LA RIVOLUZIONE TEOLOGICA FEMMINISTA: UN PERCORSO DI RICERCA

Tesi di laurea di Patrizia Gamba

INDICE

INDICE. 1

Capitolo 1. 3

COS’E’ LA TEOLOGIA FEMMINISTA?. 3

I presupposti della teologia femminista. 6

Un po’ di storia. 11

"The Woman's Bible" (1895) 11

Gli anni successivi 14

Teologia della liberazione e teologia femminista s’incontrano. 18

Alcuni modelli di interpretazione biblica. 24

Modelli di interpretazione biblica. 25

Modelli di interpretazione biblica femminista. 26

L’ermeneutica critica femminista di liberazione. 28

Capitolo 2. 32

GESÙ’ E LE DONNE. 32

Il movimento di Gesù’ 34

“Discepolato di uguali”: inclusività ed uguaglianza. 34

La formula battesimale di Galati 3,26-28: la libertà. 40

“Patriarcalismo d’amore”: il processo di istituzionalizzazione. 42

I vangeli di Marco e Giovanni: le donne come modelli del vero discepolato. 47

Il Vangelo di Marco. 48

Il Vangelo di Giovanni 50

L’umanità di Gesù. 53

Capitolo 3. 58

PAROLE CHIAVE. 58

Corpo, sessualita’, peccato. 59

Sottomissione, sacrificio, perdono. 66

Violenza e cristianesimo. 70

Silenzio e ascolto. 77

Capitolo 4. 83

FIGURE. 83

Eva. 84

Maria madre di Gesù. 91

Agar e Sara. 98

La donna siro-fenicia. 104

Capitolo 5. 112

CONCLUSIONI 112

BIBLIOGRAFIA. 121

Testi 121

Riviste. 129

 


Capitolo 1

 

COS’E’ LA TEOLOGIA FEMMINISTA?

 

 

Teologia, femminismo, due termini che sembrano aver poco in comune. La teologia non fa parte, normalmente, della nostra vita quotidiana; nell’opinione della maggioranza delle persone è questione che riguarda alcuni specialisti che s’interrogano sulla natura di Dio, quasi sempre uomini, che propongono riflessioni a partire da una prospettiva maschile; disciplina difficile, inaccessibile ai più, distante dalle nostre vite.

Il femminismo fa tornare alla mente i movimenti delle donne, spesso arrabbiate, incattivite da innumerevoli anni di oppressione e limitazioni nei diritti e nell’espressione di sé, estreme. Mobilitazioni ormai collocate nel nostro passato, significative ma superate da una attuale, apparente, realtà di cittadinanza, di pari opportunità per tutti/e.

Superare questi stereotipi ci può aiutare ad intuire, invece, che la loro relazione può essere davvero feconda, che l’unione di queste due realtà, apparentemente contrastanti ed ostili, può dare origine a forme nuove, a visioni che aprono i nostri pensieri a letture innovative della vita sia spirituale che sociale.

Se guardiamo alla teologia come ad una riflessione che si pone domande su questioni di significato e di valore da sempre presenti nel profondo di ogni persona; se pensiamo che, a partire da ciò che ognuno sperimenta, cerca di dare risposte, effettuare elaborazioni, proporre modelli e metafore per parlare, con un linguaggio comprensibile e accettabile, della realtà di Dio e della sua relazione col mondo, possiamo immaginare che essa non si ponga al di fuori dell’esperienza di ciascuno di noi, che la riflessione possa includere tutti, dando spazio a nuove domande anche da parte di chi, per secoli, non ha avuto voce.

Nell’affrontare un argomento partiamo sempre da una domanda e “Il modo in cui è formulata la domanda limita e condiziona il modo in cui si dà la risposta, giusta o errata che sia”[1];  le domande sono poste o meno anche in relazione al contesto ambientale, culturale e conoscitivo nel quale si è immersi. Per molto tempo la teologia, pensata, elaborata ed espressa da un punto di osservazione maschile, ha eliminato tutte le domande che riguardano i vissuti delle donne; è emersa sempre più intensa l’esigenza di formulare nuove domande che portino alla luce la preoccupazione e l’impegno per un’area di esperienza finora soffocata. La teologia è una costruzione che nasce dalla creatività e dalla responsabilità umane, ed è pertanto parziale, non universale, diversificata, plurale, emergendo da particolari contesti storici e potendo essere giudicata solo in relazione a questi stessi contesti.

A questo punto il possibile collegamento con il femminismo appare più evidente. Esso, nella sua dimensione di riflessione teorica, recupera e valorizza il pensiero delle donne in una società costruita al  maschile che offre un modello solo parziale di umanità; propone un mondo che riconosca le differenze di genere, ed ogni altra differenza, e nel quale le donne possano trovare spazio, valore, dignità  ed ascolto. Un messaggio di liberazione, dunque, che dia occasione di espressione a soggetti da sempre restati ai margini, confinati in contesti, definizioni e modelli decisi da altri. E non è un messaggio ed un percorso di liberazione quello che dovrebbero proporre il cristianesimo e le altre grandi tradizioni religiose? La fede nel Dio che si è fatto conoscere attraverso Gesù libera le donne e, con loro, le altre persone poste ai margini, dai pregiudizi di una società ingiusta ma anche dai loro timori, dal senso di inadeguatezza che avvertono e dalla loro “invisibilità”. Le aiuta ad acquisire consapevolezza di sé, a riconoscere le proprie potenzialità, a conoscere, a costruire ed affermare la propria identità oltre gli stereotipi ed a trovare, quindi, il proprio posto nel mondo.

Ecco dunque il luogo in cui teologia e femminismo s’incontrano ed in cui scoprono la loro compatibilità e la forza che reciprocamente si danno: liberazione umana e divenire delle donne. Liberazione da tutto ciò che umilia l’essere umano, che lo discrimina e lo fa soffrire a causa delle differenze; che lo annulla perché non risponde alle rappresentazioni della figura femminile individuate da una sola parte dell’umanità. Ciò che lede la dignità delle donne non può trovare ospitalità né all’interno della teologia, né del femminismo e tanto meno all’interno della teologia femminista.

La teologia femminista osserva che la teologia cristiana occidentale è stata finora formulata da una prospettiva esclusivamente maschile e la stimola a superare questo limite affinché la realtà di Dio si possa esprimere in quella di tutti gli esseri umani. Lancia un appello all’inclusività della donna anche nella teologia così come negli altri aspetti della vita sociale.

 

I presupposti della teologia femminista

 

La teologia femminista prende il via dalla considerazione che i testi biblici e la produzione teologica sono stati prodotti nell’ambito di una cultura e di una storia patriarcali ed androcentriche e che la teoria e la ricerca scientifica sono limitate e carenti se trascurano il pensiero, l’esperienza ed il contributo che le donne possono offrire e se spiegano la storia umana e l’umanità stessa in termini esclusivamente maschili.

Non solo il punto di vista maschile è prevalente ma esso rispecchia e legittima gli interessi ed i pregiudizi propri della società patriarcale. Società nella quale s’intrecciano diverse forme di discriminazione ed oppressione (in base al genere, alla razza, al ceto sociale, alle condizioni economiche, ecc.) e che viene da alcuni definita “kiriarcale” dalla parola greca “kurios”, padrone o signore: “…la società patriarcale consiste nella discriminazione e nello sfruttamento di una parte degli uomini e di tutte le donne ad opera dell’altra parte degli uomini…”[2].

Gli obiettivi che la teologia femminista si pone operano su più fronti. Da un lato essa procede all’analisi di una situazione di concreta oppressione e si chiede in che modo, nel corso dei secoli, le chiese e le costruzioni teologiche nate in un contesto androcentrico abbiano ostacolato l’espressione e la dignità delle donne; dall’altro individua strategie per il superamento della condizione di oppressione.

La teologia femminista tenta di ricostruire il cristianesimo primitivo per far riaffiorare e restituire i racconti delle donne ma, soprattutto, per affermare che la storia cristiana primitiva è storia di uomini e donne e sottrarre queste ultime alla “invisibilità”. Il recupero degli elementi che restituiscano dignità, significato e libertà a tutti gli esseri umani ed alle donne in particolare, non parte dalla considerazione che esse siano “vittime” della società o della teologia ma dal bisogno di portare alla luce il loro protagonismo, la creatività e l’esperienza di vita cristiana dalle origini fino ad oggi.

Restituire alle donne la storia delle origini cristiane significa rivendicare il passato cristiano come appartenente anche ad esse e dare un contributo per una ricostruzione “umana” inclusiva, comprendente cioè tutte le persone, donne e uomini, deboli e potenti, razze e culture differenti,… Sottrarre alle persone la propria storia significa privarle di energia, di significato, di valore, annullare la possibilità di costruire un’identità solida: “…quel che priva le persone della loro storia è proprio il potere di oppressione.”[3]

E’ ormai una solida acquisizione esegetica ed ermeneutica che i testi biblici non siano una rivelazione letteralmente ispirata, né la proclamazione di principi dottrinali, ma formulazioni che si sono prodotte all’interno del contesto storico e culturale di una determinata comunità religiosa. Essi hanno, quindi, come punto di partenza, un’esperienza parziale e limitata alla quale non può essere attribuita validità universale. Eppure questa considerazione apparentemente ovvia e comprensibile per chiunque, è stata a lungo ignorata dalla cultura e dalla teologia androcentrica che ha scambiato l’esperienza maschile per la totalità dell’esperienza umana e l’ha elevata a norma universale diventando così un modello di riferimento per indicare che cosa significa essere veramente “persona”. Trascurare la voce e la vita delle donne significa semplificare, non considerare aspetti essenziali dell’esperienza umana, non riconoscerne la complessità. Il problema di molta teologia non è quindi il fatto che essa si basi sull’esperienza maschile ma che pretenda di attribuire un carattere universale ad una prospettiva parziale che esclude metà del genere umano.

“Ogni storiografia è una visione selettiva del passato: l’interpretazione storica è determinata dai problemi e dagli orizzonti della realtà contemporanea, condizionata da odierni interessi politici e strutture di potere. Ci si può avvicinare all’obiettività storica solo riflettendo criticamente sui propri presupposti teorici e sulle adesioni politiche personali e identificandoli.”[4] “Ogni studioso o scienziato che si occupa di un argomento del passato lo fa secondo il suo attuale modo di percepire la realtà e i risultati della sua ricerca, a loro volta, confluiscono nella massa di conoscenze contemporanee da cui emerge la continua trasformazione della nostra comprensione della realtà.”[5]

I passi riportati suscitano alcune riflessioni. Lo studio e la ricerca, in qualsiasi ambito e nella fattispecie in quello teologico, è opportuno che prescindano dalle affermazioni assolute e dai modelli rigidi buoni per ogni contesto, per ogni tempo, per ogni esperienza e sensibilità; è stimolante invece se essi rientrano in una corrente dinamica che recepisce ed offre nuovi elementi di conoscenza e si arricchisce, non avendone timore, delle differenze, comprendendo la realtà in modo sempre più profondo attraverso uno sguardo che passi da diversi punti di osservazione. Se si presuppone che lo studio della storia debba avere queste caratteristiche, allora è naturale chiedersi se l’esitazione degli studiosi ad occuparsi dell’esperienza delle donne non sia dovuta al rifiuto di modificare la visione androcentrica della realtà ed i privilegi che ne conseguono, piuttosto che alla preoccupazione per la correttezza della ricerca storico-biblica. “Lo spostamento da un paradigma androcentrico a un paradigma femminista comporta una trasformazione dell’immaginazione scientifica. Esige una conversione intellettuale che non può essere dedotta logicamente ma che ha le sue radici in un cambiamento dei rapporti sociali patriarcali. …spostamento che permette…di vedere “dati” vecchi in una prospettiva completamente nuova”[6].

Nell’esaminare i testi più importanti della tradizione occidentale, le donne incontrano misoginia oppure idealizzazione e oggettivazione o il silenzio sull’esperienza storica e teologica delle donne stesse e sul loro contributo al movimento cristiano originario. Ed i silenzi offrono occasioni per giustificare il soffocamento del pensiero delle donne e della loro identità. La visione androcentrica del mondo considera l’uomo come “norma” dell’esistenza umana, la misura di tutte le cose, e la donna viene definita non per se stessa ma in relazione all’uomo. “Egli è il soggetto, l’assoluto; lei è l’altro”[7]. Secondo questa concezione, la donna deve restare storicamente marginale perché il suo ruolo storico, che non viene mai dato per scontato come accade per gli uomini, è imbarazzante, problematico, deviazione dalla norma. Nella migliore delle ipotesi il paradigma scientifico androcentrico può trattare il ruolo della donna come problema sociale, filosofico, teologico,… argomento di cui discutere; può parlare delle donne quando sono persone eccezionali o quando il loro comportamento comporta dei problemi. Al proposito le studiose femministe di storia evidenziano che molte fonti storiche che riguardano le donne non sono descrittive della realtà ma prescrittive, avendo esse intenti “educativi” o normativi e l’obiettivo di ridurre l’influenza ed il potere delle donne. “Le idee degli uomini sulle donne non riflettono dunque la realtà storica delle donne, potendosi dimostrare che le polemiche ideologiche sul posto che spetta alle donne, sul loro ruolo o sulla loro natura aumentano ogni volta che l’effettiva emancipazione delle donne e la loro attiva partecipazione nella storia diventano più forti.”[8]

Le teologhe femministe, guardando oltre ed attraverso i testi, vanno pertanto alla ricerca di chiavi di lettura per “far parlare” i silenzi, per dare ad essi significato in modo che possano fornire elementi per la conoscenza della realtà egualitaria ed inclusiva del movimento cristiano primitivo. Procedono ad una ricostruzione storica che, a partire da pochi elementi e racconti sulle donne, renda visibile la parte maggiore dell’iceberg. Tentano di riformulare la storia e la cultura come prodotto ed esperienza di entrambi, donne e uomini.

Esistono infatti alcuni testi del Secondo Testamento detti “egualitari” che, nel corso dei secoli, hanno messo in luce la possibilità di vedere e di operare in modo cristiano e non patriarcale, in contrapposizione ai cosiddetti testi “patriarcalizzanti” ai quali si è attinto e si attinge ancora oggi per giustificare l’esclusione delle donne dai ruoli ecclesiali di maggiore responsabilità e per mantenere la loro subordinazione nella chiesa e nella società.

Un po’ di storia

 

"The Woman's Bible" (1895)

 

La nascita delle teologie femministe trova le sue radici nel libro “The Woman’s Bible” dell’autrice americana Elisabeth Cady Stanton apparso nel 1895. Nell’intento di comprendere quali fossero effettivamente gli insegnamenti della Bibbia, il testo ha assunto la forma di un commentario scientifico dei passi biblici che parlano della donna attraverso la loro reinterpretazione alla luce della nuova comprensione che le donne hanno di se stesse.

L’autrice, nell’introduzione, metteva in risalto due principi critici per un’ermeneutica teologica femminista: “1) la Bibbia non è un libro ‘neutrale’, ma un’arma politica contro la lotta delle donne per la liberazione: 2) questo avviene perché la Bibbia porta l’impronta di uomini che non avevano mai visto Dio né gli avevano parlato.”[9]

La Stanton intendeva quindi l’interpretazione biblica come un atto con conseguenze politiche e la Bibbia come un testo che, nel tempo, ha avuto la funzione di legittimare il patriarcato nella società e nella chiesa e di attribuire alle donne un posto che si riteneva stabilito “direttamente” da Dio; una funzione quindi determinante nel sostenere posizioni contrapposte all’emancipazione femminile. La Bibbia dunque, in quanto espressione di una cultura patriarcale, si articola in un linguaggio umano storicamente limitato e culturalmente condizionato.

Per le sue implicazioni politiche "The Woman's Bible" si rivelò impopolare e diede origine ad un ampio dibattito, anche ad accese polemiche, che dimostravano quanto fosse significativa l’influenza esercitata dalla Bibbia sulla lotta per la liberazione delle donne. Addirittura un ecclesiastico formulò il sospetto che il libro fosse “l’opera delle donne e del diavolo”; a questa accusa la Stanton, manifestando uno spirito ironico, rispose così: “Questo è un grave errore. Sua Maestà Satanica non si sarebbe mai unito al Comitato di revisione che è composto di sole donne. Inoltre ha avuto tanto da fare in questi ultimi anni partecipando a sinodi, assemblee generali e conferenze per impedire il riconoscimento di delegati donne, che non ha certo il tempo di studiare le lingue e l’’alta critica.’”[10]

L’autrice sottolineò che il compito degli storici non è quello di valorizzare l’autorità di testi che giustifichino la subordinazione delle donne (ad esempio attraverso l’utilizzo degli scritti di Paolo) ma quello di riscoprire e portare alla luce l’esperienza e la pratica delle comunità cristiane primitive. Nel ricostruire il passato del cristianesimo, a suo parere, essi non devono trascurare le implicazioni e le conseguenze politiche e sociali dei loro studi.

La necessità politica di un’interpretazione scientifica e femminista della Bibbia veniva avanzata e sostenuta dal pensiero che nessuna riforma è possibile in un settore specifico della società se non viene condotta anche in tutti gli altri settori dal momento che tutte le riforme sono interdipendenti.

La sua convinzione ed intuizione critica fu che il vero messaggio della Bibbia fosse stato soffocato dalle traduzioni e dalle interpretazioni degli uomini e che essa non fosse soltanto stata fraintesa o male interpretata, ma utilizzata nella lotta politica, tra l’altro, contro il diritto di voto alle donne. In contrapposizione alla tesi dottrinale che vedeva nella Bibbia un testo ispirato letteralmente da Dio che in essa esprime la sua parola diretta e la sua volontà, Cady Stanton insisteva sul fatto che essa è stata scritta da uomini e riflette gli interessi maschili dei suoi autori. Negava quindi l’ispirazione divina ad affermazioni bibliche negative e degradanti riguardo alle donne, attribuendo i passi che contengono ingiunzioni patriarcali alla mente di uomini che hanno lasciato la loro impronta sulla rivelazione biblica; in questo modo, considerando la “Bibbia come un’opera umana e non come un feticcio”[11], l’autrice e le sue collaboratrici hanno dimostrato una migliore considerazione per Dio offrendone un’immagine positiva ed accogliente.

Nonostante le sue critiche accese, Cady Stanton riteneva che alcuni principi religiosi ed etici contenuti nella Bibbia fossero ancora validi ed importanti (ad esempio il comandamento dell’amore) e concludeva che essa non può essere accettata o rifiutata nella sua globalità, che ogni passo offre significati e suggestioni differenti a chi legge e che è necessario analizzare con attenzione le parti bibliche che riguardano le donne per comprenderne le implicazioni androcentriche e far affiorare il messaggio essenziale che esse hanno in sé.

 

 

Gli anni successivi

 

Fino agli anni ’50 ci fu una sorta di letargo sia a livello sociale che a livello teologico femminista. Le donne agivano dentro ruoli imposti, spesso lontani dalle loro aspirazioni, frutto di una rappresentazione della figura femminile generata dagli uomini che la voleva fra le mura domestiche, posta al servizio del marito e alla cura dei figli. Le donne non avevano ancora iniziato ad esprimere pubblicamente, con forme di comportamento collettivo, il loro desiderio di identità, di liberazione, di affermazione ma già il loro disagio era presente; la tensione verso la perfezione e l’ineccepibilità all’interno delle mura domestiche, la rincorsa di un modello ideale di femminilità stereotipato e costruito per mantenere in mano agli uomini i centri di potere, l’adesione al progetto di realizzazione del sogno americano del benessere costruito da altri e non rispondente ai desideri delle donne, producevano malessere e senso di inadeguatezza. Così documenta la sociologa statunitense Betty Friedan nel suo libro “The feminine Mystique”, pubblicato nel 1963, in cui analizza il senso di disagio sperimentato quotidianamente dalle donne costrette a ruoli non scelti ed estranei ai loro più profondi e personali desideri.

Questo testo diede il via ad una rivoluzione nella società secolare che si avvertì nel mondo teologico solo qualche tempo dopo; il desiderio di cambiamento però diventava sempre più importante tra le donne e gli uomini più sensibili che diventavano consapevoli del nesso, che ormai non era più possibile oscurare, tra l’oppressione domestica e quella ecclesiale.

Negli anni ’60 e ’70 cresce e si esprime la consapevolezza femminile della condizione di subalternità, il desiderio delle donne di comprendere ed affermare la propria identità in quanto soggetti e non in relazione di complementarietà con l’uomo, il riconoscimento della capacità di prendere decisioni in autonomia e dare una direzione alla propria vita. Tale consapevolezza si sviluppava e cresceva soprattutto grazie all’incontro con le altre donne che vivevano lo stesso senso di disagio, lo stesso bisogno di esprimersi pur nella differenza di condizioni individuali e di contesto sociale e culturale; raccontandosi “partendo da sé”, condividendo i propri sogni, manifestando i personali desideri di cambiamento, uscivano dalla solitudine e dall’isolamento e scoprivano la forza dello stare insieme, della comunità che ascolta in modo profondo, della nascente solidarietà di genere. “Noi ci diamo reciprocamente un potere, mentre reciprocamente ci ascoltiamo parlare. Diamo questo potere ai diseredati, agli emarginati, quando siamo capaci di ascoltarli mentre danno un nome, a modo loro, alla loro oppressione e sofferenza… In questo senso l’ascolto può penetrare attraverso le strutture politiche e sociali e creare l’immagine di un sistema nuovo.”[12] “… è nelle profondità dell’esperienza che si trova la sorgente da cui scaturiranno immagini nuove.”[13]

Erano le origini del movimento femminista che aveva come punto di avvio il “partire da sé”, dalla percezione che le donne hanno della propria identità ed esistenza, dalla loro esperienza fino ad allora non considerata degna di attenzione, essendo l’esperienza umana equiparata a quella maschile.

Negli stessi anni di grande fermento sociale e politico (anni ’60 e ’70), anche nel mondo della teologia e all’interno della vita delle chiese avvenivano dei cambiamenti. Teologi come Paul Tillich e Reinhold Niebuhr ritenevano che un’attenta analisi della “condizione umana” elaborata con l’apporto della psicologia, della sociologia e della filosofia, doveva essere il punto di partenza di ogni riflessione su Dio. Rudolph Bultmann, esperto di studi biblici, sosteneva che la lettura dei testi non può essere neutrale ma è filtrata dal personale bagaglio di esperienza, modelli di riferimento e pregiudizi. I cosiddetti teologi politici come Dorothee Solle e Jurgen Moltmann, portando all’estremo questa osservazione, affermavano che lo studio del testo biblico, non solo non era obiettivo, ma era a servizio di interessi ben precisi, quelli delle classi potenti dell’emisfero nord del primo mondo.

Nella chiesa cattolica il Concilio Vaticano II sembrò pronunciare parole di rinnovamento ed apertura verso le domande poste dal mondo ed il confronto con le altre confessioni religiose ed il marxismo, finora mai ascoltate al suo interno. L’entusiasmo che nacque in quegli anni contagiò molte donne e uomini anche se l’attesa del nuovo, mentre rimaneva viva e feconda e si realizzava all’interno delle comunità di base, andò presto delusa nella chiesa gerarchica.

Per quanto riguarda, per esempio, il ministero pastorale delle donne, la maggior parte delle chiese protestanti tradizionali accolse con favore tale innovazione che integrava la metà dell’umanità finora esclusa, mentre la chiesa cattolica rimaneva, come sappiamo, rigidamente ancorata alle sue posizioni; impermeabile ai venti di novità che giungevano, e giungono ancora oggi, dalla società e dal contributo delle donne, consentì di perpetuarne “l’asservimento dopo che la scienza ha reso possibile la loro liberazione.”[14] Mary Daly, nel testo citato che rappresentò la scintilla che diede l’avvio ad un dialogo femminista sia in ambito cattolico che ecumenico, sosteneva che il cattolicesimo in particolare fosse un fondamento ed una fortezza del patriarcato, intendendo, con questo termine, il valore normativo attribuito alla maschilità dalla nostra società che impedisce l’espressione piena della femminilità. La conseguente oppressione delle donne si estende all’ambito economico, sociale, emotivo e spirituale ed il patriarcato è l’espressione socio-culturale di tale valore normativo.

Nonostante gli aspetti di rigidità e i tentativi conservativi degli ambienti ecclesiastici, la spinta verso il rinnovamento attraverso la partecipazione coinvolgeva anche il popolo cristiano che, sempre più, sentiva di voler essere protagonista della sua vita politica e religiosa; in questo contesto, che tendeva a valorizzare maggiormente l’esperienza di ciascuno, le sacre scritture diventano un testo da leggere in prima persona a partire dal bagaglio individuale di vissuti, di storia, di cultura, di relazioni e anche di lotta. Questo fermento politico e religioso crescente che si diffuse anche ed in modo significativo in America latina, proprio a causa delle condizioni di grave oppressione economica e sociale, venne definito “teologia della liberazione” e parlava di un Dio dalla parte degli ultimi. Al tradizionale impegno dei cristiani a fianco dei più poveri ed emarginati si univa l’analisi marxista delle condizioni che producevano tali povertà.

 

Teologia della liberazione e teologia femminista s’incontrano

 

Al termine degli anni ’60 la teologia della liberazione iniziò a diffondersi, con difficoltà e polemiche, anche in Europa e negli Stati Uniti dove la teologia femminista stava muovendo i primi passi; essa suscitò l’interesse ed il consenso di molte donne che si occupavano di teologia o che già stavano portando avanti il loro impegno a favore delle persone più emarginate e della conquista dei diritti civili per i gruppi cui erano negati. La teologia della liberazione offrì molti spunti alla teologia femminista delle origini poiché la discriminazione in base al genere s’intreccia con altre forme di oppressione ma, nonostante i numerosi punti di contatto, le due procedettero parallelamente ancora per circa dieci anni per avviare successivamente un dialogo che manteneva però sensibilità diverse.

Siamo di fronte a due movimenti con significativi elementi di comunione ma anche con alcune differenze che possono però offrire reciprocamente contributi e spunti interessanti per ampliare lo specifico ambito di riflessione.

Né la teologia femminista né la teologia della liberazione sono terreno esclusivo di accademici; in entrambe sono presenti molti studiosi ma anche attivisti, organizzatori, membri del clero e persone comuni.

