L'ERA
DELL'INFORMAZIONE «EMBEDDED»
Quei giornalisti
che in Iraq devono levarsi dai piedi
GIANNI MINA'
AEason Jordan, per 23 anni executive
della CNN, era scappato dalla bocca durante uno dei panel ristretti del
summit di Davos, il forum economico dei ricchi, rivale di quello di Porto Alegre:
«Le truppe in Iraq non vanno tanto per il sottile. Sono a conoscenza dei casi
di 12 giornalisti uccisi deliberatamente dai soldati americani proprio in quanto
reporter». Subito avevano tentato di smentirlo i cronisti embedded,
quelli abituati a seguire la truppa e a «fare giornalismo» con le due cartelle
che al tramonto gli vengono consegnate nel briefing da un ufficiale
dell'esercito d'occupazione degli Stati Uniti, magari accompagnate da un paio di
fotografie e, se lavori nel settore audiovisivi, anche da un breve filmatino
giudiziosamente emendato da ogni immagine inquietante, compiuta dall'armata che
dovrebbe portare la pace. Ma Jordan non è un operatore della comunicazione di
primo pelo ed aveva vissuto gli anni d'oro della sua compagnia, quando la CNN
era diventata, come ha ricordato Giulietto Chiesa, «il sesto membro permanente
del Consiglio di Sicurezza dell'ONU». Così, per orgoglio, tentò di sostenere
che le sue parole «private» erano state mal riportate, anche se il problema
del fastidio con cui le forze d'occupazione Usa vedevano i reporter, quello
proprio non poteva smentirlo. Per l'executive di una compagnia, già
messa in crisi recentemente dalla disinvoltura e dall'aggressività della Fox TV
di Murdoch, quella che ha fatto negli States la campagna elettorale per
Bush jr., la dichiarazione rappresentava ormai un infortunio senza ritorno.
Così Jordan si è dovuto dimettere, pur con l'onore delle armi di tutta la CNN,
che certo adesso è molto più malleabile di quando, solo venti anni fa, faceva
tremare i presidenti degli Stati Uniti e non si rimangiava mai nulla. Ora l'ex
responsabile dei grandi eventi di attualità coperti da CNN pare sia andato a
Tahiti a ritemprarsi, ma le sue parole a Davos, dopo l'uccisione da parte di una
pattuglia dell'esercito degli Stati Uniti del funzionario del Sismi Nicola
Calipari, che aveva appena liberato Giuliana Sgrena dai sequestratori iracheni,
risuonano lugubri nelle orecchie di tutti coloro che non amano chiudere gli
occhi di fronte a una realtà insensata come quella imposta in Iraq da un
presidente degli Stati Uniti ostaggio delle multinazionali della guerra, del
petrolio e dell'energia.
L'altro ieri i prestigiosi quotidiani nordamericani (Washington Post, ormai
schierato col governo, New York Times e Los Angeles Times, timidamente
dissenzienti) unitamente ai network televisivi che nel week-end, come ricordava
Pantarelli, usano occuparsi solo del mondo dello showbusiness, avevano già
accettato acriticamente le tesi dei comandi militari americani a Bagdad («l'auto
degli italiani andava troppo forte e non si è fermata a uno stop»), eludendo
che il maggiore dei carabinieri aiutante di Calipari, ferito ma sopravvissuto
come la Sgrena a quello che qualcuno potrebbe definire anche un agguato, aveva
raccontato quasi in diretta telefonica al capo del Sismi Pollari, prima che gli
sottraessero il cellulare «Ci hanno sparato addosso per alcuni secondi. Nicola
è morto e ora ho un mitra puntato contro».
Sono gli stessi organi di informazione i cui giornalisti (alcuni dei quali
vecchi amici della mia giovinezza negli Stati Uniti) avevano confessato, subito
dopo la guerra in Afghanistan «E' molto triste. Ci hanno intimato di non
filmare morti, di non raccontare o far vedere la folla di profughi disperata che
fuggiva in Pakistan. L'orgoglio e l'indipendenza del giornalismo investigativo
nel nostro paese sono finiti». Ma sono anche gli organi di informazione che non
hanno sentito il bisogno di alzare un dito dopo le dichiarazioni di Eason Jordan,
che loro sanno bene essere vere.
