico. La contrapposizione tra la teologia ufficiale e la teologia
della liberazione nei confonti del pluralismo religioso si precisa nel rapporto
fra la Chiesa cattolica e le religioni indigene. La teologia cattolica ufficiale
di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, per la quale il cattolicesimo è
l'unica religione salvifica, considera legittima l'evangelizzazione
conquistatrice; essa si attribuisce il potere e il dovere di imporre agli
indigeni che si convertano alla religione cristiana e abbandonino le loro
religioni millenarie, considerate diaboliche, e che la Chiesa cattolica
reprimeva violentemente.
Dalla teologia della liberazione nasce invece il macroecumenismo. Esso riconosce
la validità delle religioni indigene, condanna come antievangelica
l'evangelizzazione coercitiva, afferma il pluralismo religioso. Essa introduce
nella storia dell'ecumenismo una duplice novità. In primo luogo, quella di
estendere l'ecumenismo aldilà delle confessioni cristiane. In secondo luogo,
quella di affermare un rapporto di uguaglianza e reciprocità tra le varie
religioni.
Così, mentre la teologia della liberazione si propone di aprire il
cristianesimo alle altre religioni, la teologia ufficiale ritiene di dover
valorizzare il cristianesimo affermando la sua superiorità su di esse.
Questo nuovo capitolo della teologia della liberazione impone un profondo
ripensamento di alcune delle principali categorie teologiche, come quella di
religione, rivelazione, fede, popolo di Dio; impone in primo luogo un
ripensamento del concetto di Dio.
Desidero appunto concludere questo itinerario tornando sul suo principio
ispiratore, il vincolo che lega la scelta di campo per i popoli oppressi e la
riscoperta dell'Amore Infinito di Dio, principio ispiratore della teologia della
liberazione.
Riconoscere i popoli oppressi come soggetti storici, culturali, religiosi ci
conduce a riscoprire l'amore appassionato di Dio per tutti e per ciascuno degli
uomini, per tutte e ciascuna delle donne, per tutti e ciascuno degli esseri
della natura; conduce a riscoprire la sua presenza liberatrice in tutti i tempi
e in tutti i luoghi della storia.
Ma perché parliamo di riscoprire? Perché le teologie cristiane avevano
coartato Dio, il suo amore e la sua grandezza, entro i limiti angusti delle
nostre chiese, delle nostre culture occidentali, delle nostre tradizioni, del
nostro libro sacro, della nostra epoca storica. Fuori del mondo occidentale,
pensavamo, non c'è salvezza, perché non c'è Dio. Il Dio chiamato cristiano
era un padre che dedicava la sua attenzione a una minoranza dei suoi figli e si
disinteressava della grande maggioranza di essi.
In questo dio, come cristiani, non possiamo più credere. Il Dio nel quale
crediamo oggi è più grande del cristianesimo. La sua verità è più ricca
della Bibbia. Per rivelarsi al mondo, egli non ha un solo cammino, ma infiniti,
nessuno dei quali è esclusivo, nessuno dei quali esaurisce l'infinita ricchezza
del suo amore. Il Vangelo di Gesù tornerà ad essere per tutti e tutte una
buona notizia solo se non pretenderà di essere l'unico messaggero dell'Amore,
riconoscendo che Dio è più grande. "Dio è più grande" potrebbe
essere uno dei nostri motti macroecumenici.
Da questa nuova prospettiva sorge in noi il desiderio di esplorare le altre
strade della manifestazione di Dio nel mondo, di contemplare i volti di Dio che
non conosciamo, di scoprire altre forme della Sua presenza amorosa e liberatrice
nella storia.
Ci incoraggia in questa nuova ricerca di Dio la parola di Gesù alla samaritana:
"Credimi, donna, giunge l'ora, e ci troviamo già in essa, in cui voi
adorerete il Padre senza dover venire né al al monte Guerizim né andare a
Gerusalemme". Attualizzando questa parola, diremmo: "voi adorerete il
Padre senza andare in chiesa, né alla sinagoga né alla moschea.… Viene
l'ora, ed è quella che viviamo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in
spirito e verità… Dio è Spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in
spirito e verità" (Giov. 4, 21-24).
Così la preoccupazione per l'egemonia del cristianesimo cederà il passo alla
preoccupazione per l'egemonia di Dio: del Dio Amore Liberatore di tutti i nomi.
ADISTA 22.10.2005 n°72