La teologia femminista ha come punto di partenza la personale presa di coscienza ed esperienza di discriminazione ed oppressione ed il confronto all’interno di una comunità. La teologia della liberazione trae origine dalla consapevolezza, da parte dei poveri, della loro condizione di sfruttamento, soprattutto economica, e della loro forza come soggetto storico collettivo per cambiare una società ingiusta.

Entrambe, dunque, auspicano l’affermarsi di un nuovo concetto di universalità ed in questo modo, facendosi portavoce della particolarità, avanzano critiche verso la disciplina teologica tradizionale, la stimolano al cambiamento invitandola a porsi degli interrogativi circa le proprie pretese di universalità. “…se ogni espressione teologica è parziale, limitata e contestuale, ne consegue che il modello più adeguato sarà quello nel quale potrà farsi udire il maggior numero di voci.”[15] ”Bisogna che il potere di dare un nome a noi stessi, alle nostre esperienze, al nostro Dio, al nostro mondo, venga restituito alle persone cui spetta di diritto. Questo potere, che è stato tolto alle masse, deve essere loro restituito, affinché possa trovare espressione la varietà di nomi e di rivendicazioni su tutto il complesso della realtà.”[16] Entrambe le metodologie, pertanto, sono accomunate dal pensiero che affermazioni a priori dogmatiche e confessionali siano inaccettabili. Esse si somigliano perché, valorizzando una visione dinamica della realtà e della teologia, sono orientate verso il processo (teologizzare) invece di essere sistemi statici (teologia). Il concetto del “teologizzare”[17], introdotto dalla teologia femminista ma accolto anche da quella della liberazione, sottolinea appunto l’elemento della dinamicità; indica un modo per aggirare il linguaggio e le immagini statiche della teologia tradizionale e dare spazio ad una condivisione comunitaria di esperienze di fede, all’espressione articolata e pluralista del senso religioso delle donne e degli altri soggetti cui, storicamente, non è stata data voce. Entrambe le teologie si servono, dunque, di metodi essenzialmente pluralistici in quanto incoraggiano vari punti di partenza, una grande gamma di esperienze e la possibilità di molte prassi diverse; pluralismo che supera i confini tra le varie chiese e che dà a questi due metodi un carattere ecumenico, non avendo essi alcun legame confessionale specifico.

I metodi utilizzati sono rigorosamente storici ma la storia è sottoposta a nuove norme interpretative che vengono definite “ermeneutica del sospetto”. Chi si serve di questi metodi parte dalla considerazione che donne e poveri siano stati privati del proprio passato nonostante abbiano dato e diano un significativo contributo alla complessiva storia delle chiese. Il compito dell’ermeneutica del sospetto è proprio quello di denunciare e tentare di trasformare “quella dinamica del potere che fa sì che la storia sia fatta di favole che i vincitori raccontano sui vinti.”[18]

Sia la teologia femminista che quella della liberazione sono profondamente radicate nella dimensione pastorale del cristianesimo; sono metodologie circolari nel senso che trovano nella prassi, nell’azione concreta a fianco dei più emarginati, il punto di partenza e le conclusioni da cui ripartire, con loro; un altro viaggio di riflessione ed approfondimento porterà nuovi elementi e aprirà nuove porte in un movimento continuo di trasformazione e revisione. L’obiettivo di tale prassi e della conseguente riflessione è quello di rendere le strutture ecclesiastiche e politiche più rispettose della persona umana con tutte le differenze di genere, di condizioni sociali ed economiche, di religione, di cultura che essa esprime. “A differenza della teologhe femministe, (i teologi della liberazione) hanno la tendenza a fornire categorie per una rinnovata fede cristiana, anziché a stimolare gli interrogativi della base e lasciare che le categorie emergano da sé, come tendono a fare le femministe. In ogni caso la loro teologia è informata da una fede vissuta in un contesto di oppressione e l’urgenza del loro compito scaturisce dalla necessità di prendere decisioni immediate in situazioni politiche sempre più ostili.”[19]

Le differenze tra le due teologie mettono in evidenza i punti deboli di ciascuna ma anche aprono delle possibilità di incontro, di relazione reciproca e feconda che possa portare entrambe a esplorare luoghi nuovi e permettere loro di integrare le carenze e gli aspetti mancanti.

Rispetto ai contenuti, come è facile intuire, nella teologia femminista la priorità è assegnata all’esperienza di oppressione vissuta dalle donne mentre nella teologia della liberazione tale priorità è data alla vita e alla lotta dei poveri. Ciò non significa che da parte delle teologhe femministe non ci sia attenzione ai poveri o che i teologi della liberazione non ascoltino le esigenze delle donne nelle varie situazioni, ma che i significati tratti dall’uno o dall’altro complesso di situazioni prendono in considerazioni variabili che non sono comuni ad entrambi. Il contributo reciproco è utile per indurre le femministe a considerare il tema delle classi sociali e l’urgenza di liberarsi dall’oppressione del disagio materiale e i liberazionisti ad affrontare l’analisi del sessismo e la consapevolezza della particolarità di ogni esperienza.

Per quanto riguarda il rapporto con la chiesa istituzionale vi sono all’interno delle due teologie posizioni e relazioni differenziate. In generale si può dire che, la maggior parte delle teologhe femministe cristiane, pur continuando in parte ad apprezzare i valori e le comunità che si sviluppano all’interno delle chiese, manifestano un atteggiamento critico nei confronti della chiesa istituzionale nelle varie forme in cui si presenta; esse vivono con estremo disagio e sofferenza la marginalità e l’esclusione delle donne dal potere decisionale e dai ruoli ministeriali e la scarsa considerazione prestata ai loro scritti e alla  possibilità di avviare un dialogo creativo ed un dibattito stimolante.

I teologi della liberazione sono, in molti casi, membri del clero, sono quindi parte integrante della struttura ecclesiastica anche in termini di potere istituzionale. Questa posizione ha consentito di portare alla discussione interna i temi caratteristici di questa teologia (ad esempio la metodologia che si sviluppa dalla base e alla base ritorna) e di influire, in qualche modo, sulla politica della chiesa in America latina. In quella terra non è comunque evidentemente facile la convivenza tra spinte verso la liberazione e verso la conservazione e gli scontri e le contrapposizioni tra teologi della liberazione e il magistero sono presenti e talvolta drammatici. Tuttavia, in molte situazioni, la chiesa è l’unica istituzione che ha la forza di opporsi a governi locali autoritari e ciò rende importante, per i teologi della liberazione, mantenere contatti con essa.

            Un’altra differenza significativa riguarda il concetto della divinità. “Nella teologia femminista …va dall’immagine di Dio Padre (accettata con grosse riserve) fino a quella della Dea, mentre nella teologia della liberazione generalmente si accetta l’immagine tradizionale di Dio Padre, dominatore, signore o re”[20] affermando in questo modo l’esigenza, da parte di quest’ultima, di mantenere una continuità col passato. La ricerca e lo sviluppo di nuovi simboli, al di là dell’ambito tradizionale, che meglio rispondano ai tempi, alle diverse culture e ai contesti di vita attuali è una sfida ed uno stimolo per entrambe le teologie.

            La teologia femminista e la teologia della liberazione, le loro risorse ed i loro limiti: l’analisi di questi aspetti ha portato alcune teologhe, ed in particolare la citata Mary E. Hunt, a suggerire, quale migliore soluzione, l’elaborazione di un metodo nuovo che viene definito “teologia femminista della liberazione”. Esso, insistendo su un ampliamento di orizzonti che includa persone, problemi e simboli nuovi si propone di offrire garanzie contro il rischio che le necessità contingenti diventino il termine ultimo di analisi ed azione e di favorire il superamento dei limiti che ciascuno di questi metodi non può oltrepassare da solo.

            Negli anni ’80 nelle teologie della liberazione, altre all’impegno per la giustizia sociale ed economica, si inizia a prendere in considerazione la discriminazione in base al genere mentre la voce femminile, sempre più forte, delle minoranze negli Stati Uniti e la presenza di teologhe afroamericane e ispaniche inducono la teologia femminista a prestare maggiore attenzione alle differenze di classe, razza, etnia tra donne. In questo modo l’apporto sempre più significativo di culture ed esperienze differenti accentuava ancora di più il carattere pluralista evidenziando chiaramente che non esiste un’unica teologia femminista ma molte espressioni di essa.

 

Alcuni modelli di interpretazione biblica

           

Di fronte alla Bibbia, non solo libro storico ma anche testo portatore di significati ed autorità per i cristiani di oggi, i teologi hanno individuato metodologie e modelli “per rendere giustizia a questa tensione teorica tra le affermazioni teologiche e quelle storiche della Bibbia.”[21]

La breve esposizione dei quattro metodi più significativi elaborati dalla scienza biblico-storica consente di presentare un quadro generale di riferimento che permetterà di affrontare successivamente, nello specifico, le metodologie di interpretazione (ermeneutica) femminista ed in particolare l’ermeneutica critica femminista di liberazione proposta dalla teologa cattolica tedesco-americana Elisabeth Schüssler Fiorenza.

 

 

 

Modelli di interpretazione biblica

 

Metodo dottrinale: il testo biblico è inteso non come espressione storica della rivelazione, ma come rivelazione stessa, non è la comunicazione della Parola di Dio, ma è la Parola di Dio. La rivelazione e l’autorità della Bibbia vengono pertanto intese in termini dogmatici e non storici. In questa visione il testo biblico dà voce a verità assolute, buone per tutti i tempi, che danno risposte chiare e puntuali alle domande e ai problemi di sempre.

 

Esegesi storica positivista: in contrapposizione col metodo precedente, si occupa dei fatti e rincorre la possibilità di effettuare un’interpretazione neutrale e distaccata rispetto ai valori. Tale interpretazione tenta di effettuare una lettura dei testi oggettiva ed una presentazione di fatti storici in modo scientifico.

 

Interpretazione ermeneutica dialogica: partendo dalla considerazione che un’interpretazione neutrale è impossibile, critica rispetto al modello precedente, tiene conto della relazione e dell’interdipendenza fra testo e comunità che l’ha prodotto o fra testo e interprete, salvaguardando le procedure storiche sviluppate dal secondo metodo. “Lo studio del mondo sociale della Bibbia ha messo in rilievo che non basta ricostruire l’ambiente ecclesiale; la comunità cristiana e la sua vita, infatti, sono sempre intrecciate con il contesto culturale, politico e sociale.”[22]

 

Metodo della teologia della liberazione: il principio di riferimento è riconoscere che tutte le teologie della liberazione sono sempre impegnate a favore o contro gli oppressi e che la neutralità intellettuale, in un mondo in cui esiste lo sfruttamento e l’oppressione, è impossibile.

 

Modelli di interpretazione biblica femminista

 

Nell’opera di elaborazione di un modello di ermeneutica femminista, le teologhe hanno attraversato esperienze differenti e applicato metodologie che partono da presupposti diversi. Tutti i modelli condividono il pensiero che, poiché il messaggio biblico fu rivolto ad una società patriarcale, la sua forma è in relazione col contesto e con la sua cultura. La cornice patriarcale e il linguaggio androcentrico sono la forma ma non il contenuto del messaggio biblico che è rappresentato dalla vita di Gesù la cui opera, deve sottolineare la teologia femminista, “non fu prima di tutto quella di essere un maschio, ma quella di essere il nuovo essere umano.”[23]

La distinzione tra forma e contenuto consente di riconoscere il linguaggio patriarcale della Bibbia senza accettarne il contenuto patriarcale.

 

            Metodo femminista neo-ortodosso: tenta di isolare la Tradizione liberante dai testi patriarcali della Bibbia, di distinguere l’essenza dell’annuncio femminista dalle sue espressioni androcentriche condizionate culturalmente e di tenere separate le tradizioni profetiche di critica sociale della Bibbia da quelle patriarcali oppressive. (Ruether, Russel, Trible).

 

            Metodo femminista androcentrico: con l’aiuto della sociologia della conoscenza, cerca di allontanarsi dalla lettura di testi androcentrici e di definire un centro vitale che generi nuovi testi culturali, nuove tradizioni e mitologie. Vi è un rifiuto di tali testi poiché, se tutte le rappresentazioni della realtà sono androcentriche, non è possibile isolare una tradizione di testi femminista, o culturale femminile; il nuovo centro vitale femminista genererà nuove costruzioni della realtà e nuove visioni della vita. Mary Daly, che è la più significativa rappresentante di questa corrente, accetta la “costruzione teorica androcentrica del mondo, ma la capovolge, facendo della periferia il centro vitale di una costruzione femminista del mondo. Questo spostamento può essere fatto nel linguaggio, nel rituale e nella teoria, ma è, da un punto di vista sociale, situato ai confini di tutte le istituzioni socio-politiche e culturali.”[24] “Mentre questa concezione teorica è in grado di costruire un mondo vitale femminista ai confini della cultura patriarcale, non è però in grado di restituire la storia alle donne, dato che intende la storia patriarcale come ‘territorio del non – essere’, e non come l’arena della battaglia delle donne.”[25]

 

 

L’ermeneutica critica femminista di liberazione

 

            I metodi precedentemente e sinteticamente descritti sono centrati sul problema della legittimazione o del rifiuto teologici della Bibbia ma non prendono in considerazione la ricostruzione storica femminista. Secondo la teologa Elisabeth Schüssler Fiorenza non recuperare la storia, significa abbandonare le donne alla loro marginalità storica e culturale, condannarle a restare invisibili nelle rappresentazioni della realtà fatte da chi detiene il potere. Per questo, a suo parere, le teologhe femministe non possono proprio permettersi di non considerare i testi biblici androcentrici e la storia patriarcale anche come testi rivelatori della propria storia.

            L’ermeneutica critica femminista di liberazione, il metodo che ella propone, spostandosi da tali testi ma analizzandoli nell’ambito dei contesti storico-sociali da cui sorgono, vuole rivendicare quella storia androcentrica umana e biblica come storia appartenente anche alle donne. “…deve ricuperare le sue sorelle del passato come vittime e soggetti partecipanti alla cultura patriarcale. Non deve farlo creando un centro di vita ginecentrico ai margini della cultura e della storia…”[26] Il passato ricordato diventa “memoria sovversivaperché dà vita alle sofferenze e alle speranze delle donne del passato e richiama anche ad una solidarietà con tutte le donne di ieri, oggi e domani che condividono esperienze e visioni comuni.

            E’ opportuno che un’ermeneutica femminista di liberazione che desideri valutare criticamente la tradizione biblica, individui e respinga gli elementi che nei testi propongono, nel nome di Dio, violenza, alienazione e subordinazione patriarcali e recuperi e valorizzi tutti gli elementi che, invece, esprimono le esperienze e le immagini di liberazione del popolo di Dio. Tale metodo, che ha come valore la liberazione delle donne da istituzioni distruttive e strutture di oppressione, sostiene che solo le tradizioni e i testi che rompono la catena della cultura patriarcale hanno autorità teologica di rivelazione.

            Interessante è la proposta e la sfida che la Schüssler Fiorenza lancia al mondo teologico di abbandonare il paradigma che vede nel Secondo Testamento  un archetipo e di accogliere invece il modello del prototipo. Entrambi, spiega, sono modelli originali ma l’archetipo è una forma ideale immutabile e fuori dal tempo, mentre il prototipo è aperto alla possibilità di una propria trasformazione non essendo uno schema vincolante e fuori dal tempo. Pensare in termini di prototipo richiede la disponibilità verso il cambiamento dei modelli di fede e di comunità cristiane. Ancora una volta compare l’elemento della dinamicità, del processo di adattamento, della sfida, del rinnovamento delle strutture socio-ecclesiali e concettuali in relazione alle situazioni storiche e sociali in mutamento per meglio rispondere alle nuove domande e alle nuove prospettive.

Intendere la Bibbia come prototipo aiuta a superare l’approccio dogmatico, secondo il quale le “verità di fede” appaiono immutabili, pietrificate, provenienti dall’alto, estranee alla vita quotidiana delle persone ed al contesto storico e culturale nel quale esse sono inserite. Aiuta a comprendere che non è possibile identificare col linguaggio androcentrico la rivelazione biblica che invece vive nella vita di Gesù e nell’esperienza delle prime comunità cristiane che hanno continuato, con la loro specificità e creatività, il percorso da lui iniziato.

            Seguendo un pensiero analogo, le teologie della liberazione affermano con forza che il messaggio vero e l’autorità della Bibbia vanno ricercati nella vita dei poveri e degli oppressi a causa della loro emarginazione e che Dio ha guardato con tenerezza ed ha scelto come destinatari della sua opera di protezione e liberazione. “Un’ermeneutica critica femminista della liberazione condivide la presa di posizione a favore degli oppressi delle teologie della liberazione, ma, al tempo stesso, fa diventare terreno di liberazione delle donne non solo la loro oppressione, ma anche il loro potere… la Bibbia riflette la forza delle donne bibliche come pure la loro vittimizzazione…la fonte del nostro potere è anche la fonte della nostra oppressione.”[27]

            Secondo la Schüssler Fiorenza questa ermeneutica deve sviluppare un metodo critico di analisi che aiuti le donne ad andare oltre il testo biblico patriarcale fino ai suoi contesti storico-sociali e a creare nuovi modelli di ricostruzione storica che le riportino al centro della vita e della teologia cristiana, recuperandole dalle posizioni periferiche.

            Sebbene i testi tradizionali ammessi dal canone conservino solo dei residui del primitivo spirito cristiano non patriarcale, essi sono sufficienti per far intravedere che il processo di patriarcalizzazione non è proprio della rivelazione e delle prime comunità cristiane ma è avvenuto lentamente, nel corso del tempo. Per questo motivo l’ermeneutica biblica femminista può trovare gli elementi per affermare che la teologia e la storia cristiane delle origini sono anche teologia e storia delle donne. Donne che nel movimento cristiano primitivo occupavano posizioni di guida e assumevano funzioni importanti per la comunità e che la teologia femminista ha il “dovere” di riportare alla memoria di uomini e donne.


Capitolo 2

 

GESÙ’ E LE DONNE

 

 

            I primi testi cristiani, come si è già avuta occasione di scrivere, non sono descrizioni storiche del ministero di Gesù o della vita delle chiese primitive, non ci raccontano come sono andate veramente le cose, né ci forniscono un resoconto storicamente accurato della volontà di Dio, ma ci dicono quale significato religioso assunsero esperienze condivise da molte persone. Sono testi di impegno pastorale in cui gli autori cristiani delle origini hanno espresso le loro intenzioni teologiche, gli insegnamenti che desideravano trasmettere e le loro finalità pratiche ed “educative”, selezionando e riformulando le fonti ed i materiali tradizionali a loro disposizione. I testi intendono parlare dei problemi e della vita delle prime comunità cristiane offrendo a tali esperienze una luce ed una interpretazione teologiche. Gli autori non volevano semplicemente trascrivere ciò che Gesù aveva detto e compiuto ma cercavano di capire il significato che la sua vita aveva avuto per i suoi primi seguaci e le loro comunità.

            La comprensione storicistica delle origini cristiane, tuttavia, prevale ancora nei libri di testo e nel pensiero di molti cristiani e teologi e costituisce la base e la forza del fondamentalismo, tendenza biblico-teologica che offre una visione unica e immodificabile, una parola sola, la “verità” indiscutibile che non dà spazio alla pluralità delle esperienze ed alla ricchezza della loro molteplicità. Secondo questa visione Gesù istituì la chiesa, ne determinò le forme istituzionali e ordinò i dodici che continuarono l’opera del maestro portando il messaggio che è, a sua volta, codificato nel Secondo Testamento come sacra Scrittura. Secondo questa logica tutti gli sviluppi posteriori sono già previsti dai testi sacri, scritti, immutabili; la “vera” chiesa se ne fa garante e non ha deviato mai dalla tradizione apostolica. Tutto si svolge all’interno di confini prescritti, di formule ripetute che richiedono un permanente controllo sulla loro esatta espressione attraverso un processo che trasforma i problemi esistenziali in questioni di rituale e di dogmatica, come scrive Eugen Drewermann nel libro “C’e speranza per la fede?”.

Tale costruzione delle antiche origini non è però più scientificamente accettabile ed è distruttiva dell’identità delle donne cristiane che, secondo questa interpretazione, avrebbero fatto parte della chiesa senza assumere posizioni direttive. In realtà, la maggior parte degli esegeti sono concordi nell’affermare che Gesù non lasciò un “progetto completo” per l’organizzazione della chiesa e che le prime comunità cristiane non erano affatto unite da un pensiero solo, da una verità intoccabile; ogni gruppo rifletteva sulla propria esperienza che veniva valorizzata come tale e non come parola unica, adatta per ogni contesto ed ogni tempo (Franςois Vouga “Le origini del Cristianesimo”, Claudiana Editrice, Torino, 2002).

            La scarsità di informazioni sulle donne è dovuta probabilmente al fatto che le prime comunità ed i primi autori cristiani vivevano in un mondo patriarcale condividendone la mentalità ed i valori. Il lavoro di selezione e redazione, considerando le tradizioni e le informazioni sulle donne irrilevanti o, al contrario, pericolose per la stabilità dell’organizzazione sociale, le ha rese probabilmente in parte irrecuperabili. Questa considerazione è particolarmente vera per i Vangeli e gli Atti degli Apostoli che furono scritti verso la fine del I secolo quando il processo di patriarcalizzazione della chiesa primitiva era già ben avviato. Pertanto, sostiene Elisabeth Schüssler Fiorenza, la selezione e la trasmissione delle prime tradizioni cristiane hanno permesso la costruzione della marginalità storica delle donne ma non rispecchiano la realtà storica della funzione direttiva e dell’attiva partecipazione delle stesse al movimento cristiano delle origini.

Ciò che però appare molto interessante e particolarmente significativo è che, nonostante gli autori cercassero di adattare il ruolo delle donne all’interno delle comunità cristiane rendendolo simile a quello occupato nella famiglia e nella società, “non ci sia stato tramandato un solo racconto o una sola affermazione in cui Gesù chieda che le donne si adattino all’ambiente culturale patriarcale e vi si sottomettano.”[28]

 

Il movimento di Gesù’

 

“Discepolato di uguali”: inclusività ed uguaglianza

 

            Il movimento di Gesù fu un movimento radicale di controcultura che proponeva alla società valori ed esperienze di vita nuovi, contrapposti ai modelli gerarchici e patriarcali diffusi al tempo in cui si sviluppò. Fu un movimento rinnovatore interno al giudaismo che presentava un’opzione alternativa alle strutture dominanti, piuttosto che un movimento di opposizione che rifiutava i valori e la prassi del giudaismo stesso. Per questo motivo il cristianesimo aveva attratto persone di tutte le estrazioni sociali ed in particolare quelle che soffrivano di una sorta di privazione relativa; essa non si riferiva  necessariamente alla mancanza di beni materiali ed essenziali ma alla situazione di coloro che vivevano una condizione di discriminazione o che si sentivano scontenti, sfavoriti, alienati (intellettuali, donne, stranieri, ecc.). Seguire Gesù non significava solo condividerne la visione della vita ed i valori ma partecipare della sua prassi e del suo impegno sociale.

            L’immagine che il movimento di Gesù suggerisce alla nostra memoria è quello del pasto festoso di un banchetto o di una festa di nozze cui tutti sono invitati a prendere parte, condividendo cibi e bevande e assaporando la gioia di stare insieme e di sperimentare il regno di Dio già in questo tempo. La mensa è simbolo dell’accoglienza che caratterizza la comunità e dell’amore inclusivo di Dio per tutta l’umanità. Non esistono luoghi, regole sacre e inviolabili, pratiche cultuali che vengano prima delle persone; è il popolo che viene posto in posizione centrale e rappresenta il terreno in cui la presenza e l’amicizia di Dio si esprime. Amicizia che, avvicinando tutti gli esseri umani, anche quelli considerati menomati, impuri o peccatori, genera pienezza, libera dall’angoscia e dà significato all’esistenza. Quindi Gesù mangia con i poveri, i peccatori, i pubblicani e le prostitute, con tutti coloro che, nella mentalità giudaica, non appartengono al cosiddetto “popolo santo”, che sono, in qualche modo, carenti agli occhi dei “giusti”.

            E’ un orizzonte inclusivo: tutti sono chiamati per nome ed invitati, accolti al banchetto, donne e uomini, peccatori e “giusti”, prostitute, farisei. Nessuno viene rimandato da dove è venuto, escluso perché non risponde a canoni predefiniti. Per Gesù ciò che è centrale è la pienezza di tutti e non la sola santità degli “eletti”. “Perciò le sue parabole traggono immagini anche dal mondo delle donne. Le sue guarigioni e i suoi esorcismi assicurano la pienezza alle donne. Il suo annuncio di capovolgimento escatologico – molti che sono primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi – si applica anche alle donne e alla disuguaglianza prodotta dalle strutture patriarcali.”[29]

La proposta di Gesù intende rendere le persone complete, sane, pure, forti, riscattare l’umanità e la vita del popolo. La salvezza non è solo per l’anima ma per la totalità della persona, donna e uomo, nei suoi rapporti sociali. Nell’esercitare gli esorcismi Gesù, riconoscendo la presenza di poteri che sfuggono dal nostro controllo, è preoccupato non dell’impurità, ma degli effetti disumanizzanti e debilitanti provocati da quelle forze che oggi non chiameremmo più “satana” ma strutture oppressive e sistemi di potere non rispettosi della persona.

“In verità io vi dico, i pubblicani e le prostitute entrano prima di voi nel regno di Dio” (Mt 21,31). In una società patriarcale la prostituzione, sebbene sia una funzione essenziale del patriarcato, è la forma peggiore di peccato, di contaminazione per una donna ed è assolutamente provocatorio e scandaloso che esse entrino nel regno di Dio prima degli israeliti fedeli e giusti. L’insieme di pubblicani, peccatori e prostitute doveva indicare, non solo la gravità della situazione morale ma anche una classe sociale così povera da essere costretta a dedicarsi a professioni poco onorevoli per sopravvivere. Nella Palestina distrutta dalla guerra, dall’imposizione fiscale coloniale e dalla carestia, le donne che si dedicavano alla prostituzione erano probabilmente numerose; si trattava principalmente di donne senza un mestiere, cadute in miseria o che non potevano trarre sostentamento dalla loro posizione nella famiglia patriarcale.

