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Bersagli sul
confine sottile tra «terrorismo» e guerra sporca
GIANNI MINA'
Il sequestro in Iraq di Giuliana Sgrena
che fa seguito a quello avvenuto il 5 gennaio di Florence Aubenas, inviata di Liberation,
segnala un disegno ben preciso del quale per ora non è facile individuare il
perverso manovratore, il puparo, come si direbbe se parlassimo di mafia. Ma la
situazione contingente in quella che fu la terra di Babilonia, è molto simile
alla più moderna logica mafiosa: quella di mandare messaggi attraverso atti
infami per spaventare il mondo e costringerlo ad accettare la violenza come
soluzione. Non è solo la categoria dei giornalisti indipendenti, schierati da
sempre contro il conflitto in Iraq (come Baldoni) e mai stanchi di cercare la
verità nascosta da questo enorme imbroglio chiamato «guerra preventiva» ad
essere bastonata con insistenza. C'è una cura particolare nel colpire testimoni
(come Simona Torretta e Simona Pari) e croniste come la Sgrena e la Aubenas che
ogni giorno, sul territorio, documentano con storie apparentemente piccole, con
le sofferenze della quotidianità della gente, l'assurdità di questo vulcano
insensatamente attivato in Iraq e forse prologo di altre prossime «liberazioni»
progettate per quella zona di mondo. Sofferenze scandite prima dalla dittatura
di Saddam e dall'embargo che ha causato migliaia di vittime specie fra i
bambini, ed ora da una guerra mai terminata che ha prodotto più di
centoventimila morti assolutamente insignificanti nei bilanci dell'informazione
occidentale.
Proprio ieri il Manifesto ha giustamente ricordato che Giuliana Sgrena,
l'estate scorsa, ha intervistato una donna irachena torturata nel carcere
americano di Abu Ghraib, una donna trascinata via dalla sua casa con il figlio e
tenuta in carcere senza processo per ottanta giorni, scanditi da torture e
sevizie. Giornalisti così sagaci non sono graditi in quel teatro di operazioni
tanto contraddittorie.
Così, a molti appare una coincidenza non proprio banale il fatto che il
rapimento della collega sia avvenuto pochi giorni dopo le elezioni, troppo
presto interpretate come una vittoria della democrazia e l'inizio di un cammino
di pace. Non conosciamo chi erano i candidati, non sappiamo esattamente quanti
hanno votato e come, quanto è stato trasparente l'afflusso ai seggi. «Questa
volta infatti - come ha commentato sarcasticamente Eduardo Galeano al Forum
Porto Alegre - per una singolare dimenticanza, non c'era Jimmy Carter e il suo
staff a controllare le operazioni di voto».
Il fatto che i sunniti (fino a ieri, sotto la dittatura di Saddam, gestori del
potere) abbiano deciso di disertare la consultazione elettorale, non ha fatto
sorgere nessun dubbio sul prossimo futuro del Paese a chi, dopo le elezioni, si
è affrettato a parlare di «vittoria della politica di Bush».
In realtà, il regolamento di conti in Iraq, come sosteneva sempre a Porto
Alegre Tariq Alì, è disgraziatamente solo all'inizio, specie se si considera
che a guidare il governo provvisorio dell'Iraq e a designarlo come futuro
premier, gli Stati Uniti, senza tanti complimenti, hanno scelto Allawi, un ex
asset della Cia. E con la stessa logica l'ambasciatore designato a Baghdad è
stato John Negroponte, specialista in «guerre sporche» degli Stati Uniti in
America latina.
Negroponte, che quando agiva dal suo quartiere generale in Honduras era
soprannominato el proconsul, dirigeva il centro strategico della Cia più
importante del continente, base della guerra occulta del presidente Reagan
contro il governo sandinista del Nicaragua. Per questa politica, come ha
ricordato recentemente Noam Chomsky, proprio sul Manifesto, gli Usa
furono citati dal Nicaragua nel 1984 alla Corte internazionale di Giustizia
dell'Aia che intimò al governo di Washington di cessare «l'uso illegale della
forza», cioè il terrorismo contro il Nicaragua. Il consulente legale del
Dipartimento di Stato, Abraham Sofaer, così spiegò la logica della Casa Bianca
che aveva ignorato l'intimazione della Corte e posto il veto su ben due
risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu: «Poiché la maggior parte del
mondo non condivide il nostro punto di vista, dobbiamo riservarci il potere di
decidere autonomamente».
E' verosimile, dunque, che il terrorismo islamico, trapiantato in Iraq da questa
sciagurata guerra, sia il responsabile di questa strategia insensata proprio
contro giornaliste come Giuliana Sgrena e Florence Aubenas, rappresentanti di
quel mondo pacifista che il conflitto l'ha combattuto fin dall'inizio.
Ma sono in molti, fra essi, prestigiosi analisti nordamericani, a pensare che
azioni destabilizzanti giocati sulla pelle di giornaliste, testimoni dirette
della decomposizione di una nazione in nome del big business della
ricostruzione dell'Iraq, possano essere il frutto anche di scellerate strategie
di intelligence. Strategie basate sulla convinzione che questi atti possano
indurre un'opinione pubblica, decisamente schierata contro la guerra, ad avere
dei dubbi e ad ammettere che i metodi forti siano l'unica soluzione possibile in
Iraq e che l'occupazione del paese debba, quindi, continuare.
"IL MANIFESTO" 6.2.2005