Per questo era grottesco vedere molti politici italiani ieri alla televisione,
mentre giustamente segnalavano l'eroismo di Nicola Calipari, ma non erano capaci
di condannare la macchina infame che ha già causato 120 mila morti fra i civili
iracheni (molto più delle orrende repressioni di Saddam) e una barbarie dove al
terrorismo di Al Quaeda (in una nazione che una volta era laica e non era
succube di integralismi religiosi), si risponde insensatamente spianando città
come Fallujia e ora Ramadi, e ancora, torturando, ammazzando innocenti,
perseguitando giornalisti o pacifisti. Anche una guerra, per quanto crudele, ha
un codice di comportamento.
Quel codice è saltato, senza possibilità di smentita in Iraq ed è avvilente
che a decidere questo andazzo siano stati i rappresentanti del paese una volta
leader delle democrazie occidentali. Il paese che, fra qualche settimana,
chiederà, per esempio, alla Commissione diritti umani dell'Onu, come fa
ritualmente, di censurare Cuba per i suoi 500 «prigionieri di coscienza», ma
ancora una volta eluderà di rispondere sugli esseri umani che tiene come polli
nelle stie nella base di Guantanamo con accuse non provate di essere terroristi.
Lo stesso paese che si rifiuterà di rispondere sui dossier della stessa Onu che
lo inchiodano alle responsabilità riguardo ai 3000 cittadini desaparecidos
per le leggi anti-terrorismo volute da Bush jr. dopo l'11 settembre. Cittadini
dei quali le famiglie non sanno più nulla e che nessun avvocato può difendere.
Lo stesso presidente qualche tempo fa, senza imbarazzo, ha detto «Molti di loro
non ci possono più nuocere». Non possono più farlo perché sono stati fatti
fuori senza processo? O perché, come sta venendo a galla per merito di
giornalisti non embedded, sono stati consegnati a servizi segreti di
paesi alleati come il Pakistan del «dittatore buono» Musharraf o dell'Egitto
«democratico» di Mubarak o dell'Arabia Saudita, antico alleato, fin dal tempo
in cui la famiglia di Bin Laden era socia in affari del clan Bush?
Fa impressione la disinvoltura con cui un politico come Giovanardi o un analista
come Magdi Allam tentano di sottolineare la svolta democratica che questa guerra
crudele avrebbe portato in Iraq, ostentando delle elezioni alle quali dovremmo
credere, pur se non c'era Jimmy Carter e la sua Fondazione (come in Venezuela) a
garantire la loro regolarità, ma un ex asset della Cia come Allawi e un
ambasciatore americano imbarazzante come Negroponte, quello che, quando
dall'Honduras guidava la «guerra sporca» di Reagan contro la rivoluzione
sandinista in Nicaragua, fu accusato di aver coperto ogni abuso e numerose
violazioni dei diritti umani dei famigerati Contras. Erano in Iraq questi
signori, a visitare i seggi, a verificare la regolarità delle operazioni nelle
urne e poi del conteggio dei voti, reso noto solo dopo una settimana? O si
fidano dei famosi filmati che gli operatori militari forniscono ai giornalisti embedded?
E comunque, anche in queste contraddittorie condizioni nelle quali i sunniti (il
20% del paese) hanno disertato le urne, risulta chiaro che i vincitori, cioè il
blocco degli sciiti, chiedono soltanto una cosa: che le truppe occupanti se ne
vadano. Ma per questi analisti a senso unico simili dettagli sono senza
importanza.
Forse è proprio perché un'informazione così improbabile possa continuare a
prosperare impunemente che giornalisti scomodi come Giuliana Sgrena o come
Florence Aubenas non devono stare tra i piedi a Fallujia o a Ramadi, e come loro
tanti altri colleghi, finora ignorati malgrado la rivelazione di Eason Jordan,
sono stati vittime della «democrazia» esportata in Iraq dalla guerra, pronta a
togliere la vita anche a persone morali come Nicola Calipari, servitori dello
stato capaci di restituire dignità e rispettabilità a un mestiere, talvolta
discusso, come quello dei servizi di intelligence.
Perchè, qualunque sia la verità, se si vuole eliminare un testimone scomodo,
quale miglior occasione che quella di un errore dovuto a una non adeguata
comunicazione? Tanto il povero Calipari è morto e non potrà smentire.
il manifesto 7.3.2005