I peccatori di tutte le categorie erano persone emarginate, pagate male e spesso anche maltrattate. Erano gli scarti della società palestinese che rappresentavano la maggioranza dei discepoli di Gesù, tra essi molte erano donne, e che, nella sua sequela, diventavano i primi, erano saziati nei loro bisogni di amore e riconoscimento, non scacciati ma invitati. Nel ministero di Gesù, Dio viene sperimentato come amore che non esclude nessuno; a chi ascolta egli lancia una sfida alla solidarietà e all’uguaglianza con l’ultimo in Israele.

            Il movimento di Gesù è dunque un “discepolato di uguali” dove i seguaci sono tutti invitati alla stessa prassi di inclusività e uguaglianza testimoniata dal maestro. In questo modo gli esclusi, coloro che erano senza futuro, tornavano a sperare, erano nuovamente accolti in una comunità, tornavano ad avere dignità e fiducia in sé in quanto figli amati da Dio.

            “Noi definiamo i migliori interessi delle donne come i migliori interessi della donna più povera, più offesa, più disprezzata, più maltrattata della terra… Nessuna donna sarà libera fino a quando non saranno libere tutte le donne.”[30] Una delle prime dichiarazioni dell’odierno movimento di liberazione delle donne esprime un concetto di uguaglianza molto simile a quello testimoniato da Gesù.

            Nel I secolo la maggior parte dei poveri, degli affamati e degli sfruttati erano donne, soprattutto quelle donne che non potevano contare su intermediari maschi che avrebbero potuto farle partecipare dei benefici della società patriarcale.

            La preoccupazione di Gesù per i poveri e gli esclusi non va pertanto contrapposta al superamento delle strutture patriarcali. Le tradizioni su Gesù ci raccontano che egli stava dalla parte dei poveri e si preoccupava anche per le donne ma senza mai esporre in modo esplicito una strategia volta ad un cambiamento delle strutture sociali. Egli sovverte implicitamente le strutture economiche e quelle patriarcali proponendo rapporti umani diversi e liberanti. Nel mondo di Dio donne e uomini non hanno più un rapporto di sottomissione e dominio, sono persone che entrano in una vita comune, in un reciproco rapporto sociale perché sono state create uguali nelle loro differenze individuali.

            La comunità del discepolato di uguali, secondo l’interpretazione maggioritaria delle teologie femministe, si contrappone alla tradizionale famiglia patriarcale “chiunque avrà fatto la volontà di Dio mi è fratello, sorella e madre” (Mc 3,35). Il movimento cristiano non si fondava sull’eredità razziale e nazionale o su linee di parentela ma su un nuovo vincolo familiare con Gesù che includeva persone provenienti da ambienti razziali, culturali e nazionali molto diversi. Questa è la vera famiglia di Gesù dove le donne sono chiaramente comprese fra i suoi seguaci. Non sono invece citati i padri: la nuova famiglia di Gesù sembra implicitamente respingere il loro potere ed ogni pretesa di dominio sugli altri; è un invito all’abolizione delle strutture patriarcali ed alla rottura netta con questo sistema basato sulla contrapposizione padrone/schiavo. “Il nuovo vincolo nel discepolato di uguali non ammette padri e in questo modo respinge il potere e la stima che la struttura patriarcale dava loro.”[31] Nella comunità la vera autorità ha le sue radici nella solidarietà “dal basso” e nel lavoro con coloro che sono servi all’interno di essa.

 Solo se i racconti di Gesù sulle donne vengono situati all’interno della narrazione complessiva della sua vicenda e del suo movimento in Palestina, si può adeguatamente comprendere il loro carattere sovversivo. Infatti, nella comunità del discepolato di uguali, il ruolo della donna non è periferico ma centrale per la prassi della “solidarietà a partire dal basso”.

Le donne che avevano sperimentato la bontà del Dio di Gesù favorirono la diffusione del suo movimento in Galilea e promossero la partecipazione ad esso anche da parte dei non giudei salvaguardando i valori di totale inclusività ed uguaglianza del discepolato di Gesù. Le donne galilee ebbero inoltre una funzione decisiva per la continuazione del movimento anche dopo l’arresto, l’esecuzione della condanna a morte del maestro e la sua sepoltura. Esse non fuggirono da Gerusalemme dopo la sua cattura come probabilmente fecero molti uomini tornando alla terra natia, ma furono le prime a descrivere la loro esperienza accanto alla tomba vuota e a testimoniare la notizia che la forza rivitalizzante di Dio si era manifestata in Gesù. Maria di Magdala fu la più significativa fra le discepole galilee, quella che viene indicata dalla tradizione come la prima a ricevere la visione di Gesù risorto. 

I testi e le notizie storiche sul coinvolgimento delle donne, come si è già detto, sono la punta di un iceberg nella quale emergono le donne più importanti del movimento cristiano primitivo non come eccezioni ma come esempi rappresentativi, sopravvissuti al silenzio storico, delle donne del cristianesimo primitivo che consentiva ad esse di partecipare pienamente e di assumere posizioni direttive. Insegnavano, predicavano, testimoniavano, fondavano chiese domestiche; la loro autorità ed il loro ministero erano rivolti a tutti e non si esercitavano solo a servizio di donne e bambini e dentro ruoli e funzioni specificamente femminili.

 

La formula battesimale di Galati 3,26-28: la libertà

 

Il tema della libertà “è il concetto teologico centrale che riassume la situazione del cristiano davanti a Dio e in questo mondo.”[32] Nel I secolo, quindi, una donna schiava che diventava cristiana leggeva la formula battesimale espressa in Galati 3,26-28[33] non solo come espressione per dar forma, in modo simbolico, alla comunità cristiana, ma anche nella sua dimensione operativa, per il potere di incidere sulle relazioni sociali e sulle strutture della chiesa. Gli intrecci tra religione ed organizzazione sociale erano già evidenti nel I secolo ed il messaggio di Gesù alimentava le speranze di cambiamento dell’esistenza interiore, ma anche delle istituzioni sociali patriarcali. “Se il rito primario di iniziazione non era più la circoncisione ma il battesimo, le donne potevano allora diventare membri a pieno titolo del popolo di Dio, con gli stessi diritti e gli stessi doveri. Questo produceva un cambiamento fondamentale, non solo nella loro posizione davanti a Dio, ma anche nella loro situazione e funzione nella chiesa e nella società, perché nel giudaismo le differenze religiose sancite dalla legge trovavano la loro espressione anche nella condotta comunitaria e nella pratica sociale.”[34] L’espressione “Non c’è né maschio né femmina” può quindi significare che i rapporti tra sessi ed il matrimonio patriarcali non fanno più parte della nuova comunità di Gesù, che le donne e gli uomini non vengono più definiti sulla base dei loro ruoli femminili o maschili ma per il loro discepolato e per la forza che ricevono dalla Spirito. S’invoca quindi non solo l’abolizione delle divisioni culturali e religiose, del dominio e dello sfruttamento della schiavitù, ma anche di quello fondato sulle differenze di genere. Senza nessuna idealizzazione delle origini cristiane, le prime comunità del movimento di Gesù si muovono nella direzione del superamento di tutte le distinzioni di religione, razza, classe, nazionalità e sesso.

Questo orizzonte di riferimento poneva dunque il movimento cristiano in una condizione di forte tensione con gli istituti della schiavitù e della famiglia patriarcale di cui dà testimonianza Paolo di Tarso con i suoi scritti e le sue esortazioni. Il conflitto dunque si estendeva alla società più ampia, nell’ambito della quale la consapevolezza del privilegio sociale e religioso maschile era diffusa fra gli ebrei ma anche fra i greci ed i romani. Per gli uomini, pertanto, la conversione ed il battesimo comportavano una rottura con la propria identità sociale e religiosa ed una rinuncia più radicale rispetto alle donne ed agli schiavi che potevano invece intravedervi un’apertura alla speranza. I padroni dovevano abbandonare ogni potere sugli schiavi così come i mariti dovevano abbandonare il dominio su moglie e figli. E poiché i privilegi sociali degli uomini si accompagnavano a quelli religiosi, l’adesione al movimento di Gesù comportava anche la perdita delle proprie prerogative religiose, aprendo la strada all’esercizio di funzioni direttive anche da parte delle donne.

 

“Patriarcalismo d’amore”: il processo di istituzionalizzazione

 

La condizione di conflitto con le strutture sociali in cui viveva il movimento cristiano delle origini portò ad un processo di graduale istituzionalizzazione. Il consolidamento dei ministeri e delle strutture religiose si verificò nella seconda metà del I secolo anche se si scontrò con una vasta opposizione proveniente dalla base.

Il patriarcalismo d’amore, in contrapposizione col radicalismo provocatore di conflitti del movimento di Gesù, proponeva un diverso modello di integrazione che consentisse alle comunità cristiane di svilupparsi all’interno delle strutture sociali gerarchiche e patriarcali. L’uguaglianza proposta da Gesù diventava così una condizione tutta interiore che unisce le persone “in Cristo” mantenendo però in vita le fondamentali differenze sociali e le gerarchie dell’ordine politico ed ecclesiale. Secondo questo modello l’elemento religioso cristiano dell’amore (agàpe) è ciò che serve per ridurre le tensioni ed accettare, con spirito di sacrificio e nel nome di Gesù, le disparità esistenti e le situazioni di sfruttamento.

Il processo di graduale patriarcalizzazione della chiesa che ha comportato il passaggio dal carisma al ministero, dalle strutture egualitarie dei primi tempi all’ordine gerarchico, dal movimento radicale di Gesù al patriarcalismo d’amore, viene visto da alcuni studiosi come storicamente necessario e giustificato in base a fattori sociologici e politici e non teologici. Scrive G. Theissen: “L’esistenza di stabili istituzioni ecclesiastiche la dobbiamo al patriarcalismo d’amore cristiano, che ha talmente attenuato – con successo e non senza intelligenza – il radicalismo del cristianesimo primitivo, da consentire alla fede cristiana di presentarsi come una forma di vita traducibile in prassi collettiva.”[35] Una valutazione analoga viene espressa anche da E. Pagels che scrive “Se fosse rimasto multiforme, sarebbe molto probabilmente scomparso del tutto dalla storia,… La sopravvivenza della tradizione cristiana è dovuta, a mio parere, alla struttura organizzativa e teologica sviluppata dalla chiesa emergente.”[36]

Gli studiosi che riconoscono come validi i concetti sociologici di “necessità storica” e di “successo” sostengono che la progressiva patriarcalizzazione del movimento cristiano era inevitabile e che per crescere, svilupparsi e sopravvivere storicamente le comunità cristiane dovevano adattarsi ed assumere al loro interno le tradizionali strutture patriarcali della società nella quale erano inserite.

L’istituzionalizzazione del movimento cristiano primitivo portò di fatto alla patriarcalizzazione delle funzioni direttive ecclesiali e quindi all’esclusione delle donne dai ministeri della chiesa o alla loro riduzione a posizioni subalterne e marginali. Relegate in gruppi privi di potere, dovevano limitarsi al servizio alle donne e conformarsi agli stereotipi femminili della cultura patriarcale. Il processo di istituzionalizzazione delle strutture ecclesiastiche e la progressiva emarginazione delle donne procedono con progressione direttamente proporzionale. In questa prospettiva socio–politica l’eliminazione delle donne dalle funzioni ecclesiali e la loro emarginazione in una chiesa patriarcale viene presentata come necessità storica, come l’unica forma sociologica possibile e storicamente produttiva di chiesa.

Le chiese delle origini, quindi, cercarono di confrontarsi con un mondo ostile al loro messaggio e, nel tentativo di evitare che un comportamento femminile innovativo e controcorrente desse scandalo e compromettesse la sopravvivenza del movimento, sacrificarono le donne che furono invitate a ritirarsi nella sfera privata della casa.

Anche Paolo, nelle sue Lettere, per quanto affermi in modo inequivocabile l’uguaglianza di donne e uomini all’interno delle comunità cristiane, è preoccupato di ridurre le tensioni tra esse e la società più ampia e di non dare scandalo. Le donne, come gli uomini, afferma, esercitano la profezia, rivolgendo all’assemblea parole di guida, di consiglio e conforto, dirigono il culto della comunità, insegnano con autorità ed hanno gli stessi diritti e doveri all’interno dei rapporti matrimoniali. Tuttavia, a vantaggio della missione, egli introduce delle limitazioni circa il comportamento delle donne (e non degli uomini) che partecipano alle assemblee religiose; ad esempio formula l’invito ad avere delle acconciature “convenienti” o a non parlare durante le assemblee perché questo è contrario “alla legge e alla tradizione.” Pertanto Paolo, da un lato afferma l’uguaglianza e la libertà cristiane aprendo alle donne la possibilità di una vita indipendente ed attiva, dall’altro “egli subordina il comportamento delle donne nel matrimonio e nel culto agli interessi della missione cristiana e riduce i loro diritti non solo come ‘ispirate’ ma anche come ‘donne’.” La tradizione successiva “prolungherà queste restrizioni fino a trasformare l’uguaglianza in Cristo fra uomini e donne, fra schiavi e liberi, in un rapporto di subordinazione nella famiglia che, da un lato, elimina le donne dalla direzione del culto e della comunità e, dall’altro, limita il loro ministero all’ambito femminile.”[37]

Secondo gli studi di Elisabeth Schüssler Fiorenza il modello patriarcale di sottomissione permise quindi, soprattutto, di ridurre la tensione fra la comunità cristiana e la famiglia patriarcale pagana. In particolare la conversione di mogli e schiavi provocò tensioni politiche fra la società pagana e il movimento cristiano che venne accusato dagli scrittori pagani del II secolo di distruggere la famiglia. Tali conversioni sovversive e rivoluzionarie dei membri sottoposti al paterfamilias erano considerate anche minacce all’ordine politico poiché nell’antichità l’ordine patriarcale della casa era considerato modello per lo Stato. Se le mogli e gli schiavi cristiani permanevano sottomessi ai loro signori potevano dimostrare che le accuse rivolte contro i cristiani erano solo calunnie ingiustificate e che essi non erano nemici dell’ordine politico romano ma che, anzi, lo sostenevano.

Il messaggio di Gesù, liberatorio per le donne che si sentivano finalmente e pienamente accettate e valorizzate da Dio, rese capaci di vivere a pieno le loro possibilità, veniva così snaturato e “l’evangelo diventava un modo per bloccare un potenziamento in atto, che però non si è potuto fermare.”[38]

Anche se i “passaggi” avvengono in maniera differenziata da comunità a comunità e in tempi diversi, i valori supremi diventano l’obbedienza e la sottomissione a coloro che detengono l’autorità in famiglia e nella chiesa. Nelle comunità cristiane il ministero e le funzioni direttive non dipenderanno più dalle risorse e dai doni spirituali di una persona ma da caratteristiche di età e di genere. All’inizio prevaleva la pratica dell’uguaglianza, molti e molte insegnavano, battezzavano e presiedevano il culto e la comunità; più tardi si affermò un ordine diverso per governare la chiesa poiché sembrò, col passare del tempo, sempre più irrazionale e volgare pensare che tutti potessero alternarsi nell’animazione delle comunità e nell’interpretazione delle scritture. E così, nei secoli successivi, solo la gerarchia ufficiale poté sostenere di parlare con la “voce stessa di Dio” e tutto ciò che non rientrava nei canoni e nella dottrina veniva definito eresia.

La teologia femminista vuole mettere a nudo questa strumentalizzazione del Vangelo attraverso lo studio di quei passi in cui Gesù incontra personaggi femminili ed il suo messaggio ha un effetto liberante. Nella sua esperienza le donne non vengono mai emarginate o discriminate ma valorizzate in quanto soggetti autonomi, adulti, in grado di rispondere al suo invito. E’ di notevole rilievo ed importanza che i Vangeli, nati da una cultura in cui le donne sono limitate nel loro protagonismo e considerate pressoché minorenni, presentino la figura di Gesù in relazione di reciprocità con esse; il suo è un rapporto da persona a persona, senza alcuna discriminazione ed in atteggiamento di ascolto, attenzione e condivisione, in aperto contrasto con le regole di vita comunemente vigenti all’epoca. Gesù si accorge di ciascuno (ricordiamo la donna che lo tocca in mezzo alla folla) e partecipa delle vicende di ogni persona.

 

I vangeli di Marco e Giovanni: le donne come modelli del vero discepolato

 

Mentre gli altri Vangeli e testi del Secondo Testamento sono preoccupati di stabilizzare la condizione delle prime comunità cristiane e di ridurre il contrasto e la forte tensione con le strutture patriarcali della famiglia e della Chiesa del tempo in cui si svilupparono, gli evangelisti detti “Marco” e “Giovanni” mettono in evidenza il carattere alternativo delle comunità cristiane e insistono sul tema del servizio e dell’amore come nucleo centrale della vita di Gesù. Il comportamento altruistico come prassi e stile di vita cristiana viene indicato come appropriato alla dirigenza cristiana e la possibilità per le donne di rivestire ruoli di responsabilità è resa esplicita. “Gli autori dei Vangeli di Marco e di Giovanni hanno reso impossibile alla chiesa cristiana dimenticare l’invito di Gesù a seguirlo sulla via della croce. Perciò, dovunque l’evangelo sia predicato e ascoltato, promulgato e letto, ciò che le donne hanno fatto non è completamente dimenticato, perché il racconto evangelico ricorda che il discepolato e la guida apostolica delle donne sono parte integrante della prassi alternativa di Gesù, centrata sull’agape e sul servizio.”[39]

 

Il Vangelo di Marco

 

L’intento dell’autore è stato quello di rafforzare la prassi e la fede della comunità alla quale si rivolgeva (ultimi trent’anni del I secolo) facendo propria la tradizione e l’esperienza di Gesù e cercando di rispondere ai bisogni, alle ansietà, alle debolezze, ai conflitti che caratterizzavano la comunità stessa ed i discepoli descritti nella loro dimensione più umana, con le loro fragilità, reazioni ed insuccessi.

Egli, lontano dal sostenere la necessità di adeguarsi alle strutture sociali di dominio e sottomissione, afferma invece che non si deve aver timore di violarne le norme, di andare controcorrente e di sperimentare, di conseguenza, la persecuzione e la sofferenza.

Il tema della liberazione e della trasformazione è dominante nel Vangelo di Marco dove i racconti degli incontri con Gesù parlano di guarigioni dall’angoscia e dal senso di morte, di grandi cambiamenti, di aperture a nuove prospettive, di riconquista di benessere e identità. La sua morte è intesa come un riscatto, come denaro pagato per la liberazione degli schiavi; il testo non parla di liberazione dai peccati ma di trasformazione delle persone in cittadini liberi che non possono più tollerare relazioni di dominio e sottomissione.

Gli studiosi sembrano concordare sul fatto che la descrizione proposta da Marco dei più significativi discepoli di genere maschile sia particolarmente critica e con connotazioni negative. Essi non sempre comprendono Gesù e la sua missione, s’ingannano sulla sua identità, lo tradiscono e lo abbandonano proprio nei momenti più critici della sua esistenza, quando avrebbe avuto bisogno della vicinanza e del calore dei suoi amici. Nel racconto della passione nessuno dei discepoli maschi lo segue nel percorso drammatico che porta alla croce, essi lo abbandonano temendo che la vicinanza di Gesù, condannato per insurrezione politica, possa mettere in pericolo le loro vite. Nell’ampia cerchia dei discepoli di Gesù, vi sono però anche molte donne (alcune sono citate per nome) che sembrano invece offrire l’esempio del vero discepolato. Tra esse alcune lo hanno seguito dalla Galilea a Gerusalemme, lo hanno accompagnato nel cammino verso la morte, sono state viste ai piedi della croce nonostante fossero consapevoli che questa esposizione avrebbe messo a rischio la loro sicurezza e la vita stessa. Sono le donne che svolgono le azioni più significative in tutto il racconto della passione e mettono in evidenza la polemica verso i discepoli maschi: è una donna che unge Gesù per la sepoltura, è una serva che smaschera il tradimento di Pietro e lo provoca ad agire coerentemente con la sua promessa, sono due discepole, Maria di Magdala e Maria madre di Iose, che testimoniano del luogo in cui Gesù è sepolto e sono tre donne che ricevono la notizia della sua resurrezione.

Tre verbi sono usati per descrivere il discepolato delle donne: il verbo seguire racconta della chiamata e della decisione di diventare discepoli accettando di lasciare ogni sicurezza e di rischiare sofferenze e persecuzione; il verbo servire che riassume l’intero ministero di Gesù e sottolinea il fatto che le discepole hanno praticato il vero ministero. L’ultimo verbo, salire, si riferisce a tutte le discepole che avevano seguito Gesù dalla Galilea a Gerusalemme e fin sotto la croce e che sono descritte come testimoni della sua vita e della sua sofferenza.

“Malgrado il grandissimo timore per la loro vita, le donne discepole stettero con Gesù nella sua sofferenza, cercarono di onorarlo nella sua morte ed ora diventano proclamatrici della sua risurrezione. … Coloro che sono i più lontani dal centro del potere religioso e politico – gli schiavi, i bambini, i gentili, le donne – diventano i modelli del vero discepolato.”[40]

 

Il Vangelo di Giovanni

 

L’autore del Vangelo di Giovanni sottolinea in modo particolare i temi centrali dell’amore altruistico e del servizio reso agli altri. Gesù chiede ai discepoli di amarsi reciprocamente ed essi danno testimonianza al mondo in quanto vivono personalmente l’esperienza dell’amore. Agire l’amore nelle relazioni di ogni giorno è un atto pubblico di accusa contro le potenze distruttive dell’odio, della morte e del dominio che sono “di questo mondo”. Il quarto Vangelo non propone quindi un adeguamento alle strutture patriarcali greco – romane di potere ma racconta di una comunità alternativa nella quale l’amore raggiunge la sua massima espressione quando si rinuncia alla propria vita per gli amici.

I valori del servizio e dell’amore sono il riferimento centrale anche per l’esercizio di ruoli di guida e funzioni direttive nella comunità e nessuno ne è escluso a priori. L’autore del Vangelo di Giovanni non sottolinea la guida speciale dei dodici Apostoli ma la realtà che tutti coloro che hanno seguito Gesù, condividendo la sua esperienza, sono nati ad una vita nuova ed hanno ricevuto la forza della nuova creazione. Il Gesù giovanneo celebra l’ultima cena con tutti i discepoli e non solo con i Dodici, così come il Gesù risorto appare a tutti i discepoli e tutti sono destinatari della stessa missione ricevuta dal maestro.

Nella comunità di Giovanni il discepolato e le funzioni direttive interessano donne e uomini; all’inizio ed alla fine del ministero di Gesù è posto un racconto riguardante una donna e sono le donne che, nei momenti cruciali, emergono come discepole esemplari e fedeli e modelli per tutti coloro che appartengono alla comunità familiare di Gesù.

Il ministero pubblico di Gesù inizia col “segno” delle nozze di Cana durante le quali è Maria, sua madre, che gioca un ruolo importante per stimolare il figlio ad intervenire a favore dei suoi amici. La reazione di Gesù “Che v’è fra me e te o donna?”[41] allontana se stesso dalla madre biologica e la pone fra le discepole esemplari. Ed è in questa veste che Maria, con autorevolezza, esorta i servi a fare ciò che egli dirà.

E’ la donna Samaritana (Gv 4,1-42), incontrata presso il pozzo di Giacobbe della città di Sichar in Samaria, che dialoga con Gesù, lo riconosce, racconta poi a tutti la sua esperienza profonda e, attraverso la sua personale testimonianza, stimola molti ad avvicinarsi a lui ed a conoscerlo direttamente. La donna è descritta nel Vangelo di Giovanni come la rappresentante della missione fra i samaritani che però, attraverso l’incontro con Gesù, arrivano a fondare la propria fede non più sul racconto dei missionari, ma sulla personale esperienza della sua presenza e rivelazione.

Marta, Maria e Lazzaro di Betania (Gv 11, 1-46) sono descritti come amici che Gesù amava. In Giovanni, Marta e Maria non sono descritte in contrapposizione l’una con l’altra come in Luca, ma come due “ministri” che svolgono funzioni diverse durante un pasto che ha luogo una domenica sera, giorno in cui la chiesa primitiva celebrava l’eucarestia. Mentre “Marta rappresenta la piena fede apostolica della comunità giovannea, …Maria di Betania dà forma alla giusta prassi del discepolato.”[42]

L’ultima donna che compare nel quarto Vangelo è Maria Maddalena che, per l’importanza del suo ruolo, verrà definita l’apostola degli apostoli nei vangeli apocrifi. Ella è presente nei momenti più tragici e significativi della vita di Gesù. La si trova ai piedi della croce, è lei che scopre la tomba vuota ed è anche la prima alla quale appare il Risorto e che da questi viene inviata alla sua “nuova famiglia” per riferire le sue parole. Maria Maddalena diventa il simbolo della condizione dei discepoli dopo la morte di Gesù il cui grande dolore si trasforma in gioia, come Gesù stesso aveva promesso durante il suo discorso di addio. Essa è descritta come discepola fedele in tre modi; Maria Maddalena è la discepola che, nonostante il suo dolore, “cerca” Gesù e lo trova. Ella è chiamata per nome e riconosce la sua voce: Gesù la conosce ed in questo modo la descrive come una dei “suoi”; Maria Maddalena riconosce Gesù risorto come maestro e la sua risposta è quella del vero discepolo.

 

L’umanità di Gesù

 

            La teologia patriarcale insiste sulla maschilità di Gesù come data storicamente e rivelata da Dio. Questo argomento, insinuato in modo persuasivo nella cultura e divenuto sapere comune, sostengono le teologhe femministe, è stato utilizzato per garantire l’identità maschile degli ecclesiastici, legittimare le loro aspettative di autorità e negare l’accesso delle donne ai vari livelli di direzione della chiesa.

Per le teologhe femministe non è in discussione che Gesù di Nazareth fosse un uomo e che il suo essere maschio, valore e limite della sua realtà storica, facesse parte della sua identità personale così come la sua appartenenza etnica, la classe, ecc.. Il problema sorge quando tale maschilità assume rilevanza teologica essendo innalzata, resa essenziale per la sua funzione, strettamente connessa ad essa; quando l’uomo maschio diventa il paradigma dell’essere umano e la donna il suo “altro” complementare, nell’ipotesi più favorevole, o inferiore; quando la maschilità storica di Gesù diventa la rivelazione definitiva che deve essere creduta dai cristiani. Il sospetto è che “il fatto che di Dio si parla sempre in termini maschili e che Gesù era uomo abbia portato ad un culto idolatrico della maschilità come attributo divino.”[43] Secondo questa visione solo la persona del maschio rappresenta la perfezione dell’umanità in cui la corporeità femminile viene contrapposta alla superiore spiritualità maschile; le donne possono “salvarsi” solo sopprimendosi in quanto donne, rinunciando alla propria sessualità.

            Le teologhe femministe cristiane rispondono all’affermazione dogmatica della maschilità di Gesù proponendo una comprensione del Gesù storico come profeta, liberatore e rappresentante dell’umanità liberata, della nuova umanità, femminile e maschile. Per le teologhe femministe della liberazione “sono la prassi e l’umanità del Gesù storico ad essere teologicamente rilevanti, non la sua virilità. … la sua solidarietà con i poveri e i disprezzati, la sua chiamata a un discepolato di servizio volontario, la sua condanna, morte e risurrezione – in breve – la pratica liberante di Gesù è importante, non la sua maschilità. L’azione di Gesù diventa il simbolo e il modello del modo completo, ma non ancora realizzato, di essere umano.”[44]

            Le teologhe femministe cosiddette “post-cristiane”, di cui Mary Daly è la più significativa rappresentante, si sono invece allontanate dal cristianesimo considerando che, per il suo carattere patriarcale fondamentale, non ci sia alcuna possibilità di riforma. Mary Daly ritiene che il modello di relazione asimmetrica, ineguale tra Dio e umanità è stato utilizzato per giustificare la relazione dominio-sottomissione tra uomo e donna e tra gli esseri umani e la natura, per imporre sistemi gerarchici. Nell’ordine delle creature, così come tutto è soggetto a Dio, tutto è soggetto all’uomo. Quando “Dio è maschio, allora il maschio è Dio.”[45] Alla deificazione della maschilità corrisponde la svalutazione della femminilità. Mary Daly rigetta Gesù considerato come Dio e come maschio cui è affidata, secondo la tradizione cristiana, la salvezza; sostiene che nessun maschio può svolgere una missione di salvezza proprio perché le donne è dalla dominazione dei maschi che vogliono essere liberate. In questo senso la Daly ha assunto una posizione netta sostenendo che non sia possibile essere allo stesso tempo femministe e cristiane, negando che il cristianesimo possa essere utile e creativo per il raggiungimento della piena umanità delle donne. Ella pensa che i simboli del cristianesimo non possano essere riabilitati e che la teologia cristiana non serva ad altro che ad imporre tali simboli che hanno creato e rafforzato immagini di dominazione. Queste immagini rappresentano la nostra relazione con Dio e, di conseguenza, le nostre relazioni tra persone e con il mondo, relazioni che, a suo parere, opprimono e distruggono la reciprocità umana e il rapporto creativo tra l’umanità e il mondo.

            Mary Daly ritiene che le donne debbano distruggere gli idoli che offrono una visione sessista del mondo e trovare nuovi simboli per dare ordine e significato alla loro vita, simboli che non si prestino ad essere sfruttati in modo distruttivo e che favoriscano una comprensione più creativa del mondo e dell’umanità.  Nel tentativo di dare un nome a Dio senza stringerlo in definizioni assolute ed immodificabili, al “Dio che sta al di là e al di sotto degli dèi che ci hanno rubato la nostra identità”,[46] è interessante riflettere sulla sua proposta di pensare Dio come un verbo, anziché definirlo con un sostantivo. La concezione di Dio come verbo e della relazione Dio-universo come partecipazione consente di aprire un orizzonte più dinamico e creativo, di non considerare “la suprema realtà” come oggetto che può essere conosciuto, blandito, manipolato, come “Altro” in opposizione all’umanità e al mondo, ma in rapporto di interdipendenza e reciprocità con esso. In questa visione la relazione con Dio non è più caratterizzata da un rapporto di superiorità/inferiorità ma dalla “partecipazione all’essere”, al processo creativo del divenire. E questa dimensione offre quindi anche un modello per le relazioni tra le persone, tra donna e uomo, con la natura. La Daly ritiene, in questo modo, che la teologia debba essere messa al servizio del cambiamento, della trasformazione e liberazione in una impresa che deve rispondere ai bisogni delle persone.

            La teologa femminista cattolica Sheila Greeve Davaney nel suo saggio “Teologia femminista e teologia cristiana” espone alcune osservazioni sulle posizioni di Mary Daly rispetto alla figura di Gesù. La Davaney ritiene che la maschilità di Gesù non possa escludere la possibilità di riflettere la presenza divina. “Credo anzi che non si possa dire che in Gesù l’immagine di Dio venga strumentalizzata per legittimare la sottomissione e lo sfruttamento, perché Dio stesso vi è sfruttato e sottomesso, e la dignità e il valore sono riaffermati. La persona di Gesù qualifica l’ordine esistente come disordine e ne esige la trasformazione.”[47] Nella morte e resurrezione, dice, si può vedere una critica della situazione presente di oppressione ma anche una promessa sulla possibilità della sua trasformazione. Sotto questa luce Gesù può essere considerato una manifestazione del nuovo essere ed un modello non di contrapposizione e di dominazione, ma di reciprocità.

            Sebbene le posizioni presentate dalle teologhe femministe cristiane e da quelle post-cristiane giungano a conclusioni differenti che le portano a pensare alla possibilità di recuperare, a partire dai testi, l’essenziale messaggio di liberazione di Gesù o a rifiutare ogni possibilità di riforma interna al cristianesimo, ciò che le accomuna è la critica della teologia cristiana che ha rinunciato a denunciare l’oppressione e la dimensione gerarchica da essa stessa perpetuata.


Capitolo 3

 

PAROLE CHIAVE

 

 

            Sono molti i temi ricorrenti e le parole significative che vengono riproposti e si incontrano nella lettura dei testi di teologia femminista; a partire da essi le studiose sensibili hanno fatto scaturire riflessioni interessanti e stimolanti perché raggiungono la profondità di esperienze con le quali ciascuno di noi si confronta e che rappresentano anche la sorgente che dà vita ad immagini nuove e creative.

In questo capitolo si prenderanno in considerazione alcune parole–chiave che aprono le porte a visioni stereotipate o liberanti, che danno il nome a significati più ampi e complessi. Parole che evocano immagini ma che da esse sono create: quando le immagini vengono riconosciute come valide, nascono anche le parole per esprimerle e disegnarle. Parole che le teologhe femministe hanno cercato di liberare dall’uso patriarcale, rimodellandole per far affiorare significati dimenticati o nuovi. Dice Mary Daly che le percezioni ingannevoli che ci separano dalla realtà sono impiantate in noi attraverso il linguaggio, che l’inganno è profondamente radicato nella trama delle parole che adoperiamo e che, ad ogni cancello che varchiamo, si aprono i nostri occhi interiori e le nostre orecchie interiori tornano ad udire. Per iniziare a sognare orizzonti nuovi è quindi importante imparare a riconoscere le parole e le immagini che richiamano gli stereotipi femminili definiti dagli uomini e che riflettono l’idea di donna che essi hanno espresso ed imposto.

 

Corpo, sessualita’, peccato

 

            Nella concezione dualistica del mondo (bene/male, spirito/corpo, cielo/terra, uomo/donna, dominio/sottomissione, ecc.) si è affermato che le donne sono “l’altro”, ciò che è totalmente diverso da Dio e, per questo, sono state loro addossate l’origine e la personificazione del male. Le donne sono state simbolicamente identificate con la metà negativa del modello dualistico e quindi con la natura, la carne, il demoniaco. Sono state da alcuni chiamate “figlie di Satana”. La donna è l’immagine della limitatezza carnale in contrapposizione alla ricerca di vita spirituale e immortale basata sulla negazione della natura. Le donne sono esseri “difettosi”, mancanti di parti che permettono loro di raggiungere la perfezione umana, limitate dal punto di vista biologico, spirituale, intellettuale. Secondo questa visione è dunque naturale che il Cristo sia un maschio perché soltanto i maschi vivono la piena umanità. E’ stretta l’associazione tra donne e peccato e tra peccato e sessualità.

            Nel patriarcato, che trova il suo fondamento proprio in concetti dualistici, si individua una buona ed una cattiva femminilità. Quest’ultima rappresenta la volontà che si identifica con i desideri istintivi del corpo in costante rivolta contro la superiorità della mente maschile di Dio; è la femminilità che si esprime al suo stato naturale, che è peccaminosa e deve essere pertanto rigettata e sottomessa. E’ ciò che trascina il maschio alla corporeità, al peccato e, quindi, alla morte. La femminilità buona, quella che viene esaltata, identifica invece la creatura che si offre come strumento passivo della volontà maschile di Dio. Un cammino spirituale è dunque possibile anche per una donna se abbandona la propria femminilità sessuale; se rinuncia alla sessualità, se non è più donna ma progredisce fino ad essere “uomo perfetto”, può ascendere da una dimensione terrena per prendere parte della dimensione spirituale riservata, “per natura”, ai maschi.

            Per Paolo di Tarso la liberazione sessuale è sinonimo della cancellazione della differenziazione sessuale. Per una donna cristiana ciò significa negazione della propria identità femminile, del proprio corpo e delle proprie capacità riproduttive. L’esigenza di mantenere il controllo maschile sulle donne e sulla loro sessualità viene così espressa da Paolo attraverso la proposta di due alternative: o la donna si orienta verso un’asessualità ascetica oppure accetta la propria sessualità con la conseguente dipendenza dalle norme e dalle istituzioni del mondo. “O una donna appartiene completamente a Cristo senza i vincoli del genere e della sessualità, e allora deve vivere come vergine o come vedova, con la possibilità di partecipare come un maschio cristiano all’attività per Cristo e a vantaggio della comunità, oppure appartiene a un uomo e si identifica con lo scopo della propria sessualità in maniera e in misura tale che la sua vita e le sue possibilità, sia come donna che come cristiana, vengono limitate sotto tutti gli aspetti dalle funzioni, dai valori e dalle istituzioni sessuali.”[48]

“La verginità rappresenta un tentativo maschile di rinascita spirituale, indipendente dalla femminilità carnale che è richiamo di finitezza.”[49] Anche il potere naturale di dare la vita viene sottratto alle madri, sminuito, attraverso l’associazione della paternità al battesimo e alla rinascita spirituale. Intorno al IV secolo con il monachesimo s’introdusse nella chiesa il concetto di verginità, nozione estranea alla tradizione ebraico-cristiana. Ma molto prima si affermarono correnti sessuofobiche di cui sono rintracciabili le premesse già in alcuni scritti del Secondo Testamento.[50] Per le donne la verginità si basava sui presupposti di peccaminosità della “carne” e di salvezza come fuga dello spirito dal corpo. Per gli uomini, invece, il celibato trovava il suo fondamento sulla peccaminosità della donna identificata con la “carne”.

E’ evidente che questi concetti, diffusisi nel tempo sia a livello sociale che nell’ambito delle strutture religiose ed entrati a far parte del senso comune, hanno determinato, anche negli anni successivi, l’incapacità del cristianesimo di costruire una visione serena e positiva della sessualità, da sempre accompagnata da paure e limitazioni imposte dalle istituzioni ecclesiastiche e mai valorizzata come espressione umana naturale e gioiosa dell’amore.

            Il peccato umano viene fatto risalire al peccato di Eva, visione antica della donna come tentatrice dell’uomo, prima peccatrice, donna corrotta con tutte le donne che sono nate dopo di lei, rappresentazione ancora viva nell’immaginario collettivo. Adamo, che identifica la mente, viene sedotto da Eva che rappresenta invece i sensi e da quel momento ha inizio la sua infelicità. Eva, peccatrice originaria introduce la necessità della morte espiatrice di Gesù, uomo che si è innalzato con il suo sacrificio. Secondo questa visione antica ma ancora viva, la caduta determinata da una donna ha richiesto l’intervento salvifico di un uomo. Essa ha influenzato la percezione delle figure femminili della Bibbia ed il modo in cui esse sono state presentate. Passando attraverso Eva le donne sono state identificate con il corpo, la tentazione ed il peccato e questo ha alimentato e sostenuto la misoginia cristiana e l’esigenza dell’uomo e delle istituzioni di avere un controllo sulla loro sessualità.

            Nel Primo Testamento sono molti i brani che riportano episodi di violenza contro le donne.[51] Esse sono private della loro soggettività e dignità, non hanno voce o le loro grida non sono ascoltate, i loro corpi sono presentati come proprietà degli uomini, come moneta di scambio o strumento strategico per la risoluzione di conflitti, talvolta frantumati, distrutti, annientati attraverso atroci mutilazioni. Lo stupro è rappresentato come espressione di dominio o di castigo contro donne che, tentando di riappropriarsi della propria capacità di autodeterminazione, si sottraggono all’ordine patriarcale offendendolo. Secondo tale ordine “lo stupro, più che una violazione della donna, è considerato un furto all’uomo.”[52]  

Nei brani di Osea ed Ezechiele la violenza contro le donne che, metaforicamente rappresentano Israele e Gerusalemme, assume una particolare drammaticità. Così come l’infedeltà del popolo di Dio si identifica con l’infedeltà delle mogli, il punto di vista di Dio e quello dell’uomo si confondono e diventano uguali, non è più possibile distinguere le voci di Dio e del marito. La sessualità femminile è oggetto sottomesso al controllo dell’uomo, la voce della donna è completamente assente ed il suo corpo, nudo, di adultera e peccatrice è esposto allo sguardo pubblico, allo sguardo di Dio, degli amanti, del lettore. Attraverso l’umiliazione e le punizioni fisiche della donna, il marito viene ricompensato della pubblica perdita di onore e riafferma il suo controllo sulla moglie. Elizabeth Green sostiene che l’esposizione del corpo nudo e violato della donna allo sguardo di chiunque voglia vedere, propone un’immagine che può essere definita pornografica contribuendo “a creare un ordine socio simbolico in cui perdura tuttora la violenza contro le donne.” E ancora “…pensare che i libri ritenuti autorevoli da tutte le confessioni cristiane riportano immagini pornografiche risulta davvero sconcertante.” [53]

Il profeta Ezechiele rafforza il legame tra donna e peccato aggiungendo all’idea stessa di peccato come infedeltà anche quella di peccato come impurità. Il corpo femminile impuro è anche fonte di impurità, contaminato e, allo stesso tempo, pericoloso perché contaminante. Il castigo, quindi, viene intensificato giungendo fino alla distruzione stessa, reale e simbolica, della donna allo scopo di ridare ordine a ciò che viene vissuto come disordine. Ezechiele sembra presentare la violenza contro le donne addirittura come un fatto positivo, come se l’integrità del Dio maschile e dell’uomo dipendesse dall’annientamento della donna.

“Taluni dicono che l’anima informa il corpo. E se immaginassimo per un istante che è il corpo a informare l’anima, ad aiutarla ad adattarsi alla vita quotidiana, ad analizzare, tradurre, fornire la pagina bianca, l’inchiostro e la penna con cui l’anima può scrivere della nostra vita?…E’ grave errore pensarlo come un luogo da abbandonare per elevarsi verso lo spirito. Senza ili corpo non ci sarebbero le sensazioni. Non sarebbe possibile varcare una soglia, né elevarsi, né essere senza peso.”[54]

            Le teologhe femministe ritengono che solo superando le dicotomie che contrappongono il corpo e lo spirito, e tutte le altre dicotomie che soffocano la voce delle differenze, la loro integrazione e valorizzazione, è possibile immaginare un orizzonte di relazioni liberanti ed egualitarie così come la vita di Gesù ha proposto.

L’esistenza fisica non è pericolosa o periferica per la crescita umana e spirituale ma è centrale per raggiungere il benessere che è dato dall’incontro armonico e reciprocamente fecondo tra corpo e anima. Le donne sono sempre state associate alla natura e alle funzioni naturali: la maternità, la nascita, la cura delle persone più fragili, il rapporto intimo coi cicli vitali. Seppure questa associazione sia stata generalmente utilizzata per limitare le donne, la loro esperienza di contatto con i ritmi naturali può essere d’aiuto, può averle rese particolarmente sensibili alla relazione con i processi ed i bisogni vitali condivisi da tutti gli esseri umani. Può essere una risorsa per favorire la riconciliazione dell’umanità con se stessa, delle persone tra loro, dell’umanità con la natura, per favorire rapporti fondati sulla reciprocità e sulla creatività.

            Immaginare Dio come figura tenera e appassionata, impegnata a favore della guarigione, dell’integrità e del potenziamento delle sue creature; immaginare Dio che si esprime attraverso lo spirito, i pensieri, le emozioni ma che valorizza anche la natura e la corporeità, prendendosi cura dei corpi cancellati e feriti delle donne, delle bambine e dei bambini, ma anche degli uomini umiliati; immaginare Dio che, appassionato, è vicino alle vittime ma non trascura di scagliarsi con forza contro i responsabili delle violenze commesse, è forse una strada possibile per consentire alle donne di recuperare un’immagine positiva di sé, di accettarsi, di riconciliarsi col proprio corpo, di assumere attivamente la propria vita e creare attorno a sé una trama di relazioni liberanti che ha in sé la forza di propagarsi.

            Pensare al mondo come corpo di Dio, come suggerisce la teologa Sallie McFague, ci rimanda un’immagine di Dio in contatto con ogni parte dell’universo attraverso una comprensione profonda, intima, attraverso una relazione di cura. E’ un Dio che, amando il mondo, ama i corpi, ogni corpo, e lancia una sfida alla lunga tradizione interna al cristianesimo che ha represso una sessualità sana, che ha oppresso le donne tentatrici negando che i bisogni fondamentali dell’esistenza siano aspetti centrali dell’amore di Dio per tutte le sue creature, che i corpi sono degni di amore e che l’amore appassionato e l’attenzione ai bisogni dell’esistenza fisica fanno parte della piena realizzazione.

            “Il corpo è un essere multilingue. Parla con il suo colore e la sua temperatura, l’ebbrezza del riconoscimento, lo splendore dell’amore, le ceneri del dolore, il calore dell’eccitazione, la freddezza della mancanza di convincimento. Parla con la sua lieve danza, con il battito accelerato del cuore, con il crollo e la ripresa della speranza.”[55]

 

Sottomissione, sacrificio, perdono

 

            Gli stereotipi descritti nel paragrafo precedente sono strettamente collegati alla costruzione delle virtù femminili in termini di ubbidienza, umiltà, oblatività e sacrificio. “Fino ai giorni nostri il pensiero cristiano ha costruito la femminilità in termini di docilità, ricettività, passività e via dicendo negando così alle donne un’identità forte capace di resistere alla violenza cui tale regime le sottopone.”[56]

 In una società patriarcale, sostiene E. Green, la costruzione del concetto di femminilità risponde ai bisogni maschili ed il controllo sulle donne è reso possibile da una femminilità con caratteristiche di docilità. Per la “teologia della proprietà”, secondo la quale la dignità della donna deriva dal suo legame con un maschio, il diritto dell’uomo a dominare la donna si accompagna al dovere di quest’ultima di obbedire al marito; in questo modo viene data legittimità teologica ai rapporti sociali di dominio/sottomissione che vengono così sacralizzati. Obbedienza e sottomissione a coloro che detengono l’autorità diventano valori supremi. D’altra parte, ancora in età moderna, spesso le donne non sono state considerate soggetti adulti responsabili, razionali, capaci di autodeterminarsi ma esseri emotivi, dipendenti, infantili che necessitano di una guida forte. Le donne sono chiamate a realizzare la loro autentica natura sacrificando se stesse nel servizio agli altri e annullandosi con amore. “La socializzazione culturale delle donne alla femminilità disinteressata e al comportamento altruistico è rafforzata e perpetuata dalla predicazione cristiana dell’amore pronto a sacrificarsi e del servizio umile.”[57]

            Tra le qualità che il cristianesimo idealizza vi sono dunque quelle connesse al ruolo di vittima: l’amore che si sacrifica, l’accettazione passiva della sofferenza, l’umiltà, la mansuetudine. La visione di Gesù sulla croce che si offre per il mondo trasmette un’immagine positiva della sofferenza e del dono di sé per gli altri. A sua volta, la promessa della resurrezione porta a sopportare il dolore, l’umiliazione e la violazione dei diritti all’autodeterminazione, all’integrità e alla libertà. Questa rappresentazione è quella che viene definita “teologia della croce” e che si fonda sull’erroneo convincimento che Gesù abbia deliberatamente scelto la sua morte per salvare dai peccati l’umanità e che essa non sia la naturale conseguenza del suo ministero e della sua prassi che, opponendosi all’ingiustizia, sovvertivano l’ordine sociale costituito. Sostiene E. Schüssler Fiorenza che la nozione di vittima innocente e di redenzione come dolore liberamente scelto, induce le persone ad accettare la sofferenza, la guerra e la morte come importanti ideali per i quali vale la pena di sacrificarsi oggi come in passato. Aggiunge che lo sfruttamento delle donne in nome dell’amore e del dono di sé viene così reso accettabile da un punto di vista psicologico e viene garantito religiosamente. Le qualità di amore, debolezza e sacrificio sono dunque ideali di perfezione cristiana e la sofferenza fonte di salvezza.

            La sofferenza viene anche vista come legittimo castigo, voluto da Dio, per una colpa commessa, sofferenza che ha anche effetti espiatori e che trasforma la vittima in colpevole e trasmette un’immagine terrificante e distruttiva di Dio stesso, che appare così incapace di stabilire una vera relazione d’amore con l’umanità. Le vittime interiorizzano la colpa che viene loro rimandata così che molte donne si convincono di essere esse stesse le responsabili della violenza di cui sono oggetto grazie al nesso che, abbiamo visto, è stato stabilito tra donna e peccato. Ma, a questo punto, il cristianesimo offre loro una possibilità, quella di considerare le sofferenze come occasione di penitenza in questa vita per potersi liberare dai tormenti nell’altra vita.

            La tradizione cristiana che prevarrà identifica il peccato, oltre che con la “carne”, anche con l’orgoglio, l’egoismo, la rincorsa al potere; in realtà queste attitudini hanno normalmente poco a che fare con i più comuni “peccati” delle donne che, più frequentemente, tendono a negare la propria personalità anziché affermarla a danno di altri, a tollerare i soprusi, a negare a se stesse l’espressione dei propri pensieri e delle proprie necessità. Se si afferma, come fa il teologo Reinhold Niebuhr, che la grazia è la distruzione della personalità dominata dall’orgoglio e che essa produce una crescita verso l’amore che si sacrifica, non si fa altro che sottolineare ed innalzare ciò che nell’esperienza delle donne è già presente e deleterio. “Se il sacrificio non è controbilanciato dal consolidamento della personalità e dalla creatività, può esaurire la personalità fino al punto che non siamo più capaci di intrattenere relazioni genuine con noi stessi e con gli altri. Al contrario, il sacrificio incoraggia l’orgoglio e l’autoesaltazione in chi è oggetto del sacrificio altrui.”[58] E’ invece importante evidenziare che l’identità personale può essere alimentata solo dalla reciprocità delle relazioni; relazioni che esprimano partecipazione, ascolto, tenerezza, cura, attenzione alla vita che nasce e si sviluppa anziché distanza e lotta.

            Nel messaggio cristiano l’idea del sacrificio ed il perdono s’incontrano. Il perdono, l’essere accettati da Dio, diventa anch’esso un modello auspicabile di comportamento per il credente. E. Green ci dice però che anche il perdono e l’amore sacrificale hanno assunto determinazioni di genere e sembrano essere più adatti alla pratica da parte delle donne a favore degli uomini. In un ordine sociale kiriarcale, anche quello dei primi secoli, l’amore senza limiti, disinteressato, che si sacrifica per il bene degli altri, che perdona anche ciò che è imperdonabile, diventa il terreno su cui si sviluppa il ruolo della donna nella famiglia, consolidando l’ideale della docilità femminile ricercato dal patriarcato. “Il messaggio di amore e perdono diventa un altro tassello nel mosaico di dettami cristiani che mantiene le donne in una posizione subordinata, vulnerabile alla violenza maschile. Nel momento in cui ha luogo quella violenza, la donna viene privata di ogni mezzo di resistenza, anzi le viene detto di amare e di perdonare il nemico aggressore.”[59]

            Quando l’onere del perdono è affidato alla vittima di una ingiustizia o di una violenza la si grava di un peso spesso davvero difficile da sopportare e si distoglie l’attenzione dalla responsabilità per le azioni commesse, che deve essere individuata ed assunta da chi è realmente colpevole, giustificando i maltrattamenti e glorificando la sofferenza. Solo il riconoscimento delle responsabilità ed il ripristino di una condizione di giustizia creano il terreno ideale perché il perdono possa esprimersi e dare origine ad una guarigione, alla trasformazione di vittime, responsabili e spettatori.

“Il perdono è un atto creativo. Potete perdonare per ore, per un po’, fino alla prossima volta, perdonare ma non offrire ulteriori possibilità. Potete offrire una sola possibilità, varie possibilità, offrirle soltanto se. Potete dimenticare un’offesa in parte, per metà, o del tutto. Sta a voi decidere. Come sapere se si è perdonato? Proverete più dispiacere che rabbia, la persona vi farà più pena che rabbia. Per cominciare, comprenderete la sofferenza che ha prodotto l’offesa. Preferirete restarne fuori. Non vi aspetterete nulla. Non vorrete nulla. Nessun laccio stretto ai fianchi vi ritrascina lì. Siete libere di andare.”[60]

 

Violenza e cristianesimo

 

            “Al centro del podio c’è una bellissima anfora africana, recipiente che sappiamo capace di effettuare mille trasformazioni, erede di una lunga tradizione femminile. Essa evoca il calderone di antiche alchimie, l’otre nuovo richiesto dalla forza dell’evangelo, la pentola in cui generazioni di donne hanno trasformato il crudo in cotto, la giara d’acqua che nella sua fretta la samaritana lasciò vicino al pozzo. Pian piano, una ad una le donne versano nell’anfora l’acqua che hanno portato ma questa non è abbastanza grande per contenerla. Non è abbastanza capiente per contenere le violenze di cui le donne di tutto il mondo sono vittime… Sono le lacrime versate dalle donne costrette a fuggire dalle loro case a causa delle percosse subite. Lacrime di rabbia e di frustrazione… Lacrime che scorrono sul viso sfregiato di donne che hanno cercato di sottrarsi a un matrimonio indesiderato. Lacrime di bambine…; lacrime incredule di giovani… Sono lacrime amare, amarissime.”[61]

            Da tempo le teologhe femministe si interrogano sul legame esistente tra cristianesimo e violenza, tra il messaggio che le chiese diffondono e la condizione di maltrattamento ed umiliazione che molte donne hanno subito e di cui continuano ad essere vittime. Con sempre maggior forza esse esprimono una valutazione negativa ed un rifiuto della dottrina cristiana dell’espiazione e della redenzione, descritta nel paragrafo precedente, che è stata per molte donne una forza primaria che le ha indotte ad accettare la violenza ed a sopportare il dolore in cambio della promessa della resurrezione.

            “Donna, perché piangi?”[62] chiese Gesù a Maria Maddalena. Furono le prime parole che pronunciò dopo la resurrezione e le rivolse ad una donna. La violenza contro le donne e contro i bambini e le bambine, nelle sue molteplici forme che vanno dalle percosse, allo stupro usato anche come arma di guerra, alle mutilazioni genitali, al turismo sessuale, ecc., è un fenomeno in crescita e diffuso in tutto il mondo. Essa non è riconducibile ad episodi isolati o ad esperienze individuali ma intesse la nostra società con una trama che è mantenuta e mantiene in vita le antiche strutture di dominio e sottomissione di cui si è a lungo parlato nei capitoli precedenti. In questo contesto culturale, in cui sopravvivono ancora gli antichi stereotipi sessuali secondo i quali la mascolinità è collegata alla forza ed all’azione e la femminilità alla debolezza ed alla passività, talvolta “l’atto sessuale stesso è concepito dagli uomini come una forma di dominio, un atto aggressivo di conquista.”[63]

La quarta Conferenza mondiale sulla donna tenutasi a Pechino nel 1995, nel documento finale, si è espressa come segue: “La violenza contro le donne è una manifestazione delle relazioni storicamente ineguali tra gli uomini e le donne che hanno condotto alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e costituisce un ostacolo al pieno progresso delle donne.”e ancora: la violenza deriva “essenzialmente da fattori culturali, in particolare, dagli effetti dannosi di alcune pratiche tradizionali legate… alla religione che perpetuano la condizione di inferiorità accordata alle donne nella famiglia, nel posto di lavoro, nella comunità e nella società.” Si sostiene quindi che la religione abbia avuto un ruolo fondamentale nella formazione delle condizioni socio-culturali che hanno permesso l’esercizio e la diffusione della violenza a danno delle donne e dei bambini, soggetti considerati in uno stato di inferiorità. In Occidente il cristianesimo, come dottrina e come istituzione, è stata una delle forze costitutive della nostra società ed ha quindi partecipato attivamente alla formazione degli stereotipi sessuali. Anzi, è noto che il privato, la famiglia, la sfera sessuale sono sempre state aree privilegiate in cui l’intervento ecclesiale, attraverso gli scritti, le predicazioni, i codici, ha fatto sentire con forza la sua voce potente.  

“Non dobbiamo meravigliarci che ci sia tanta violenza nella società moderna quando l’immagine predominante, o la teologia della cultura, è quella del ‘maltrattamento del Figlio divino’ – Dio Padre esige ed esegue la sofferenza e la morte del proprio Figlio. Questo Dio assetato di sangue è il Dio del patriarcato che al momento attuale controlla l’intera tradizione ebraico-cristiana.”[64] Le teologhe femministe ritengono che, esaltando la sofferenza e la morte di Gesù e chiamando i buoni cristiani e le buone cristiane ad imitarlo nella perfetta obbedienza e nel sacrificio di sé, la teologia cristiana non interrompa ma, anzi, perpetui il flusso di violenze prodotto dall’ordine kiriarcale sociale ed ecclesiastico. Tacendo sulle cause socio-politiche della condanna di Gesù (Gesù non ha cercato la morte né Dio lo ha voluto sacrificare) si fa di lui un esempio di vittima sacrificale e si sottrae ai credenti la forza ed il potere per resistere a tale ordine e trasformarlo. Si chiede ai credenti di sopportare passivamente l’ingiustizia snaturando così l’essenza del messaggio di Gesù che propose, attraverso la sua vita e le relazioni di reciprocità che sperimentava, un modello egualitario che sovvertiva quello dominante all’epoca.

La violenza contro le donne ed i bambini dà origine a domande che mettono in questione l’idea tradizionale di Dio. Il Dio della teologia kiriarcale è maschile; a legittimare il potere del patriarcato vi è un Dio Padre, un grande patriarca che ricompensa o punisce secondo la propria, a volte misteriosa, volontà ma sempre in modo giusto. Se Dio, suggerisce Mary Daly, nel suo cielo è un padre che governa il suo popolo, allora la società governata dai maschi risponde al progetto divino ed all’ordine dell’universo; e così, di conseguenza, il marito che domina la moglie o il padre che esercita potere sui figli rappresentano Dio stesso e la famiglia diventa il luogo privilegiato della violenza contro le donne, le bambine ed i bambini. Nel corso di una ricerca condotta da Annie Imbens e Ineke Jonker e pubblicata nel 1989 col titolo “Christianity and Incest”, importante per le testimonianze e le considerazioni teologiche che contiene, emergeva dalle interviste che circa un terzo delle donne vittime di violenze in famiglia, sovrapponevano la figura di Dio con quella del proprio padre; frasi come “Mio padre avrebbe potuto essere Dioanche mio padre voleva essere adoratoDio assomigliava a mio padremio padre era un tipo di Dio …”[65] ci suggeriscono come, in questo quadro, porre resistenza agli abusi sessuali equivalga ad opporsi a Dio stesso, a commettere il più grave dei peccati. Le teologhe femministe concordano quindi che l’immagine del Dio Padre dà legittimità a rapporti di potere che sfociano anche nella violenza contro le donne ed i bambini e che l’effetto di tale linguaggio è anche quello di zittire la rabbia e l’opposizione legittime delle donne contro l’aggressione.

Un tale sistema di pensiero, purtroppo ancora presente nelle società odierne nonostante le trasformazioni culturali e legislative, che, nelle opinioni, nelle abitudini, nelle credenze e nelle percezioni, riconosce il diritto di proprietà, è particolarmente dannoso per le bambine e per le giovani oggetto di incesto che si trovano senza una via d’uscita. La dottrina cristiana insegna ad evitare l’esercizio della sessualità al di fuori del matrimonio ma, allo stesso tempo, educa ad obbedire a figure di autorità maschili, soprattutto al padre. “Anche se la teologia cristiana condanna ufficialmente la violenza e gli abusi sessuali, la sua base dottrinale rafforza nondimeno gli atteggiamenti che conducono all’accettazione di tali violenze. Il pieno ristabilimento, in seguito agli abusi sessuali dei bambini, è ostacolato dal fatto che molte vittime hanno interiorizzato problemi, immagini e valori che impediscono tale ricupero; sono queste le nozioni secondo cui la sofferenza è buona e il perdono una virtù, la necessità – in particolare per le bambine – di rimanere pure dal punto di vista sessuale, il bisogno della redenzione e, di massima importanza, la sottolineatura dell’obbedienza verso chi ha autorità. Tutte queste credenze e questi valori rafforzano la colpa e la responsabilità personali nei confronti degli atti di violenza; essi rendono difficile alle vittime di abusi sessuali chiarire i sentimenti di colpa che si protraggono a lungo, per il delitto che è stato perpetrato contro di loro.”[66]

Come nei racconti tratti da Ezechiele sembrava che l’integrità del Dio maschile e dell’uomo stesso dipendesse dalla distruzione della donna, ancora oggi la violenza contro le donne serve sia per rafforzare un’identità maschile psicologicamente fragile che per mantenere i rapporti di potere asimmetrico tra i generi. Esaminando i brani delle Scritture citati alla nota 51, la teologa Elizabeth Green arriva a concludere che in essi sono presenti due idee opposte; da un lato la violenza contro le donne è legittimata per ristabilire l’ordine minacciato e riconosciuta come giusta punizione per il male commesso, dall’altro però, essa viene denunciata come espressione di una società ammalata, in declino, che si è allontanata da Dio e che non rispetta più i suoi desideri. In questa seconda ottica le Scritture, e in esse le parti che parlano dei rapporti tra generi, vanno considerate non come prescrizioni del comportamento da assumere tra i sessi, ma come descrizione di ciò che accade quando le persone si allontanano da Dio. Così la violenza e il dominio sono segni di una società che ha girato le spalle a Dio, sono peccati che mettono a repentaglio il benessere e la pienezza di vita che Dio desidera per ogni essere vivente.

Spesso sono donne fragili, con una percezione di sé di scarso valore, con un senso di inferiorità rispetto al maschio a diventare vittime di violenza e ad essere intaccate nel nucleo profondo di se stesse, della propria umanità, attraverso le ferite arrecate al loro corpo. E la violenza stessa aggrava ulteriormente questo senso di inadeguatezza, vergogna, passività, colpa lasciando nella personalità i segni profondi dell’umiliazione.

E’ necessario che donne e uomini intraprendano un cammino di trasformazione per rendere possibile un ordine sociale diverso, così come proposto dalla vita di Gesù che rifiuta di entrare in logiche di dominio e sottomissione. Le donne devono effettuare un percorso dalla morte alla vita, riacquistando la loro soggettività, facendo sentire la loro voce, esprimendo la loro capacità di decidere e di agire. Una ricettività che non s’identifichi con la debolezza e la passività è possibile sono per chi è indipendente ed ha stima di se stesso.

Gli uomini, come suggerisce Mary Daly, devono riflettere ed affrontare i legami che esistono tra il potere, la violenza e la strutturazione della loro identità per individuare nuove modalità nella relazione fondamentale e originaria tra i generi. L’attività è libera dalla dominazione solo se viene utilizzata per rafforzare gli altri anziché per minacciare ed infliggere dolore. “Gli uomini devono superare non solo il loro orgoglio maschile che opprime le donne ma anche quel timore di perdere lo status ‘da maschio’ mediante il quale si opprimono a vicenda.”[67] Si tratta di una vera e propria rivoluzione nei rapporti reciproci tra esseri umani e con la natura dove ciascuno, in relazione di interdipendenza, è inserito in un sistema ecologico dinamico ed ha la responsabilità del benessere di ogni parte.

 

Silenzio e ascolto

 

            Il silenzio è una parola che ritorna frequentemente nei testi e nelle riflessioni delle teologhe e delle studiose che parlano della vita delle donne. E’ il silenzio che per secoli ha soffocato la voce delle donne, ha cancellato la loro esperienza dalla storia dei popoli e delle comunità cristiane, ha negato loro la possibilità di esprimere impegno e senso di responsabilità ricoprendo ruoli di guida all’interno delle istituzioni, soprattutto di quelle ecclesiastiche. E’ il silenzio che spesso viene richiesto alle donne, bambine e bambini vittime di violenze, costretti per anni a vivere nella solitudine e nella vergogna il loro dolore. E’ il silenzio che le chiese hanno a lungo mantenuto di fronte alla tragedia delle violenze, degli abusi, dei maltrattamenti di cui le donne sono vittime, omettendo di prendere una posizione chiara, non ascoltando o invitandole a sopportare tacendo.

Sono tre territori confinanti, che si compenetrano e che rimandano ad un’idea di donna che non ha accesso alla piena umanità, la cui esperienza è poco rilevante, il cui valore e significato esiste solo in relazione all’uomo, sulla cui vita, in tutte le sue espressioni, deve essere esercitato un controllo. Ma è anche una donna che può costituire un pericolo, che va relegata in uno spazio ridotto e precostituito, poiché l’espressione dei suoi pensieri e della sua esperienza potrebbe essere dirompente e sovversiva per l’ordine sociale ispirato dal pensiero gerarchico e dualistico che garantisce privilegi e poteri ad alcuni ed umiliazioni ad altri.

Del silenzio calato sull’esperienza storica e del lavoro svolto da alcune teologhe femministe che hanno rivolto la loro attenzione a ciò che il testo tace, alla ricerca di indizi che diano segnali di quella realtà della quale non dicono, si è già parlato nel I capitolo. Silenzio imposto che faceva parte della costruzione della femminilità in termini di passività, docilità, obbedienza. Imporre il silenzio, pensa Elizabeth Green, è, ancora oggi, una strategia usata per escludere le donne dal pensiero e dalla prassi ecclesiale.

Così come la storia delle donne, il loro contributo alla costruzione della civiltà, alla nascita, al mantenimento ed alla cura della vita in tutte le sfumature corporee e spirituali sono stati negati, così i comportamenti violenti che mettono a repentaglio l’integrità psico-fisica delle donne, che le umiliano lasciandole senza dignità, sono spesso avvolti dal silenzio e dalla negazione, specie se si consumano all’interno della famiglia, all’interno di quel luogo che dovrebbe assicurare protezione ai suoi membri. Anche in questo caso si esercita un controllo attraverso il silenzio.

Molte volte la violenza è vissuta dalla donna come qualcosa di cui vergognarsi, come se lei stessa ne fosse colpevole, ed ogni riferimento di valore viene sovvertito: ciò che è indiscutibilmente drammatico e aberrante non è più l’abuso ma il parlarne, gettare nel fango il nome rispettabile della famiglia. La rispettabilità, l’evitamento dello scandalo diventano allora gli elementi intorno ai quali la famiglia si unisce ed esercita la sua vocazione alla protettività, non sono le persone fragili e ferite a richiamare su di esse l’attenzione e la cura. Il timore di non essere creduti se si accusa chi, all’interno della famiglia o della comunità, occupa un posto di potere, l’accettazione passiva e la paura delle altre donne, la concreta difficoltà nell’individuare un rifugio in cui sentirsi accolti se si denuncia, la difficoltà di trovare parole per esprimere pensieri sul tema-tabù della sessualità, sono alcuni dei motivi per cui molte vittime di abusi non trovano la forza e tacciono. Lazzeri ed Innocenti, operatori dell’AIED, ritengono necessario “mettere sotto accusa…la cosiddetta società dei padri e la famiglia. Si intuisce, quindi che questa vicenda, non ha solo a che fare con comportamenti devianti di adulti squilibrati, ma con una scala di valori che vede al primo posto la tutela dell’istituto familiare non in quanto centro di affetti, ma centro di ordine sociale.”[68]

Il silenzio gioca dunque un ruolo importante nel perpetuare la violenza contro le donne, i bambini e le bambine e fa sì che essa sia tollerata e talvolta accettata in tutto il mondo, nelle famiglie, nelle comunità e nelle istituzioni. Per molto tempo anche le chiese si sono rese complici scegliendo di mantenere il silenzio, di ignorare la questione. “Donne che rompono il silenzio e cercano aiuto dalla chiesa incontrano reazioni di stupore, incredulità, negazione nonché consigli di sopportare, sottomettersi, soffrire.”[69] ”Il cristianesimo ha anche mantenuto il silenzio sulla sessualità preferendo tacciarla di peccato o interpretarla all’interno di un ordine patriarcale teologicamente mal fondato e sociologicamente superato. Ha omesso di pensare una morale sessuale in termini realistici venendo veramente incontro alle esigenze delle persone. Infine, venuta a conoscenza della violenza cui le donne sono vittime, le chiese hanno mantenuto il silenzio, e quando sono state loro responsabili, hanno cercato di farle tacere.”[70]

Abbiamo osservato nel corso di tutte le pagine precedenti, come la religione e le chiese siano determinanti nei processi di socializzazione dei valori di riferimento o delle stereotipie, così come nel proporre o mantenere un determinato ordine sociale cui viene attribuita giustificazione teologica. Per questo motivo è importante che un percorso di trasformazione che avvii le strutture sociali verso relazioni di reciprocità, rispetto e promozione delle diverse personalità ed esperienze, veda le chiese ricoprire un ruolo prioritario. Esse sono chiamate a gridare a tutti, in modo chiaro ed inequivocabile, che la violenza contro le donne ed i minori è peccato, che è sintomo dell’allontanamento degli esseri umani da Dio, che si oppone al benessere che egli desidera per le persone. Devono diventare capaci di vedere il proprio coinvolgimento in strutture di dominio, di guardare al loro interno per scoprire, drammaticamente, le violenze che hanno luogo nelle strutture ecclesiastiche e nelle comunità dei credenti. Imbens e Jonker, nel testo citato, propongono per le chiese un percorso fatto di tre tappe: riconoscimento che, al loro interno, le donne vengono disprezzate e negate; ammissione della loro responsabilità in questo stato di cose a partire dalle testimonianze di coloro che sono state vittime del cristianesimo patriarcale; conversione da una teologia che esclude le donne ad una, liberatrice, che promuove la loro inclusione.

E’ importante che le chiese tornino a dare voce al messaggio essenziale di Gesù, messaggio di liberazione da ciò che lede la dignità umana e che impedisce la piena espressione della vita, a dare voce ai pensieri, alle emozioni, alle testimonianze, alle sofferenze delle donne e delle persone più deboli dimostrando di saper ascoltare. Ascoltare senza imporre idee o prendere decisioni senza averle consultate; ascoltare anche la rabbia espressa contro Dio senza aver fretta di dare risposte predeterminate ma non in contatto con l’esperienza personale; ascoltare per aiutare ad orientare sulle varie possibilità che si aprono incoraggiando il rafforzamento della personalità e la capacità di autodeterminarsi. “L’ascolto, quando è profondo, non osa interrompere, ma diventa sempre più acuto quando il racconto si arresta o più intenso diventa il dolore. Un ascolto attivo percorre tutto il cammino con colei che parla, fino alla sua più intensa sofferenza.”[71] E così anche l’ascolto diventa più sensibile di fronte al peso ed al significato del silenzio. “…un udire in profondità che esiste ancor prima che l’altro cominci a parlare – un udire che è ben di più di un attento ascoltare. Un udire in cui è impegnato tutto il corpo, e che evoca la parola – una parola nuova, una creazione nuova.”[72]

“Dio ha bisogno di noi per prevenirla (la violenza), per resisterle: Dio ha bisogno della nostra bocca, dei nostri piedi, della nostra testa, del nostro cuore. Soprattutto ha bisogno delle nostre mani per asciugare le lacrime amare.”[73]


Capitolo 4

 

FIGURE

 

 

            Figure di donne del Primo e del Secondo Testamento. Racconti di donne che hanno fatto l’esperienza della relazione con Dio o con Gesù e che da questa sono state trasformate e hanno portato trasformazione. Donne che nei secoli sono state snaturate, mitizzate o stigmatizzate e che devono essere recuperate al loro autentico significato o alla loro realtà storica. Figure di donne che parlano alle altre donne ma anche agli uomini, che raccontano di un’umanità profonda, di rapporti semplici di reciprocità, di passione ed incontenibile desiderio di conoscenza, di cura, attenzione, sensibilità e vicinanza, di tenacia e perseveranza, di trasgressione, di dolore e di guarigione.

            Alcune donne della tradizione biblica sono diventate sostanzialmente invisibili, sconosciute e non compaiono nelle liturgie tradizionali, altre esercitano un’antica influenza sul pensiero comune, anche al di fuori dell’ambito ecclesiastico, e godono di una fama che le ha trasformate.

            La ricerca si è concentrata su cinque madri e la conoscenza di queste donne, rilette con mente, cuore, esperienza e sensibilità femminili ha dato origine ad un incontro dove la scoperta accompagna l’essere scoperti. Come dice Maria Cristina Bartolomei nell’introdurre “Donne alla riscoperta della Bibbia”: “Le donne sono andate alla Bibbia come ‘estranee’ ed hanno scoperto di esservi già dentro.”[74]

 

Eva

 

            Il più antico racconto della creazione contenuto nei primi tre capitoli della Genesi è uno dei passi più conosciuti della Bibbia e tra quelli che hanno avuto le più significative ricadute nella storia della Chiesa e della società. Il “peccato originale”, la macchia che segna fin dal concepimento, la sessualità peccaminosa, il precipitare per l’essere umano da una condizione di vita felice, pura ed eterna ad una condizione faticosa, sofferta e limitata, traggono la loro origine da una interpretazione letterale di questi pochi capitoli. E’ uno di quei racconti che, da lunga tradizione iniziata con gli scritti di Paolo di Tarso, viene utilizzato per spiegare l’inferiorità della donna rispetto all’uomo come appartenente all’ordine naturale e divino, e per attribuire ad essa la piena responsabilità nella colpa originaria.

“…questo mito ha proiettato un’immagine maligna del rapporto uomo-donna e della natura femminile, immagine tuttora fortemente impressa nella psiche moderna. Nella tradizione cristiana esso continua a influenzare il funzionamento dell’immaginazione teologica.”[75] Mary Daly, assieme alle altre teologhe femministe, ritiene che l’immagine distruttiva della donna contenuta nel mito della Caduta ad opera di una Eva tentatrice, continui ad essere presente, anche se in modo mascherato, nella psiche e nella cultura ed abbia assunto proporzioni cosmiche poiché il punto di vista maschile si è trasformato nel punto di vista di Dio. Ella afferma che tale mito abbia legittimato non solo l’atteggiamento di svalutazione dell’uomo verso la donna, ma anche della donna verso se stessa. Molti teologi si sono ormai accorti dell’incongruenza di una tale lettura del mito ed hanno cessato di prestarvi attenzione; lo stesso silenzio attorno alla distruttività del suo contenuto è però oppressivo perché non riconosce la persistente influenza che continua ad avere sulla società e trasmette il messaggio che la discriminazione in base al genere è un “non problema”.

Eva, madre dei viventi, rappresenta le forze misteriose della vita che insieme affascinano, seducono ma anche impauriscono; “Eva è simbolo del mistero umano, mistero che appassiona e atterrisce.”[76] Tanta forza e tanto potere sulla vita hanno avuto bisogno di un contenimento, di un controllo. E così controllare la donna, ridurla ad oggetto, fornire spiegazioni o descrizioni che si rivolgono solo alla ragione e che devono essere socializzate e conservate nei secoli, è diventato il modo di controllare quanto ella rappresenta. “Il simbolo donna in quanto tale è stato dimenticato, poiché non si combatte più la paura che esso rappresenta, ma la realtà storica della donna.”[77]  L’accesso al simbolo ed al mito, che parlano delle verità più profonde dell’essere umano, è impedito cosicché essi non possono più esercitare la loro azione positiva, non possono aprire le porte a riflessioni e sensazioni nuove, molteplici, creative poiché le risposte sono già tutte date, contenute nelle definizioni e nei dogmi preconfezionati e buoni per ogni tempo ed esperienza.

            Le interpreti femminili di questo passo biblico evidenziano che ci possono essere anche altri modi di leggerlo che consentano di cogliere messaggi differenti, che orientino in altre direzioni le relazioni tra maschio e  femmina e che restituiscano senso al mito ed all’esperienza di vita rappresentata da Eva, autorizzando conclusioni differenti. Le donne, nel liberare Eva, nel liberare se stesse da ruoli ed identità non scelti, “compiono l’azione più efficace possibile per la liberazione di tutti gli esseri umani, rendendo disponibile anche per gli uomini la piena umanità che viene persa nella gerarchia sessuale.”[78]

            Prendendo della polvere dal suolo, Dio forma la creatura di terra; essa, all’inizio, non è né femmina né maschio ma è una creatura che rappresenta la comune origine di entrambi. Poi Dio interviene nuovamente e, pensando che non sia bene per la creatura di terra essere sola, isolata, crea per lei un aiuto e, facendola assopire (il torpore sottolinea l’assenza di conoscenza), ne prende una parte e forma la donna, cosicché il resto della creatura di terra diventa un maschio. “Nel testo viene nominata per prima la donna (isha) e, soltanto di fronte alla donna, l’uomo acquista la consapevolezza di se stesso e, in corrispondenza alla parola usata per indicare la donna, chiama se stesso uomo (ish).”[79]  Egli non la conosceva poiché quando è nata dormiva ma ecco che la riconosce ed insieme si riconosce. E’ la prima volta che Adamo parla; la nascita della donna fa scaturire la parola dell’uomo ed è una parola di relazione e reciprocità.

I termini ish e isha (maschio e femmina) compaiono solo dopo i versetti Gen 2,21-22, dopo il sonno della creatura di terra e l’estrazione della costola. Nel racconto della creazione non emerge, dunque, un ordine di precedenza fra donna e uomo, non si può intravedere una posizione subordinata della donna nell’essere stata formata da una parte della creatura di terra, così come non si può dire che la creatura di terra sia subordinata alla terra stessa dalla quale deriva. Entrambi, formati da un’unica amalgama, hanno origine da un essere primordiale indifferenziato. L’uomo e la donna sono l’uno l’aiuto dell’altra, sono posti di fronte in un rapporto di reciprocità e parità di condizioni, entrambi creati per l’azione di Dio, per il suo soffio vitale, una sola carne. “Ecco l’essere umano – maschio e femmina. Sono benedetti in questo stato. Potere di dare la vita e dominazione sulla terra: le due cose sono comuni ad entrambi, esercitate da maschio e da femmina umani. E questa volta Elohim dice: oh, il grande bene.”[80]

Dal punto di vista simbolico, la doppia nascita e la comune origine dalla terra sottolineano il legame e l’interdipenza tra donna e uomo e tra essere umano ed universo; nulla nel mondo è separato e autonomo. E’ di fronte alla donna, attraverso il confronto e il dialogo con l’altro, che l’uomo scopre la somiglianza ma anche la propria identità di maschio e di persona: chiamando la compagna donna prende coscienza di se stesso e può dirsi uomo. La differenza dei sessi non implica possesso, dominazione o gerarchia; in principio non era così, l’umano, immagine di Dio, si compone di due esseri uguali ma assolutamente diversi.

“Dando l’interdetto di mangiare un solo albero, è il posto dell’altro che il divino preserva: egli ordina, mette un limite, un punto di non conoscenza che permette all’altro di esistere altro. … ‘Mangiare’ e ‘differenza’ si oppongono radicalmente. Mangiare è l’atto più opposto alla differenziazione che io possa compiere in quanto ciò che mangio diventa me stesso e cessa di esistere nel mondo. Per conoscere ciò che è diverso da me, occorre evidentemente che io non lo mangi. … l’uomo non può sapere che cosa significhi essere la donna, né la donna che cosa significhi essere l’uomo. … Il divieto dell’albero della conoscenza istituisce l’alterità. …Si tratta in Eden di preservare la differenza dei sessi, non di escluderla … di mantenere lo scarto necessario affinché essa sia luogo e motivo della parola, l’annuncio che ciascuno può dare all’altro che non conosce.”[81]

            Nel colloquio col serpente Eva è la più attiva, è lei che parla a nome di entrambi; offre il frutto ad Adamo ed egli lo prende agendo sotto la propria responsabilità e dunque entrambi, consapevolmente, contravvengono al divieto di Dio pronunciato prima che, dall’unica creatura di terra, fossero creati l’uomo e la donna. Eva non trattiene gelosamente per sé la nuova conoscenza che ha ottenuto grazie alla sua decisione ed azione, alla sua trasgressione, non approfitta del potere che il sapere ora le dà ma, senza esitazione e con naturalezza, attraverso un gesto semplice e spontaneo, la condivide con l’uomo. “…la donna cerca la conoscenza e, trovatala, la divide con l’uomo, di modo che entrambi possono lasciare l’illusorio paradiso della falsa coscienza e dell’alienazione. Strappando l’immagine della Caduta dal suo vecchio contesto la stiamo anche rivalutando: il suo significato non è più negativo ma diviene positivo e salutifero.”[82]

E così l’incontenibile desiderio di conoscere se stessi, gli altri ed il mondo, di assumersi la responsabilità delle proprie scelte ed anche le conseguenze positive o dolorose di esse, conduce ad una frattura all’interno della paradisiaca armonia inconsapevole del giardino originario e nulla sarà più uguale a prima. E’ il percorso della storia delle singole persone e dell’umanità, dell’alternativa, della possibilità di scelta con le sue cadute e le sue riprese, con le crisi e le rinascite. L’albero proibito appare come una provocazione; è come se Dio spingesse Eva ed Adamo alla trasgressione, ad aprire gli occhi su una prospettiva nuova, a passare dal paradiso perduto alla nascita della coscienza. “Adamo ed Eva hanno da Dio l’opportunità di uscire da una condizione edenica e ‘riconoscere’ la propria identità nelle vie reali della vita.”[83] In quest’ottica, dunque, mangiare il primo frutto non sarebbe un male, ma il necessario passaggio per giungere alla maturità umana. “Eva che mangia il frutto a me sembra terribilmente coraggiosa. Non è né frivola né disobbediente, non si lascia sedurre con facilità… Oltrepassa con coraggio i confini dell’ignoto per avventurarsi alla scoperta di ciò che si trova oltre i limiti dell’esistenza animale e, nel farlo, tende la mano ad Adamo perché la segua…La storia del giardino dell’Eden non descrive la Caduta dell’Uomo, ma la Nascita dell’Umanità… Certo, le conseguenze sono state dolorose, proprio come può essere doloroso crescere…”[84]

Il risultato della trasgressione umana sarà la frattura, che attraversa tutta la creazione, dell’originaria comunione ed unità tra donna e uomo e tra essere umano e terra: la naturale funzione creativa della donna sarà accompagnata dal dolore e tutti i momenti di crescita della vita potranno, d’ora in poi, farle male; i rapporti di parità e reciprocità si cambieranno in relazioni di oppressione e la terra, origine della vita, sarà motivo di fatica ed esito finale. Di fronte ci sarà ora il nemico, l’altro; l’altro di chi detiene il potere, l’altro che non è “come si deve”, l’altro che è mancante, l’altro che non ha i segni della potenza, l’altro che è straniero, pazzo, povero, donna; l’altro che subisce l’umiliazione e l’esclusione perché le differenze diventano motivo di discriminazione anziché elemento da valorizzare e condizione per conoscere e conoscersi.

Non è dunque secondo la volontà di Dio, che attraverso il suo agire nella creazione aveva espresso un ordine diverso e se n’era compiaciuto, che l’uomo domina sulla donna, ma solo la conseguenza di una scelta umana. Il racconto è una presa d’atto di come stanno le cose sulla terra e delle situazioni che consentono di leggere la condizione umana, l’oppressione, la disarmonia nell’universo come bisognose di trasformazione. E’ la condizione “normale”, quella originaria, che va perseguita ma che, ci racconta la storia delle comunità umane, è la più difficile da realizzare; è la promozione, allo stesso tempo, della differenza e dell’uguaglianza senza subire la tentazione di salvaguardarne una, soffocando o differendo l’altra.

Secondo la teologa Elsa Sorge, la figura di Eva che si svela curiosa, coraggiosa e trasgressiva, più autonoma di Adamo, sarebbe un residuo della figura antica della grande Dea Madre. Nel mito originario, nel porgere il frutto ad Adamo, Eva intendeva renderlo partecipe della sua profonda conoscenza della vita e dell’amore e della sua stessa forza d’amore; amore e conoscenza sono strettamente connessi ed Adamo, accettando il frutto, rappresenta l’uomo originario che si lascia condurre dalla donna alla sua saggezza d’amore e di vita.

Solo dopo la trasgressione la donna fu chiamata dall’uomo col nome di Eva: il significato di Eva è “vita”. Quello stesso nome che, nel corso dei secoli, è diventato sinonimo di peccato, tentazione e morte.

 

Maria madre di Gesù

 

            La figura di Maria di Nazareth ha subito, nel corso dei secoli, un processo di mitologizzazione che va decisamente oltre qualsiasi verosimiglianza storica e che non rappresenta l’esperienza della donna ebrea che visitò Elisabetta e diede alla luce Gesù.

            Nella religiosità popolare Maria è stata descritta con molti volti ed immagini e glorificata con svariati rituali e moti artistici. E’ evidente a chiunque che la devozione a Maria celebra non la persona umana ma qualcosa di superiore; è la “Nostra Signora”, la “Regina del Cielo”, depositaria della bontà misericordiosa, cui la pietà popolare ha reso onori quasi divini, attribuendole un ricco patrimonio di immagini e figure che, in tempi e culture differenti, appartenevano al culto della Dea. Come nella famiglia patriarcale la madre spesso si interpone tra padre e figli, così Maria diventa la mediatrice di grazia tra un Padre-Dio potente ed i suoi figli. “La ricerca mariologica ha ripetutamente documentato che la credenza nel Dio della dominazione kiriarcale e il culto mariologico della maternità e della femminilità procedono di pari passo e si rafforzano l’una con l’altro.”[85]

            Anche l’immagine di Maria e la mariologia, secondo le teologhe femministe, sono dunque influenzate dalla corrente maschile della teologia tradizionale e sono funzionali al mantenimento del predominio maschile nella chiesa e nella società e alla salvaguardia della gerarchia sacerdotale maschile. A loro parere questa immagine svaluta le donne in tre modi: esaltando la verginità in contrapposizione alla sessualità; associando l’ideale della vera femminilità con la maternità e valorizzando l’obbedienza, la sottomissione, la passività e l’umiltà come virtù fondamentali del buon cristiano e, in particolare, delle donne. Maria viene presentata ad esse come l’umile serva del Signore, madre paziente e sofferente, pronta al sacrificio silenzioso; è un modello da imitare fornito alle donne ma mai pienamente raggiungibile dalle donne comuni; dovrebbe essere imitata ma, in realtà, con tutti i suoi privilegi, risulta inimitabile.

E’ questo un modello che non può essere liberatorio per le donne poiché “santifica” il loro sfruttamento e la loro sottomissione passiva. Presentare Maria, con tutti i dogmi che dal 431 al 1950 sono stati proclamati attorno alla sua figura (maternità di Dio, verginità prima e dopo la nascita di Gesù, immacolata concezione, assunzione al cielo), come la grande eccezione fra le donne, vergine perpetua e madre, non fa che rafforzare le strutture e gli atteggiamenti patriarcali. Attraverso la verginità, che rappresenta il tentativo maschile di rinascita spirituale indipendente dalla femminilità carnale, “la mariologica ufficiale convalida la doppia ossessione delle fantasie maschili verso le donne ed il bisogno istintivo di ridurre la femmina a veicolo perfetto delle esigenze del maschio e a strumento del predominio maschile, mentre legittima pure il bisogno di ripudiare la femmina come fonte di tutto ciò che trascina il maschio alla corporeità, al peccato e alla morte.”[86]

            La donna storica Maria di Nazareth non è la Maria delle immagini sacre o della fiaba a lieto fine ma è la donna che ha conosciuto i dolori e le esperienze delle donne: la gravidanza, la maternità extraconiugale, la povertà, l’esclusione, l’esilio, la perdita del figlio a causa di un sistema sociale e di idee maschile. E’ credibile pensare che le donne simpatizzino più facilmente con Maria, la donna che era in difficoltà con un figlio particolare e trasgressivo di cui era orgogliosa per la sua sincerità, la fede, il coraggio ma che a volte faceva fatica a capire; con la donna piena di dubbi ed incertezze, preoccupata o disperata, che doveva affrontare le critiche della gente per questo figlio che andava dicendo strane cose e frequentando brutte compagnie; con la donna che, forse, qualche volta, avrà raccomandato a Gesù un po’ più di prudenza per la paura, di madre premurosa, che si mettesse nei guai; con la donna sofferente che rimase accanto e pianse per il suo ragazzo arrestato, torturato e giustiziato; con la donna che mantenne un’affettuosa relazione di amicizia con i discepoli e ritrovò la speranza contribuendo a diffondere il messaggio del figlio.

E’ importante che Maria venga liberata, conosciuta per quello che è stata, restituita a se stessa e all’umanità in cerca di giustizia perché possa incoraggiare la costruzione di un mondo in cui c’è un posto per tutti e ciascuno viene chiamato per nome. Una madre amica e sorella di tutti, una donna tra le donne, un essere umano che, tra gli altri esseri umani, ha affrontato le gioie e le difficoltà della vita quotidiana; una madre per Gesù che è stata così significativa da aiutarlo a trovare la sua strada ed a percorrerla con coraggio ed umanità. Invece il culto cattolico mariano ha celebrato Maria come la regina del cielo, la madre di Dio, un essere divino ella stessa e, pertanto, irraggiungibile.

Le studiose femministe, in linea con gli studi biblici, hanno sostenuto che i Vangeli, seppur con le loro differenze, sono concordi nel dire che Gesù è il bambino di Maria. Gli evangelisti Matteo e Luca riferiscono sul fatto che ella restò incinta nel periodo tra il fidanzamento ed il matrimonio e che Giuseppe non era il padre biologico di Gesù. A questo punto le interpretazioni teologiche femministe prendono due strade diverse. Coloro che accettano che Maria “si trovò incinta per opera dello Spirito santo”[87], tentando di dare una interpretazione positiva del testo, mettono in rilievo l’indipendenza di Maria da un uomo, la libertà scelta e l’attiva autodeterminazione nell’accettare la gravidanza inattesa. In questo senso “vergine”, come suggerisce Katharina Halkes, non descrive prioritariamente la donna che rinuncia ai rapporti sessuali; parla invece della donna che non conduce una vita derivata come moglie di, figlia di, … ma che, maturando dentro di sé, diventa una totalità che appartiene a se stessa e che, da se stessa, parte per aprirsi agli altri e a Dio, attraverso un processo di crescita che la rende fertile e capace di dare la vita. Altre teologhe credono che l’atto maschile nel concepimento non possa essere sostituito da un’azione divina miracolosa e ritengono che Maria, durante il fidanzamento, sia stata sedotta da Giuseppe o da un altro uomo o, come raccontavano alcune dicerie ricorrenti che si ritrovano nell’antica letteratura giudaica e cristiana, che abbia addirittura subito violenza da parte di un soldato romano. Secondo questa interpretazione, al centro della nostra attenzione c’è ora una giovane donna, incinta senza essere sposata, in una condizione sociale scandalosa per l’epoca (e forse anche per la nostra?) che non rimane da sola con le sue angosce ma cerca il conforto e la vicinanza di un’altra donna, Elisabetta, a sua volta protagonista di una trasformazione impensata e straordinaria. Entrambe si rallegrano dell’azione liberatrice di Dio e offrono speranza a coloro che speranza non hanno.

            La  proposta di questa nuova immagine femminile può essere pericolosa agli occhi delle autorità ecclesiastiche e politiche. “Il ‘ricordo pericoloso’ della giovane donna e madre adolescente, Miriam di Nazareth, che con ogni probabilità non aveva più di dodici o tredici anni, incinta, spaventata e nubile, che cercò aiuto presso un’altra donna, può sovvertire le favole della fantasia mariologica e della femminilità culturale. Al centro del racconto cristiano non sta l’attraente ‘signora bianca’ dell’immaginazione artistica e popolare, inginocchiata in adorazione davanti al figlio. Vi è piuttosto una giovane donna incinta, che vive in un territorio occupato e che lotta contro la vittimizzazione, per la sopravvivenza e la dignità. E’ lei che persiste ad offrire possibilità impreviste per una cristologia e una teologia diverse.”[88]

            Maria invece è esaltata e, in questa enfasi, viene oscurato il messaggio sovversivo contenuto nel “Magnificat”[89] ed il suo ruolo di donna povera ma impegnata, sulla linea proposta da Gesù, nelle lotte del suo popolo per la liberazione e la giustizia. “E invece vennero attribuiti a lei, il cui Dio butta giù dal trono i potenti, tutti i titoli del potere del mondo medievale. Lei, tanto critica politicamente, diventò la regina del cielo, ben più somigliante e ben più vicina agli oppressori che agli oppressi.”[90] Nel tentativo di rendere grande Maria nella chiesa, viene privata delle sue caratteristiche di donna e associata a qualità disumanizzanti: si dice che è immacolata, che, unica persona a non essere stata macchiata dal peccato nella sua concezione, non può essere tentata dal peccato; che è madre perfetta perché non sente alcuna attrazione verso la sessualità, come se fosse un male essere partecipe della condizione umana e diventare madre attraverso la normale via che il Creatore ha voluto. Anche attraverso il processo di snaturalizzazione della figura di Maria trova nuovamente espressione l’angoscia nei confronti della sessualità e l’ossessione della castità che sono in relazione anche con il celibato, altra contestata istituzione ecclesiastica. “Forse questi eccessi mariani sono anche dovuti al fatto che la gerarchia cattolica, maschilista e sessuofobia, per poter proseguire nella sua più o meno mascherata emarginazione delle donne, ne esalta una, illudendosi così di saldare il conto con quei miliardi di donne che ha offeso e continua ad offendere e a subordinare al potere maschile.”[91]

Il corso della storia del cristianesimo segnato, tra l’altro, dalla formulazione dei numerosi dogmi, fa intravedere l’affermarsi di un atteggiamento difensivo che non si esprime, dunque, a favore di qualcosa - l’amore, la liberazione, la giustizia - che non valorizza l’umanità delle persone in tutte le sue espressioni, ma che sottolinea gli aspetti legati alla colpa ed al peccato; che si pronuncia contro qualcosa che va controllato da parte di chi, in stretto contatto col Creatore, sa dire ciò che è vero e deve essere creduto e ciò che non lo è, di chi considera se stesso l’unico veicolo di salvezza per tutta l’umanità.

Nel libro “Avere o essere” Erich Fromm sostiene che è il proposito di spezzare la volontà dell’uomo il vero motivo per cui la sessualità viene demonizzata e che, nelle società non orientate sulla proprietà, l’esercizio della sessualità è una naturale espressione dell’essere e non il risultato della possessività sessuale. Ritiene inoltre che l’invidia dell’uomo nei confronti della capacità di creare e di sostenere nuova vita della donna, che nelle società matriarcali era di grande importanza poiché non era nota la partecipazione dell’uomo al concepimento e la donna era il principio creativo, ha portato ad un graduale processo di svilimento della forza creativa biologica e di svalutazione delle capacità intellettuali femminili perché ciò che non può essere acquisito dall’uomo doveva essere distrutto o controllato. E così la donna “per valere qualcosa, non ebbe altra possibilità che rinunciare alla propria capacità generativa adattandosi alla sterilità dell’uomo: fece voto di castità e diventò la Vergine cristiana. Così non dava più all’uomo occasione di essere invidioso, perché ora si sentiva finalmente sicuro dalla donna!”[92] Ma la parola “casto” non individua solo la persona che vive nell’astinenza ma anche chi è consapevole di qualcosa; e allora la castità di Maria può essere letta come astensione cosciente dai modelli di pensiero patriarcali in base ai quali normalmente si interpreta la volontà divina, come comprensione di ciò che veramente può essere definito divino e come rappresentazione, attraverso la sua vita reale, dell’amore, della libertà e della giustizia.

 

Agar e Sara

 

La Bibbia racconta che Abramo ebbe due figli, Ismaele il primo nato da Agar, una serva, ed Isacco, nato da Sara, sua moglie. Agar, la schiava egiziana di Sara, di fronte alla figura bella e forte della sua padrona, resta prevalentemente in ombra. Solo due racconti (Gen. 16 e 21, 9-21) la fanno riaffiorare rendendola protagonista per qualche breve momento. Quella di Agar è un’esistenza marginale, periferica rispetto alla storia della salvezza, un’esistenza nella quale molte donne possono identificarsi e che, a seguito degli eventi che accadono e dell’attenzione ricevuta da Dio, si trasforma. Agar, la schiava, viene contrapposta a Sara, la libera (Gal. 4, 22 segg.), in realtà sottoposta prima al padre, successivamente al marito. In questo racconto la divisione in classi e il dualismo impediscono la solidarietà tra le due donne  entrambe vittime di una situazione di conflitto inevitabilmente presente in un ordine sociale impostato su criteri di sottomissione/dominio.

Dio ha promesso una discendenza numerosa ad Abramo ma egli e la moglie sono ormai molto vecchi e le circostanze sembrano andare inequivocabilmente nella direzione opposta: non pare proprio possibile che i due anziani sposi possano avere ora un figlio, dopo tanti anni. La donna sa bene che la nuova vita ha origine dal corpo, base e culla dell’esistenza; sa pure che il suo corpo è vecchio e sterile, ormai prossimo alla morte. “Nella sua rigidità psicologica era incapace di sciogliere uno spazio per l’immaginazione.”[93] E così Sara, prendendo in mano la situazione, chiede ad Abramo di andare verso la sua schiava perché lei possa darle un bambino di cui disporre, perché possa avere un figlio tramite lei. Secondo le usanze dell’antico Oriente la schiava poteva essere usata in questo modo dalla padrona sterile. Ad Agar non viene chiesto niente, è schiava e donna, di certo non interessa a nessuno conoscere il suo pensiero; con il suo corpo, la sua vita, la sua fecondità è completamente sottomessa e strumentale al suo scopo. Ma ecco che la gravidanza, il suo bambino, le danno una forza ed un orgoglio che prima non conosceva. L’unione con Abramo e la sua nuova condizione permettono ad Agar di cambiare posto socialmente nonostante i costumi e le leggi del tempo fossero certamente contro di lei ed in favore della padrona. Ella è riuscita a realizzare ciò in cui Sara, ricca di bellezza e potenza, non è riuscita ed è così che la signora diventa leggera ai suoi occhi, anzi disprezzabile per il suo gesto ed il suo comportamento. L’importanza e la devozione finora rivolte a lei perdono improvvisamente di significato e Agar trova l’energia per esprimere ed affermare la propria identità e dignità sciogliendosi dal legame di appartenenza e non sopportando più di vivere una vita determinata da altri. Slegandosi riesce a porsi di fronte a Sara come soggetto altro e ciò che la padrona pensava sotto il proprio controllo, schiava e neonato, non potrà possedere. “La cultura maschile aveva dato a Sara, in quanto padrona, il potere sulla schiava, ma la natura (o il divino?) aveva dato ad Agar un potere sulla padrona: la sua fertilità! La natura stessa si erge e si ribella contro Sara, diventata portatrice delle regole patriarcali. … Sara si trova presa in trappola, in mezzo alle contraddizioni di una cultura classista. … Sara non riesce a sottrarsi al meccanismo creato dal patriarcato: e Sara maltrattò Agar che fuggì lontano da lei.”[94]

La discriminazione in base alla classe, al sesso e forse anche alla razza, la stanchezza di Agar ma anche il suo coraggio, il suo desiderio di liberazione richiamano, a questo punto, la presenza di Dio che pochissime volte, nel Primo Testamento, si manifesta ad una donna. Ed è proprio a questa donna, maltrattata dalla cultura e resa fragile dalla natura, che Dio rivolge il suo sguardo e la sua parola chiamandola per nome ed interessandosi di lei, della sua storia e dei suoi progetti (“da dove vieni? E dove vai?”). In quel momento Dio, che si rivolge con tenerezza verso Agar, ha di fronte una donna in attesa di un bambino, sola, nel deserto, alla quale consiglia di tornare indietro; pur riconoscendola e riconoscendo la sua umiliazione, la invita a fare un esame di realtà: non è ancora il tempo, per lei, di fuggire. Dio non compie, in quel momento, azioni straordinarie, apparentemente si schiera dalla parte di chi detiene il potere non sostenendo la disperata ribellione della schiava umiliata. Ma non è finita qui, Dio ha già in mente altro per Agar ed una promessa, un nuovo intervento ribalta la situazione: i suoi discendenti saranno così numerosi da non poter essere contati e da potersi contrapporre, con la forza dell’unione, ai tentativi di dominio.

Ad Agar viene assegnato il compito di custodire dentro di sé, di dare vita al figlio, di seguirlo e sostenerlo nella crescita, di insegnargli l’autonomia ed il coraggio, di respirare il respiro della libertà con Ismaele (“Dio ascolta”), colui che darà origine a questa discendenza e seguirà il sentiero di ribellione tracciato dalla madre. Egli lavorerà sulla formazione della sua identità e si porrà di fronte ai nemici ed ai fratelli come persona libera. E’ la schiava Agar che riceve direttamente da Dio una promessa simile a quella fatta ad Abramo, non la padrona Sara. “Il figlio, frutto di quella decisione umana, frutto di una società profondamente ingiusta, non diventa erede della promessa fatta ad Abramo ma di una nuova promessa rivolta ad Agar. … Il figlio chiamato ’Ismaele’ diventa il segno vivente di come Dio aveva ascoltato Agar.”[95]

L’incontro col divino riempie di stupore e meraviglia Agar ma non la lascia senza parole, lei è capace di parlare dell’esperienza che ha vissuto e che non poteva andare persa, della sua nuova consapevolezza che, prima che noi ci accorgiamo di Dio, siamo già pensati, visti e riconosciuti da lui.

Agar è tornata dalla sua padrona ma quattordici anni dopo nasce Isacco, il figlio di Sara ed Abramo, tra l’incredulità ed il riso che si trasforma da risata di derisione e paura a risata di gioia e ringraziamento per questo evento straordinario che sovverte vecchi ordini. Il conflitto tra Sara e Agar resta irrisolto e sembra proprio la donna “libera”, ma in realtà sottomessa al marito ed ingabbiata dalle regole sociali dominanti, “vittima debole di una serie di contraddizioni di un mondo che lei non ha forgiato”[96], che non riesce a tollerare la convivenza tra il figlio della schiava ed il figlio della libera; non riesce, come ha fatto Agar, a travolgere le convenzioni, a stabilire un’alleanza con lei che rimandi l’immagine di due donne che stanno una di fronte all’altra e che traggano energia da questa relazione; non riesce a rinunciare alla condizione di privilegio per sé e per Isacco. Per Sara non è ancora il tempo, “l’alterità non ha ancora avuto luogo”[97], non è ancora pronta ad accettare l’altro. Non è capace di comporre la contrapposizione, di far convivere le due promesse come vorrebbe Abramo, che umanamente soffre per la richiesta della moglie di cacciare la schiava ed Ismaele, e cerca risposta in Dio. Agar ed il figlio sono nuovamente costretti a partire, ad allontanarsi dalla casa della padrona, questa volta non per decisione autonoma. Ella se ne va e, con Ismaele, si perde nel deserto.

Agar attraversa momenti di assoluta disperazione, perde la speranza; l’acqua che Abramo le aveva dato è finita, Ismaele sta morendo di sete e la madre lo adagia all’ombra di un cespuglio e si allontana: non può proprio sopportare, impotente e privata di ogni strumento, di guardare il figlio che muore. In questo stato di angoscia, abbandonata e cacciata, non ricorda più la promessa di Dio e piange, grida forte il suo dolore ed il suo pianto si unisce a quello del figlio che sta vivendo lo stesso senso di abbandono disperato. Ma anche questa volta, quando tutto sembrava veramente perduto, c’è una possibilità di rinascita; Dio sente la voce del ragazzo, che pure doveva essere flebile, vede nuovamente il dolore della donna e la consola. Ed ecco che lo sguardo tenero ed attento che Agar sente su di sé, apre lo sguardo anche a lei che finalmente vede una sorgente, la possibilità di risvegliarsi e di ripartire con fiducia. E questa volta non le viene più richiesto di tornare ad umiliarsi ma di agire da donna libera, di prendersi cura di Ismaele e di guidarlo con sicurezza perché diventi un uomo capace di dare origine ad un grande popolo.

La storia di Agar è dunque una storia di liberazione. “Agar viene liberata in quanto persona priva di diritti: protagonista del racconto è una donna sfruttata nel corpo e nella vita. E l’angelo di Dio incontra proprio lei, privata dei propri diritti e della propria libertà e le rivela che Dio sta dalla sua parte. Agar viene liberata in quanto non-israelita: qui, per la prima volta, la Bibbia parla dell’apparizione di un angelo e quando ne parlerà in seguito – con l’eccezione di Bileam, Numeri 22 – l’avvenimento riguarderà sempre persone appartenenti al popolo di Israele. … Agar viene liberata in quanto donna: Agar diventa la fondatrice di un luogo sacro, poiché lei stessa dà un nome al luogo dell’apparizione angelica. … con questo gesto Agar dimostra che, con l’aiuto di Dio, lei – la donna egiziana – è diventata una persona autonoma.”[98]

La storia di Agar è la storia di una madre la cui presenza ed influenza psicologica, emotiva ed educativa sul percorso di vita e di crescita del figlio è valorizzata ed assume una importanza straordinaria non solo nella vita della singola persona ma nella realizzazione di progetti di grande valenza sociale e forza trasformatrice. La storia di Agar s’intreccia con le storie di tutte le madri, ma anche dei padri, che credono nella forza sovversiva del loro semplice ma profondo “lavoro” quotidiano con i figli.

 

La donna siro-fenicia[99]

 

            Gesù si trovava con i suoi discepoli nei pressi di Tiro e Sidone, in Fenicia, appena a nord della Galilea superiore, città pagane che non beneficiavano della predicazione del maestro. Egli cercava invano un po’ di solitudine e silenzio, lontano dalle folle che lo incalzavano per  il bisogno di ritrovarsi in se stesso e con i suoi discepoli ed allontanarsi, per qualche momento, dal contatto con le miserie della gente. Nella sua condizione umana riconosce di avere dei limiti, li rispetta e comprende che, talvolta, “prendendo le distanze” dai problemi, è possibile essere più vicini ed offrire in modo più efficace il proprio aiuto. Come ci spiega Eugen Drewermann, teologo tedesco che si avvale per le sue analisi della psicologia del profondo, Gesù concentrò la sua missione entro i confini territoriali di Israele nella convinzione che non fosse opportuno disperdere le energie se l’obiettivo era quello di creare “da qualche parte sulla terra un luogo nel quale si potesse vedere come si vive in modo umanamente giusto.”[100]

            Una donna greca, di origine siro-fenicia, identificata come pagana, si avvicina a Gesù all’interno della casa in cui aveva cercato rifugio e, gettandosi ai suoi piedi, grida la sua disperazione e lo implora di guarire la figlia ammalata, tormentata da un demonio. Non si dice altro sulle sue condizioni: non viene menzionato alcun parente maschio, né quale sia il suo livello economico. La madre, sulla quale probabilmente gravano tutte le difficoltà e responsabilità della famiglia, non chiede aiuto per sé ma per la sua bambina. Una persona può sopportare ciò che la vita richiede in termini di sofferenza per la propria persona ma veramente disperato può essere il dolore che si prova quando sono le persone più vicine, che sono affidate alla nostra responsabilità e cura, a precipitare e per le quali ci sentiamo impotenti. “La donna del racconto … rappresenta tutti coloro che sono gravati e tormentati dalla preoccupazione per il bisogno di un’altra creatura che è loro affidata, senza poter fare niente per eliminarlo. … incarna tutta la sofferenza che scaturisce dalla preoccupazione per la vita di un altro che viene annientata.”[101] La sua voce insistente, così rispettosa ma indomabile, sembra rappresentare la voce di tutte le minoranze soffocate e sofferenti della storia.

Quella che viene indicata come possessione diabolica è una condizione che appare senza via d’uscita, un ingranaggio che porta all’autodistruzione, uno stato di malattia, infelicità, di oppositività, di incapacità di sentire ed esprimere il bene, dove l’unica possibilità è quella di agire per la propria rovina. Non esiste peso, angoscia più grave da portare per una madre. Con questo bagaglio, con grande amore per questa figlia irrimediabilmente perduta, la donna raggiunge Gesù per rivolgergli una preghiera senza neanche potere, ormai, immaginare quale forma potrebbe assumere la salvezza. E’ una preghiera quasi inopportuna, la donna appare molesta ed i discepoli cercano di cacciarla; “un pregare del tutto fuori posto, che nasce esclusivamente da quella passione provocata dal bisogno, che non può smettere di aggrapparsi ad ogni speranza e di correrle dietro, anche a costo di mendicare come un cane.”[102]

Ed è proprio con una dura metafora che Gesù paragona la donna e la fanciulla a cagnolini cui non deve essere dato il pane dei figli e manifesta il rifiuto ad accogliere la sua preghiera. “E’ un pregare che chiede solo pietà, un pregare rifiutato, senza risposta, cacciato via, e ciononostante corre appresso, cade ai piedi dell’altro e non si stanca di gridare: ‘Signore, aiutami.”[103] Gesù aveva già guarito uno straniero, l’indemoniato, quindi la nazionalità e l’appartenenza religiosa non potevano essere sufficienti a spiegare il suo atteggiamento che desta in chi legge stupore e smarrimento; solo il genere differenziano la donna dallo straniero miracolato. L’azione di avvicinare un uomo estraneo per ottenere un vantaggio per la sua famiglia è audace e non convenzionale, probabilmente inaccettabile per quel contesto, dal momento che la protezione e la cura di una famiglia rispettabile doveva essere sotto la responsabilità del padre o del parente maschio più anziano.

Ma la storia non finisce qui e questo ci solleva. La siro-fenicia potrebbe allontanarsi, umiliata, sopportare l’ingiustizia, rientrare nei ranghi, comportarsi come ci si aspetta da una donna nelle sue condizioni, smettere di importunare l’uomo. Tuttavia è troppo grande la sua disperazione e profondo l’amore per la figlia tanto che ella peggiora la sua condotta vergognosa rispondendo con audacia, seppure in modo rispettoso e deferente, a Gesù; rivoltando in maniera disarmante la metafora, afferma che anche i cagnolini, sotto la tavola, mangiano le briciole dei figli. Gesù viene colpito dalla sua capacità di superare gli ostacoli con coraggio, perseveranza, convinzione ed intelligenza, anziché con umiltà e sottomissione. Egli, nonostante fosse parte del suo tempo, integrato nell’identità collettiva ebrea al punto da non far sospettare, in questo racconto, l’esistenza di uno spiraglio minimo che consentisse un intervento positivo, in realtà credeva più di ogni cosa negli esseri umani, nell’amore, nella bontà e nella compassione e non nelle leggi, nella costrizione e nella condanna.

Quest’uomo, nella sua realtà storica, aveva la necessità di porre dei confini, di proteggersi dall’eccesso di affollamento e di richieste ma la sofferenza umana è universale, è in ogni angolo della terra, non tollera confini e lui lo sa. Lo straniero rappresenta una parte che deve essere ancora riconosciuta e quindi da integrare, da fare propria. Se si considera seriamente l’umanità di Gesù è necessario accettare che egli, come tutti, sia segnato dai limiti umani, soprattutto da quelli culturali del suo tempo e della sua gente; significa “non escludere la possibilità di una sua risposta non pregiudizialmente esemplare; di una risposta qualunque, spontanea, anche distratta o impaziente, segnata dal limite umano.”[104]

La condotta non convenzionale della donna, “che all’inizio attira la collera del maschio dominante, alla fine cambia quell’ira in consenso … Gesù ha già insegnato ad altri che gli usi religiosi non dovrebbero impedire di fare il bene a coloro che ne hanno bisogno. Ora si deve insegnare a lui che neanche le convenzioni sociali dovrebbero essere un ostacolo.”[105] L’incontro con la donna siro-fenicia sollecita una nuova presa di coscienza in Gesù, favorisce e stimola l’evoluzione interiore che si compie dentro di lui; è un mutamento di grande importanza che concerne tutta la sua esistenza e la sua missione. Di fronte alla comprensibile resistenza della donna, la riconosce, trae un insegnamento ed accetta con semplicità, stupore ed immediatezza, senza presunzione, di essere messo in discussione: “queste tue parole mi hanno convinto!” Si apre una possibilità di eccezione, una nuova via d’uscita anche all’interno di un contesto rigido e formale.

A differenza degli altri dialoghi di controversia, in questo caso non è Gesù che ha l’ultima parola ma, anzi, è proprio la posizione della donna a prevalere. “Sebbene la donna sirofenicia rispetti la priorità dei ‘figli d’Israele’, tuttavia oppone un argomento teologico alla limitazione al solo Israele della comunione di mensa messianica di Gesù aperta a tutti. Il fatto che questo argomento teologico sia messo in bocca a una donna è un segno della funzione storica di guida avuta dalle donne nell’aprire il movimento e la comunità di Gesù ai ‘peccatori’ pagani.”[106]

Ciò che la donna domanda è apparentemente insignificante in confronto alla salvezza dell’umanità, ella chiede le briciole, gli avanzi, chiede che Gesù si concentri sul suo “piccolo” dramma personale; egli però sembra comprendere bene questa donna al punto da definire grande la sua fede. In fondo, questo bisogno di circoscrivere, di concentrarsi sullo spazio concreto e limitato di cui hanno ricevuto la responsabilità, occupandosi di coloro che sono loro affidati senza disperdere l’energia necessaria, li accomuna. “Ma forse è stato proprio il fatto che Gesù ha insistito sui confini a suggerire a questa donna … l’idea più importante. Forse solo in questo momento le è apparso chiaro per la prima volta che perfino colui che lei confessa e implora come il suo salvatore, ha il diritto di porsi dei limiti. E quanto più lei stessa! Anche la sua responsabilità ha dunque un limite!”[107] Nasce, a questo punto, la consapevolezza che esistono dei limiti a ciò che possiamo fare per gli altri, alla nostra intenzione di essere premurosi, ci sono forme di bisogno cui non possiamo prestare soccorso dall’esterno, nonostante resti l’amore. Ed è probabilmente da questa consapevolezza che parte la guarigione.

La figlia viene definita “ossessa”, posseduta dal demonio, espressione che in Israele, al tempo di Gesù, veniva utilizzata per indicare le molte malattie delle quali non si conoscevano né cause, né cure. Sono termini che fanno pensare ad una malattia psicosomatica grave che ostacola o impedisce la vita di relazione, che suggeriscono l’interruzione della comunicazione con la madre, l’incomprensione reciproca, l’impossibilità di riconoscere la personalità della ragazza, di percepirla  attraverso i suoi gesti e le parole, di cogliere l’autenticità della sua vita personale. E’ possibile immaginare che, secondo le suggestioni che ci propone Drewermann, le difficoltà nascessero proprio all’interno di questa relazione, di questo rapporto particolare tra madre e figlia fatto di grande sollecitudine e protezione, “una relazione in cui una donna cerca di aggrapparsi alla sua creatura come al suo unico bene, come alla ‘creatura che mi completa’ con tutta la forza che deriva dal fatto di avere la totale responsabilità per la cura della figlia. Questa creatura è il suo futuro, il suo orgoglio, la sua ambizione, la sua speranza, il suo sostegno e la sua consolazione, ma d’altra parte deve diventare alla stesso tempo anche l’oggetto della sua inquietudine, della sua angoscia, del suo affanno.”[108] Forse ciò che tormenta questa fanciulla è proprio l’ansia della madre, l’eccesso di sollecitudine che diventa soffocante e porta alla perdita di fiducia in se stessa e ad una condizione di dipendenza; quanto più la madre si caricherà di senso di responsabilità, tanto peggio sarà per la figlia. Ed è proprio dalla consapevolezza dell’importanza di stabilire dei limiti al senso di responsabilità e del dovere che scaturisce la trasformazione e la guarigione. Trasformazione che interessa prima di tutto la madre che si sente ascoltata e guarita e che intravede la strada per rispondere alle giuste esigenze della figlia di ritrovare in se stessa il senso ed il coraggio di vivere; trasformazione che nasce dalla comprensione dell’inopportunità di risolvere attraverso gli altri le difficoltà che risiedono in noi stessi. Solo attraverso questo passaggio potrà finalmente iniziare a credere nella possibilità della figlia di assumersi la responsabilità della sua vita ed il piacere di “piantare il modesto fiore della sua felicità.” “Se questa madre torna a casa dalla figlia con un sentimento di fiducia e di sicurezza, il fantasma dell’estraneità si dissolve a poco a poco da sé e si esaurisce il dovere di considerare l’altra persona falsa, malata, ingiusta, sbagliata, comunque bisognosa di educazione.”[109]

E dunque ancora una storia di cambiamento che conduce ad una nuova condizione di vita, ad una guarigione, ad una liberazione. E’ una trasformazione che parte dall’incontro con se stessi, dalla consapevolezza della propria situazione, della propria inadeguatezza, della propria sofferenza e dei limiti che abbiamo, che incontriamo e dobbiamo riconoscere. E’ una trasformazione che passa attraverso momenti di crisi, di rifiuto e che ha bisogno, per compiersi, di tanta tenacia e perseveranza, che non ammette atteggiamenti di rinuncia e sottomissione. E’ una trasformazione che, proprio in forza della comprensione profonda data dall’esperienza di svantaggio, dà voce e forza ai più deboli, che urla per chi non lo può fare.

E dunque ancora la storia di una donna significativa e di una madre che si racconta a tutte le altre donne ed agli uomini.


Capitolo 5

 

CONCLUSIONI

 

 

            A partire dall’analisi sulla condizione della donna nella società e nelle chiese, le teologhe femministe portano alla luce temi e riflessioni che riguardano ogni essere umano nella relazione con se stesso, con le altre persone, con la natura, col mondo, col divino. Temi che, a mio parere, vanno oltre la trattazione di genere e propongono orizzonti nuovi che partono proprio dal superamento di ogni tipo di contrapposizione e dualismo, i quali incasellano in categorie rigide e predefinite e non consentono l’individuazione di scenari creativi e plurali. Le teologhe, tra cui possiamo citare Mary Daly, Elisabeth Schüssler Fiorenza, Sallie McFague, Rosemary Radford Ruether, Elizabeth Green e molte altre, propongono una teologia dell’integralità che non separi ma tenga fruttuosamente insieme le polarità (corpo e anima, terra e cielo, donna e uomo, natura e storia, Sud e Nord …) nella consapevolezza che ogni separazione crea una distanza che viene mantenuta per conservare il predominio di un polo rispetto all’altro. Consapevoli e convinte altresì che il pensare in modo individualistico, gerarchico, dualista ed utilitarista sia superato ed abbia dimostrato e dimostri ogni giorno di essere distruttivo della vita in ogni forma in cui si manifesta.

            Il rischio che forse ci si poteva aspettare dalla loro riflessione era quello di ritrovare, al femminile, modelli mutuati dal mondo maschile; che esse continuassero, sull’onda dell’emancipazionismo, ad utilizzare l’uomo come misura di riferimento, ad offrire, in modo un po’ miope, l’occasione di una lotta per rivendicare spazi di potere, per esercitare autorità, per imporre la propria voce. Il rischio poteva essere quello di costruire nuove forme di contrapposizione o di occupare nuove posizioni sociali facendo uso dell’aggressività oppure, ancora, di esaltare la femminilità delle donne svalutando gli uomini. Il rischio, infine, poteva essere quello di ritrovare schematismi, formule, definizioni femministe rigide e statiche da sovrapporre a quelle maschili tutte da rigettare.

Mi pare invece che le numerose donne che si sono dedicate a studi e riflessioni teologiche a partire da un’analisi femminista, pur nella loro diversità di appartenenza religiosa (gli studi teologici femministi attraversano tutte le tre grandi religioni: cristianesimo, ebraismo e islamismo) e culturale, pur giungendo talvolta a conclusioni plurali e, in certi casi, molto distanti, propongano, in modo trasversale, stimoli interessanti per tutti e tutte. Propongono temi che potrebbero costituire la base su cui costruire un nuovo ordine sociale non gerarchico, non violento, non basato sulla contrapposizione sottomissione-dominio; un ordine che possa dare impulso a trasformazioni che vadano nella direzione di una vera umanizzazione delle relazioni interpersonali e della società nel suo complesso, delle istituzioni e della politica.

            Il tema del “chiamarsi per nome”, del riconoscersi per la propria identità e quello della reciprocità nelle relazioni mi sembrano molto importanti. Non si tratta di immaginare relazioni nelle quali l’uno assoggetti l’altro, neanche di pensare in termini di complementarietà, dimensione che presuppone una natura fissa che ricerca il completamento in un ordine già stabilito, ma di concepire una pluralità di trame nelle quali l’atto dell’offrire e quello del ricevere stanno insieme in un unico movimento dinamico e crescente.

            Ricercare nella vita e nell’esperienza di ciascuno e di ciascuna il significato e la verità di ciò che si dice e si racconta, il mettere in evidenza e dare valore alle molteplici dimensioni umane - la fragilità, la debolezza, la ricchezza e l’ambivalenza delle emozioni - l’allontanamento dai dogmatismi che uniformano, irrigidiscono e pietrificano sono altri temi che mi sembra significativo riproporre. Il confronto, in questo caso, è tra la verità che scaturisce dalla vita e dall’umanità di donne e uomini che è, per sua natura, diversificata e la rigidità di codici proposta dalle istituzioni. E’ la ricerca nell’individualità del luogo delle molteplici differenze.

            Queste tematiche si accompagnano ad una decisione di fondo, la scelta di schierarsi accanto agli oppressi e non ai potenti, unita alla consapevolezza che la “salvezza” non sia possibile oltre l’esistenza che viviamo, fuori dal mondo e senza di esso; alla convinzione che sia necessario passare attraverso la liberazione di chi è sottomesso, di chi non ha l’essenziale, di chi non ha voce, alla consapevolezza che la salvezza deve essere una realtà sociale, politica ed economica. Questa riflessione si colloca dentro il tema dell’inclusività, dell’invito per tutte e tutti alla festa all’interno di una sensibilità “ecologica” che si preoccupi anche della terra, che si prende cura di noi, con la quale siamo in un rapporto di interdipendenza, con la quale non si entra in relazione ma ci si trova in relazione come dato fondamentale dell’esistenza.

            La proposta di un nuovo linguaggio, di nuovi simboli, di nuove metafore e nuovi nomi per chiamare Dio, che siano più adatti al nostro tempo ed alla società di oggi, è un’altra area di lavoro nella quale le teologhe femministe si sono impegnate nel corso degli anni, dando vita a numerosissimi scritti e riflessioni. In alternativa a modelli trionfalistici, monarchici e patriarcali (Dio come signore, re, patriarca), che fanno ancora parte dell’immaginario tradizionale, hanno tentato di proporre metafore che, non solo includessero l’esperienza delle donne, ma che tenessero conto di una nuova sensibilità, globale e responsabile, che abbracci tutte le forme di vita e che riconosca l’interdipendenza tra esse. E’ questa un’area dell’elaborazione teologica che purtroppo non è stato possibile inserire in questo scritto per l’inevitabile necessità di delimitare il campo, ma che potrebbe essere interessante approfondire. In queste conclusioni mi limito a citare la teologa Sallie McFague che nel suo testo “Modelli di Dio” propone e argomenta le metafore di Dio come madre, come amante e come amico. Sallie McFague scrive: “i nomi sono importanti perché il modo in cui chiamiamo qualcosa, come le diamo un nome, è in larga misura ciò che è per noi. Siamo in modo preminente creature del linguaggio, e sebbene il linguaggio non esaurisca la realtà umana, la qualifica in modo profondo. Ne consegue, allora, che dare un nome può ferire, o può anche guarire e aiutare. … Il modo in cui diamo un nome a noi stessi/e, gli/le uni/e agli/lle altri/e e alla nostra terra non è commisurato al nostro tempo, ma usiamo nomi di un tempo andato. Per quanto possano aver guarito e aiutato un tempo, oggi sono dannosi. Ed è dannosa anche la teologia cristiana, che viene elaborata sulla base di nomi anacronistici. Nell’immaginazione e nei sentimenti viviamo in un mondo passato, un mondo dominato da una divinità benevola, ma assoluta, un mondo popolato da individui indipendenti (soprattutto esseri umani) che stanno in relazione gli/le uni/e con gli/le altri/e e cono le altre forme di vita, secondo modelli gerarchici. Ma questo non è il nostro mondo.”[110]

            Qual è allora il mondo che vogliamo? Molte donne e uomini sono convinti che tutto parta dalla relazione tra i generi, relazione fondamentale e originaria, dall’immagine che abbiamo della femmina e del maschio, dal modo di guardare all’altro da sé. Pensano che sia quella l’area da indagare per modificare radicalmente sguardo, atteggiamento e comportamento e compiere gesti creativi anziché distruttivi. Pensano che sia di fondamentale importanza, per la sopravvivenza di ogni forma di vita, modificare la storia, una brutta storia iniziata migliaia di anni fa, che ha introdotto, sulla base della maggior forza, le categorie del possesso e della paura, del dominio e della sottomissione.

            Sono questi i temi che considero maggiormente significativi e che rimarranno dentro di me. Sono temi che, per avere significato, non richiedono necessariamente una scelta di fede verso il divino; sono temi che incontrano l’amore per le donne e per gli uomini, la passione per il mondo, l’apertura verso la crescita ed il cambiamento, il desiderio di relazioni feconde che, se cercati in profondità, sono presenti in ogni bambino, in ogni donna ed in ogni uomo. E proprio per questo sono elementi che accomunano chiunque, che possono avvicinare oltre ogni differenza di cultura, religione, condizione sociale.

Per quanto mi riguarda ritengo che siano proprio i valori e le prassi che, attraverso la sua vita, ha proposto Gesù e nei quali mi riconosco ma che, nel corso dei secoli, l’istituzione ecclesiastica, per conservare se stessa ed il suo potere, spesso ha tradito, soffocato, calpestato. Facendo tacere le voci difformi, bollando di eresia qualunque espressione differente dalla dottrina, imponendo un pensiero unico ed infallibile, ha tentato di annullare la pluralità, la molteplicità delle esperienze, delle riflessioni, dei rituali che caratterizzavano le prime comunità cristiane e ne rappresentavano la ricchezza. Ha conosciuto il delirio del fondamentalismo che ha fatto credere alla chiesa cattolica ed alla sua cultura di trovarsi in una posizione di superiorità rispetto ad ogni altra civiltà e fede religiosa e l’ha autorizzata a compiere missioni di evangelizzazione talvolta poco rispettose o addirittura distruttive.

 

Arrivata al termine di questa ricerca, culturale e personale, che ha coinvolto le aree della razionalità ma anche, profondamente, quelle dell’emotività, dei sentimenti e delle relazioni, la sensazione è sicuramente di sollievo e soddisfazione ma anche, lievemente, di smarrimento.

Ho intrapreso questo viaggio piena di curiosità, di desiderio di comprendere che cosa molte donne, e anche qualche uomo, potevano dire di nuovo a proposito del divino e di Gesù. Che cosa potevano dire di trasgressivo, minoritario, alternativo rispetto a ciò che da sempre, fin dalla prima infanzia, è appartenuto al bagaglio degli insegnamenti ricevuti, dell’educazione di un “buon cristiano” fatta soprattutto di negazioni e condanne anziché di affermazioni positive, fatta delle verità indiscutibili, delle dichiarazioni e raccomandazioni espresse con solennità ma percepite come distanti dalla vita e dalle esperienze delle persone e della mia persona.

Non so perché, ma da quando ho coscienza di me stessa, mi sono sempre sentita più vicina alle posizioni deboli, che non s’impongono a gran voce e con impeto ma che raggiungono le donne e gli uomini attraverso vie secondarie, nascoste, da scoprire a volte con fatica, da ricercare in se stessi e attraverso la relazione con gli altri, ritrovando il silenzio che resta passata la confusione ed il clamore delle folle. Sono le posizioni espresse con voce sottile ma con grande passione, quella passione che deriva dalla comprensione e dalla trasformazione di se stessi, dall’esperienza vissuta intimamente dalle persone, col proprio corpo e la propria interiorità. Nella mia percezione, le posizioni maggioritarie, in ogni ambito, si accompagnano a note che richiamano i temi del potere, del dominio, della forza, dell’interesse economico, dell’imposizione acritica, temi che desidero rimangano estranei alle mie scelte.

            Anche questa volta, infastidita dalla voci forti del potere, dei dogmatismi, della dottrina, dei fondamentalismi che soffocano il dinamismo delle voci plurali dell’umanità che da ogni parte provano a manifestarsi, mi sono avvicinata alla teologia femminista che di suoni e colori ne ha tanti che si armonizzano e s’intrecciano, che talvolta contrastano, creando nuove sfumature. Quasi per caso, pensavo inizialmente, ma ora so che non è così, che qualcosa attendeva di essere scoperto. Armonie che tentano di esprimersi dentro culture e religioni diverse, che trovano spazio e offrono spunti di riflessione a donne e uomini che vivono esperienze umane e di fede nella quotidianità, personalmente ed all’interno di comunità; armonie che, però, difficilmente raggiungono gli orecchi delle istituzioni ecclesiastiche sempre più interessate a proteggersi da ogni vento di novità, da ogni voce fuori dal coro, da ogni testimonianza di vita che ricordi che l’essenza del Vangelo è altra cosa da quello che la dottrina, il canone, i dogmatismi, la morale sessuale cristiana perseguono.

            Lo smarrimento di cui parlavo all’inizio mi raggiunge lievemente perché questa prima parte del viaggio è terminata ed ora devo proseguire da sola, senza le compagne che ho incontrato, le studiose, le teologhe, le donne, che fino a qui mi hanno accompagnata e che hanno contribuito a dar luce, a riordinare pensieri ed emozioni che ho scoperto essere già presenti in me ma che attendevano di essere spolverati e ravvivati; pensieri che trovavano forma nella rabbia o nell’incapacità di comprendere come certi soprusi, o silenzi, o ipocrisie, o violazioni palesi e sistematiche delle più elementari istanze, potessero aver avuto luogo nel passato e aver luogo nel presente. Proprio, in particolare, all’interno dell’istituzione che, sola ed infallibile, ha preteso di parlare a nome di Gesù. Smarrimento che insorge di fronte alla domanda “che cosa si può fare?”, “cosa posso fare io?” per introdurre elementi di cambiamento, umanizzazione e liberazione nella società e nelle chiese.

Ad ognuno, donne e uomini, trovare la propria strada: nella vita e nelle relazioni quotidiane, nell’educazione dei figli, negli ambienti di lavoro, nell’impegno politico e sociale ed in ogni altro contesto ciascuno possa immaginare, attraverso la voce o il silenzio, attraverso  la parola o l’ascolto.

 

Ed infine un tenero e commosso ringraziamento a Franco, una persona cara, un prete, che proprio nei giorni in cui sto scrivendo queste righe ha ricevuto un grave provvedimento (“supremo, inappellabile e non soggetto ad alcun ricorso”) da parte delle alte istituzioni della chiesa cattolica senza essere sottoposto ad un democratico procedimento, senza che le sue posizioni potessero essere espresse, spiegate ed ascoltate da quelle stesse istituzioni; un uomo buono e sobrio, profondamente onesto, distante dagli apparati, dai dogmatismi ma teneramente vicino all’umanità della gente che incontra quotidianamente, soprattutto all’umanità delle persone più fragili, sinceramente ed intimamente vicino a Gesù e al suo sentiero.

E ancora smarrimento per questa ulteriore testimonianza…

 

             

           


BIBLIOGRAFIA

 

Testi

 

AA.VV., Maria nostra sorella, Edizioni com-nuovi tempi, Roma, 1988.

 

AA.VV., Le scomode figlie di Eva, Edizioni com-nuovi tempi, Roma, 1989.

 

AA.VV., Riletture bibliche al femminile: 27 saggi di interpretazione biblica femminista, Claudiana Editrice, Torino, 1994.

 

AA.VV., Le donne dicono Dio, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1995.

 

AA.VV., Maschio e femmina li creò. L’immagine femminile nelle religioni e nelle scritture, Gabrielli Editore, 1998.

 

AA.VV., Le figlie di Abramo. Donne sessualità e religione, Edizioni Angelo Guerini, Milano 1998.

 

Bacchiega Mario, Dio Padre o Dea Madre?, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1976.

 

Balasuriya Tissa, Marie ou la libération humaine, Edition Golias, Villeurbanne, 1997.

 

Balmary Marie, Il sacrificio interdetto. Freud e la Bibbia, Editrice Queriniana, Brescia, 1991.

 

Barbero Franco, La bestia che seduce, Comunità cristiana di base, Pinerolo (TO), 1990.

 

Barbero Franco, Il dono dello smarrimento, Quaderni di Viottoli, Comunità cristiana di base, Pinerolo (TO), 2000.

 

Barbero Franco, Battaglia Imma, Mazzinelli Tolmino, Tonificanti profumi di eresia, Quaderni di Viottoli, Comunità cristiana di base, Pinerolo (TO), 2001.

 

Bennet Anne McGrew, Implicazioni teologiche del movimento femminista, in La sfida del femminismo alla teologia a cura di Mary E. Hunt, Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985.

 

Betz H. D., Galatians, Hermeneia, Filadelfia, 1979.

 

Bibbia di Gerusalemme (La), ed. it., a cura di F. Vattioni, editrici Dehoniane, Bologna, 1974.

 

Borresen Kari Elisabeth (a cura di), A immagine di Dio, Carocci editore, Roma, 1995.

 

Bourdieu P., Il dominio maschile, Milano, 1998.

 

Brakeman Lyn, La serpentessa che voleva farsi amare. Piccole storie irriverenti di spiritualità al femminile, Piemme, Casale Monferrato (AL).

 

Bührig Marga, Donne invisibili e Dio patriarcale. Introduzione alla teologia femminista, Claudiana Editrice, Torino, 1989.

 

Bruno Luisa, Galetto Carla, Lupi Doranna, Nel segno di Rut, Quaderni di Viottoli, Comunità cristiana di base, Pinerolo (TO), 2000.

 

Carr Anne, Grazia che trasforma, Editrice Queriniana, Brescia, 1991.

 

Ceresa Ivana (a cura di), Donne e divino, Scuola di cultura contemporanea, 1992.

 

Collins Sheila, A different Heaven and Earth, Valley Forge, 1974.

 

Comunità cristiana di base di Pinerolo (TO), Il vento di Dio, pro-manoscritto, 1985.

 

Comunità cristiana di base di Pinerolo (TO), Lazzaro vieni fuori, pro-manoscritto, 1986.

Daly Mary, La chiesa e il secondo sesso, Rizzoli, Milano, 1982.

 

Daly Mary, Al di là di Dio Padre, Editori Riuniti, Roma, 1990.

 

De Beauvoir Simone, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 1961.

 

De Boer Esther, Maria Maddalena, Claudiana Editrice, Torino, 2000.

 

Di Lorenzo Silvia, La donna e la sua ombra, Emme edizioni, Milano, 1980.

 

Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano, 1987.

 

Drewermann Eugen, Il messaggio delle donne. Il sapere dell’amore, Editrice Queriniana, Brescia, 1993.

 

Drewermann Eugen, Io discendo nella barca del sole. Meditazioni su morte e resurrezione, Rizzoli, Milano, 1993.

 

Drewermann Eugen, C’e speranza per la fede?, Editrice Queriniana, Brescia, 2002.

 

Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti Editore, Milano, 1981.

 

Fabris Rinaldo, Zozzini Vilma, La donna nell’esperienza della prima Chiesa, Edizioni Paoline, Roma, 1982.

 

Fossati Roberta, E Dio creò la donna. Chiesa, religione e condizione femminile, Mazzotta, Milano, 1977.

 

Fromm Erich, Avere o essere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1977.

 

Garzonio Marco, Gesù e le donne. Gli incontri che hanno cambiato il Cristo, Rizzoli, Milano, 1990.

 

Gebara Ivone, Noi figlie di Eva, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1995.

 

Gibellini Rosino, La teologia nel XIX secolo, Editrice Queriniana, Brescia, 1992.

 

Gozzini Vilma, Se non io, chi per me?, Petaso, Palermo, 1991.

 

Green Elizabeth, Dal silenzio alla parola. Storie di donne nella Bibbia, Claudiana Editrice, Torino, 1992.

 

Green Elizabeth E., Perché la donna pastore, Claudiana Editrice, Torino, 1996.

 

Green Elizabeth E., Teologia femminista, Claudiana Editrice, Torino, 1998.

 

Green Elizabeth E., Lacrime amare, Claudiana Editrice, Torino, 2000.

 

Greeve Davaney Sheila, Teologia femminista e teologia cristiana. Saggio su ‘ Al di là di Dio Padre’ in La sfida del femminismo alla teologia a cura di Mary E. Hunt, Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985.

 

Halkes Catharina, Primo bilancio della teologia femminista in La sfida del femminismo alla teologia a cura di Mary E. Hunt, Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985.

 

Hopkins Julie M., Verso una cristologia femminista, Editrice Queriniana, Brescia, 1996.

 

Hunt Mary E., Teologia femminista e teologia della liberazione: metodi a confronto in La sfida del femminismo alla teologia a cura di Mary E. Hunt, Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985.

 

Hunt Mary E., Gibellini Rosino (a cura di),  La sfida del femminismo alla teologia, Editrice Queriniana, Brescia, 1980.

 

Imbens Annie, Jonker Ineke, Christianity and Incest, Tunbridge Wells, 1989.

 

Jacobelli M. Caterina, Il risus Paschalis. Il fondamento teologico del piacere sessuale, Editrice Queriniana, Brescia.

Johnson Elizabeth A., Colei che è. Il mistero di Dio nel discorso teologico femminista, Editrice Queriniana, Brescia, 1999.

 

Kohler Hanne, La creatura-di-terra in Riletture bibliche al femminile a cura di Eva Renate Schmidt, Mieke Korenhof e Renate Jost, Claudiana Editrice, Torino, 1994.

 

Kushner H. S., Nessuno ci chiede di essere perfetti, Neri Pozza, 1997.

 

Kushner L., Con gli occhi della mente, ECIG, Genova, 1998.

 

Langer Susanne K., Philosophy in a New Key, Harvard University Press, Cambridge, 1942.

 

Lazzeri Noretta, Andrés Innocenti Tony, Violenza sessuale, Firenze, 1997.

 

Leopardi Giovanni, Le donne come apostole, Edizioni Messaggero, Padova, 1992.

 

Libreria delle donne di Milano (la), Non credere di avere dei diritti, Rosemberg e Sellier, Torino, 1987.

 

Magli Ida, La donna un problema aperto, Vallecchi, Firenze, 1974.

 

Magli Ida, La Madonna”, Rizzoli, Milano, 1987.

 

McFague Sallie, Modelli di Dio. Teologia per un’era nucleare ecologica, Claudiana Editrice, Torino, 1998.

 

McGrew Bennet Anne, Implicazioni teologiche del movimento femminista in “La sfida del femminismo alla teologia” a cura di Mary E. Hunt, Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985.

 

Miegge Giovanni, La vergine Maria. Saggio di storia del dogma, Claudiana Editrice, Torino, 1959.

 

Militello Cettina, Donna in questione, La Cittadella, Assisi (PG), 1992.

Militello Cettina, Il volto femminile della storia, Piemme, Casale Monferrato (AL), 1995.

 

Molinari Franco, Chiesa femminista e anti, Marietti, Torino, 1977.

 

Moltmann Jürgen, Dio nella creazione, Editrice Queriniana, Brescia, 1992.

 

Moltmann-Wendel Elisabeth, Libertà, uguaglianza, sororità. Per l’emancipazione della donna, Editrice Queriniana, Brescia, 1979.

 

Moltmann-Wendel Elisabeth, Le donne che Gesù incontrò, Editrice Queriniana, Brescia, 1989.

 

Moltmann-Wendel Elisabeth, Il mio corpo sono io. Nuove vie verso la corporeità, Editrice Queriniana, Brescia, 1996.

 

Montagu Ashley, Il linguaggio della pelle, Vallardi, Milano, 1981.

 

Morace Sara, Origine donna. Dal matrismo al patriarcato, Prospettiva Edizioni, Roma, 1997.

 

Morton Nelle, Dio/Dea – immagine diletta in La sfida del femminismo alla teologia a cura di Mary E. Hunt, Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985.

 

Mulack Corista, Maria vergine e ribelle: la dea nascosta del cristianesimo, Red edizioni, Como, 1996.

 

Neumann Erich, La Grande Madre, Astrolabio, Roma, 1981.

 

Newson Carol A., Ringe Sharon H. (a cura di), La bibbia delle donne. Un commentario, Claudiana Editrice, Torino, 1999.

 

Pagels Elaine, I vangeli gnostici, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1979.

 

Pagels Elaine, Adamo, Eva e il serpente. Alle origini della morale sessuale cristiana, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1990.

 

Pinkola Estés Clarissa, Donne che corrono coi lupi, Edizioni Frassinelli, 1993.

 

Pinkus Lucio, Il mito di Maria, Borla, Roma, 1986.

 

Plaskow Judith, Teologia maschile ed esperienza femminile in La sfida del femminismo alla teologia a cura di Mary E. Hunt, Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985.

 

Queré France, Le donne nel Vangelo, Rusconi editore, Milano, 1983.

 

Radford Ruether Rosemary, Per una teologia della liberazione della donna, del corpo, della natura, Editrice Queriniana, Brescia, 1976.

 

Radford Ruether Rosemary, Cristologia e femminismo. Un Salvatore maschile può aiutare le donne? in La sfida del femminismo alla teologia a cura di Mary E. Hunt, Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985.

 

Radford Ruether Rosemary, Gaia e Dio. Una teologia ecofemminista per la guarigione della terra, Editrice Queriniana, Brescia, 1995.

 

Ricci Carla, Maria di Magdala e le molte altre, M. D’Auria Editore, Napoli, 1995.

 

Robinson James M. e Koester Helmut, Trajectories through Early Christianity, Fortress, 1971.

 

Russel Letty M., Liberazione della donna in una prospettiva biblica, Claudiana Editrice, Torino, 1972.

 

Russel Letty M., Teologia femminista, Editrice Queriniana, Brescia, 1977.

 

Russel Letty M. (a cura di), Interpretazione femminista della Bibbia, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1991.

 

Schüssler Fiorenza Elisabeth, In memoria di lei, Claudiana Editrice, Torino, 1990.

 

Schüssler Fiorenza Elisabeth, Gesù figlio di Miriam, profeta di Sophia, Claudiana Editrice, Torino, 1996.

 

Sebastiani Lilia, Donne dei Vangeli. Tratti personali e teologici, Edizioni Paoline, Milano, 1994.

 

Sebastiani Lilia, Tra/figurazione. Il personaggio evangelico di Maria di Magdala e il mito della peccatrice redenta nella tradizione occidentale, Editrice Queriniana, Brescia, 1992.

 

Soelle Dorothee, Cloyes Shirley A., Per lavorare e amare. Una teologia della creazione, Claudiana Editrice, Torino, 1990.

 

Soelle Dorothee, Sofferenza, Editrice Queriniana, Brescia, 1976.

 

Stanton Cady, The Woman's Bible, Ediz. Anastatica, New York, 1974.

 

Schmidt Eva Renate, Korenhof Mieke, Jost Renate (a cura di), Riletture bibliche al femminile, Claudiana Editrice, Torino, 1994.

 

Theissen Gerd, Itinerant Radicalism: The Tradition of Jesus’ Sayings from the Perspective of the Sociology of Literature in The Bible and Liberation: Political and Social Hermeneutics, a cura di N. K. Gottwald, A.C. Wire, Radical Religion Reader, Berkeley, 1976.

 

Valerio Adriana, Il Cristianesimo al femminile, D’Auria Editore, Napoli, 1990.

 

Valerio Adriana, Donne potere profezia, D’Auria Editore, Napoli, 1990.

 

Walter Karin, Bartolomei Maria Cristina (a cura di), Donne alla riscoperta della Bibbia, Editrice Queriniana, Brescia, 1988.

 

Warner Marina, Sola fra le donne. Mito e culto di Maria Vergine, Sellerio, Palermo, 1976.

 

Wolff Hanna, Gesù, la maschilità esemplare. La figura di Gesù secondo la psicologia del profondo, Editrice Queriniana, Brescia, 1979.

 

Wolff Hanna, Gesù psicoterapeuta, Editrice Queriniana, Brescia, 1982.

 

Riviste

 

AA.VV., Concilium, Rivista internazionale di teologia n. 6/1985, Donne: invisibili nella teologia e nella chiesa, Editrice Queriniana, Brescia.

 

AA.VV., Concilium, Rivista internazionale di teologia n. 2/1994, La violenza contro le donne, Editrice Queriniana, Brescia.

 

AA.VV., Concilium, Rivista internazionale di teologia n. 1/1996, Teologie femministe nei diversi contesti. Una chiesa in solidarietà con le donne, Editrice Queriniana, Brescia.

 

AA.VV., Concilium, Rivista internazionale di teologia n. 4/1997, Sulla molta violenza consentita contro le donne.  Il ruolo della religione e il superamento della violenza contro le donne, Editrice Queriniana, Brescia.

 

AA.VV., Concilium, Rivista internazionale di teologia n. 3/1998, Le scritture sacre delle donne.  Scritture, femminismo e contesti post coloniali, Editrice Queriniana, Brescia.

 

AA.VV., Concilium, Rivista internazionale di teologia n. 3/1999, La non ordinazione delle donne e la politica del potere, Editrice Queriniana, Brescia.

 

Perrone Lorenzo, Cristianesimo nella storia n. 5/2002, Eunuchi per il regno dei cieli?, editrici Dehoniane, Bologna.

 

 

Redstockings, April 1969, in Feminist Revolution, Random House, New York, 1975.

 

Joanne Carlson Brown, Rebecca Parker, Christianity, Patriarchy and Abuse: A Feminist Critique, Pilgrim Press, New York, 1989.

 

 



[1] Susanne K. Langer “Philosophy in a New Key”, Harvard University Press, Cambridge, 1942, pag. 3.

[2] Elizabeth Green “Teologia femminista “, Claudiana Editrice, Torino, 1998, pag. 19.

[3] Elisabeth Schüssler Fiorenza “In memoria di lei”, Claudiana Editrice, Torino, 1990, pag. 11.

[4] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 9.

[5] James M. Robinson e Helmut Koester “Trajectories through Early Christianity”, Fortress, 1971, pag. 1.

[6] Elisabeth Schüssler  Fiorenza , op. cit., pag. 14.

[7] Simone De Beauvoir “Il secondo sesso”, Il Saggiatore, Milano, 1961, pag. 16.

[8] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 107.

[9] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 26.

[10] Cady Stanton "The Woman's Bible", Ediz. Anastatica, New York, 1974, pagg. 7 s.

[11] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 32.

 

[12] Nelle Morton (California) “Dio/Dea – immagine diletta” in “La sfida del femminismo alla teologia” a cura di Mary E. Hunt – Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985, pagg 54-55.

[13] Nelle Morton, op cit., pag. 53.

[14] Mary Daly “La Chiesa e il secondo sesso”, Ecumenica Editrice, Bari, 1980, pag. 65.

[15] Mary E. Hunt (California) “Teologia femminista e teologia della liberazione: metodi a confronto” in “La sfida del femminismo alla teologia” a cura di Mary E. Hunt – Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985, pag. 153.

[16] Mary E. Hunt, op. cit., pag. 153.

[17] Sheila Collins “A different Heaven and Earth”, Judson Press, Valley Forge, 1974.

[18] Mary E. Hunt, op. cit., pag. 150.

[19] Mary E. Hunt, op. cit., pag. 148.

[20] Mary E. Hunt, op. cit., pag. 156.

[21] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 23.

[22] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 24.

[23] Letty M. Russel “Teologia femminista”, Editrice Queriniana, Brescia, 1977, pag. 164.

[24] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 47.

[25] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 48.

 

[26] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 51.

[27] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 57.

[28] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 73.

[29] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 145.

[30] Redstockings, April 1969, in Feminist Revolution, New York, Random House, 1975, pag. 205.

[31] Elisabeth Schüssler  Fiorenza, op. cit., pag. 177

[32] H. D. Betz, “Galatians”, Hermeneia, Filadelfia, 1979, pag. 255

[33] Gal 3,26-28 “Perché siete tutti figli di Dio. Infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è qui né giudeo né greco, non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina perché voi tutti siete uno.”

[34] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 235

[35] Gerd Theissen “Itinerant Radicalism: The Tradition of Jesus’ Sayings from the Perspective of the Sociology of Literature” in “The Bible and Liberation: Political and Social Hermeneutics” a cura di N. K. Gottwald e A.C. Wire, Radical Religion Reader, Berkeley, 1976, pag. 91.

[36] Elaine Pagels “I vangeli gnostici”, Mondadori, Milano, 1979, pag. 220.

[37] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 266.

[38] Elizabeth Green, op. cit., pag. 33.

[39] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 368.

[40] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 355.

[41] Gv 2,4

[42] Elisabeth Schüssler Fiorenza, op. cit., pag. 363.

[43] Anne McGrew Bennet “Implicazioni teologiche del movimento femminista” in “La sfida del femminismo alla teologia” a cura di Mary E. Hunt – Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985, pag. 49.

[44] Elisabeth Schüssler Fiorenza “Gesù figlio di Miriam, profeta di Sophia”, Claudiana editrice, Torino, pag. 74.

[45] Mary Daly “Al di là di Dio Padre”, Editori Riuniti, Roma, 1990, pag. 27.

[46] Mary Daly, op. cit., pag. 39.

[47] Sheila Greeve Davaney “Teologia femminista e teologia cristiana. Saggio su ‘ Al di là di Dio Padre’ ” in “La sfida del femminismo alla teologia” a cura di Mary E. Hunt – Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985, pag. 95.

[48] Lone Fatum “Immagine di Dio e gloria dell’uomo: le donne nelle comunità paoline” in “A immagine di Dio”, a cura di Kari Elisabeth Borresen, Carocci editore, Roma, 1995, pag. 133.

[49] Rosemary Radford Ruether (Illinois) “Cristologia e femminismo. Un Salvatore maschile può aiutare le donne?” in “La sfida del femminismo alla teologia” a cura di Mary E. Hunt – Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985, pag. 135.

[50] Cfr. Lorenzo Perrone “Eunuchi per il regno dei cieli?” in “Cristianesimo nella storia” 5/2002, Editrice Dehoniane, Bologna.

[51] Giud. 19-21, II Sam. 13, I Re 16, II Re 9, Osea 1.3, Ez. 16 e 23.

[52] Elizabeth E. Green “Lacrime amare”, Claudiana Editrice, Torino, 2000, pag. 64.

[53] Elizabeth E. Green “Lacrime amare”, op. cit., pag. 73.

[54] Clarissa Pinkola Estés “Donne che corrono coi lupi”, Edizioni Frassinelli, 1993, pag. 206.

[55] Clarissa Pinkola Estés , op. cit., pag. 200.

[56] Elizabeth E. Green “Lacrime amare”, op. cit., pag. 30.

[57] Elisabeth Schüssler Fiorenza “Gesù…”, op. cit., pag. 60.

[58] Judith Plaskow “Teologia maschile ed esperienza femminile” in “La sfida del femminismo alla teologia” a cura di Mary E. Hunt – Rosino Gibellini, Editrice Queriniana, Brescia, 1985, pag. 117.

[59] Elizabeth E. Green “Lacrime amare”, op. cit., pag. 47.

[60] Clarissa Pinkola Estés , op. cit., pag. 365.

[61] Elizabeth E. Green “Lacrime amare”, op. cit., pag. 5.

[62] Gv 20,15

[63] P. Bourdieu “Il dominio maschile”, Milano, 1998, pag. 29.

[64] Joanne Carlson Brown, Rebecca Parker, a cura di Carol R.Bohn, “Christianity, Patriarchy and Abuse: A Feminist Critique”, Pilgrim Press, New York, 1989, pag. 26.

[65] Annie Imbens e Ineke Jonker “Christianity and Incest”, Tunbridge Wells, 1989.

[66] Elisabeth Schüssler Fiorenza “Gesù…”, op. cit., pag. 140.

[67] Rosemary Radford Ruether “Gaia e Dio. Una teologia ecofemminista per la guarigione della terra”, Editrice Queriniana, Brescia, 1995, pag. 374.

[68] Noretta Lazzeri e Tony Andrés Innocenti “Violenza sessuale”, Firenze, 1997, pag. 53.

[69] Elizabeth E. Green “Lacrime amare”, op. cit., pag. 51.

[70] Elizabeth E. Green “Lacrime amare”, op. cit., pag. 52.

[71] Nelle Morton (California) “Dio/Dea…” op. cit., pag. 56.

[72] Nelle Morton (California) “Dio/Dea…” op. cit., pag. 54.

[73] Elizabeth E. Green “Lacrime amare”, op. cit., pag. 107.

[74] Karin Walter, Maria Cristina Bartolomei, a cura di, “Donne alla riscoperta della Bibbia”, Editrice Queriniana, Brescia, 1988, pag. 6.

[75] Mary Daly, op. cit., pag. 59.

[76] Ivone Gebara “Noi figlie di Eva”, Cittadella Editrice, Assisi, 1995, pag. 24.

[77] Ivone Gebara, op. cit., pag. 25.

[78] Mary Daly, op. cit., pag. 67.

[79] Hanne Kohler “La creatura-di-terra” in “Riletture bibliche al femminile” a cura di Eva Renate Schmidt, Mieke Korenhof e Renate Jost, Claudiana Editrice, Torino, 1994, pag. 10.

[80] Marie Balmary “Il sacrificio interdetto. Freud e la Bibbia”, Editrice Queriniana, Brescia, 1991, pag. 265.

[81] Marie Balmary, op. cit., pagg. 281-283.

[82] Mary Daly, op. cit., pag. 85.

[83] Franco Barbero “Il dono dello smarrimento”, Quaderni di Viottoli, Comunità cristiana di base, Pinerolo (TO), 2000, pag. 34.

[84] H. S. Kushner “Nessuno ci chiede di essere perfetti”, Neri Pozza, 1997, pagg. 27 e 33.

[85] Elisabeth Schüssler Fiorenza “Gesù…”, op. cit., pag. 240.

[86] Rosemary Radford Ruether  “Cristologia e femminismo…”, op. cit., pag. 135.

[87] Mt. 1,18-20; Lc. 1,34.

[88] Elisabeth Schüssler  Fiorenza “Gesù…”, op. cit., pag. 256.

[89] Lc 1,46-55.

[90] Mulack Christa “Maria vergine e ribelle: la dea nascosta del cristianesimo” Red edizioni, Como, 1996, pag. 70.

[91] Franco Barbero, op. cit., pag.113.

[92] Mulack Christa, op. cit., pag. 82.

[93] Eva Renate Schmidt, Mieke Korenhof , Renate Jost (a cura di) “Riletture bibliche al femminile”, Claudiana Edizioni, Torino, 1994, pag. 29.

[94] Elizabeth Green “Dal silenzio alla parola”, Claudiana Editrice, Torino, 1992, pag. 8.

[95] Elizabeth Green “Dal silenzio …”, op. cit., pag. 9.

[96] Elizabeth Green “Dal silenzio …”, op. cit., pag. 11.

[97] Mulack Christa, op. cit., pag. 212.

[98] Eva Renate Schmidt, Mieke Korenhof , Renate Jost (a cura di), op. cit., pag. 20.

[99] Mt 15, 21-28, Mc 7, 24-30.

[100] Eugen Drewermann “Il messaggio delle donne. Il sapere dell’amore”, Editrice Queriniana, Brescia, 1993, pag. 169.

[101] Eugen Drewermann “Il messaggio …”, op. cit., pag. 149.

[102] Eugen Drewermann “Il messaggio …”, op. cit., pag. 156.

[103] Eugen Drewermann “Il messaggio …”, op. cit., pag. 158.

[104] Lilia Sebastiani “Donne dei Vangeli. Tratti personali e teologici”, Edizioni Paoline, Milano, 1994, pag. 63.

[105] Carol A. Newson, Sharon H. Ringe (a cura di) “La bibbia delle donne. Un commentario” vol. III: le Scritture apostoliche, Claudiana Editrice, Torino, 1999, pag. 40.

[106] Elisabeth Schüssler Fiorenza “In memoria …”, op. cit., pag. 164.

[107] Eugen Drewermann “Il messaggio …”, op. cit., pag. 172.

[108] Eugen Drewermann “Il messaggio …”, op. cit., pag. 165.

[109] Eugen Drewermann “Il messaggio …”, op. cit., pag. 173.

[110] Sallie McFague, op. cit., pag. 17.