MA QUANTO È INDIGESTO IL LATTE DELLA NESTLÉ. UNA STORIA ININTERROTTA DI DENUNCE

33117. ROMA-ADISTA. La certificazione equa e solidale concessa alla Nestlé (per una qualità di caffè solubile proveniente da cinque cooperative dell'Etiopia e del Salvador) dalla Fairtrade Labelling Organization, la casa madre europea degli enti di certificazione nazionali (v. Adista n. 75/05), non basterà alla multinazionale svizzera neppure per iniziare a rifarsi una verginità. Se è di questi giorni lo scandalo del "latte all'inchiostro", rimasto tranquillamente sugli scaffali dei supermercati per altri due mesi dalla segnalazione di tracce di Itx, è però da più di 20 anni che la potente multinazionale svizzera - presente in più di 70 Paesi, con 500 fabbriche, 220mila dipendenti e 300 marchi di sua proprietà - riceve denunce da ogni parte del mondo.
A ricordare almeno alcuni dei misfatti della Nestlé è l'Agices, l'Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale, in una lettera (firmata anche dall'Associazione delle botteghe del mondo Italia e da Tranfair/Faitrade Italia), in cui, intervenendo nuovamente ed energicamente nella polemica relativa alla certificazione fair trade del caffè del colosso svizzero, viene chiesto a tutte le organizzazioni internazionali di commercio equo di "impedire la concessione del marchio Fairtrade alla linea di caffè in questione" e di "aprire una discussione sui criteri utilizzati per la certificazione delle imprese multinazionali". "Parlare di commercio equo e solidale - si legge nella lettera - oggi non significa richiamarsi a generali appelli alla solidarietà, ma vuol dire focalizzare l'attenzione sugli squilibri economici e sociali che caratterizzano le periferie del mondo, quelle delle nostre città come quelle di continenti lontani. In particolare vuol dire ricercarne le cause primarie ed agire a livello politico, economico e sociale per rimuoverle". Secondo i tre organismi del circuito equo italiano, la forza di un'esperienza come il Commercio equo e solidale sta proprio nell'indurre "comportamenti responsabili, se non addirittura etici, nelle imprese e nei consumatori": imprese che "per la stragrande maggioranza dei casi, ricercano un profitto senza regole e senza limiti".

Un modello di impresa da boicottare
E la Nestlé, su questo terreno, non ha proprio nulla da imparare: se non bastassero le accuse (per le quali è da 26 anni sotto boicottaggio internazionale) relative alla violazione del Codice internazionale Oms/Unicef sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno, il cui scorretto utilizzo è causa di un milione mezzo di morti infantili all'anno nei Paesi del sud del mondo, molti altri scheletri si affollano nell'armadio della multinazionale. Nel 2003, ricorda la lettera delle organizzazioni italiane del commercio equo, la multinazionale svizzera chiuse una sua fabbrica nel Salvador rifiutando di negoziare i termini della chiusura con il sindacato locale (solo grazie a una campagna internazionale di solidarietà si giunse ad un accordo); sempre nello stesso anno, in Corea, fu accusata dalla Commissione per le relazioni sindacali della provincia di Chungbook di ricorrere a "ogni sorta di intimidazioni e intromissioni" nella disputa con il sindacato locale; il 14 luglio 2005, l'International Labor Rights Fund ha depositato presso la Corte federale di Los Angeles una denuncia contro la Nestlé ed altre due compagnie, la Archer Daniels Midland e la Cargill, tutte e tre impegnate a importare cacao dalla Costa d'Avorio, con l'accusa di traffico di bambini, torture e lavoro forzato.

Un'unica sentenza: colpevole
E, ancora, una netta condanna della Nestlé è giunta da un Consiglio di cinque personalità distintesi nel terreno della difesa dei diritti umani (Carlo Sommaruga, Rudolf Schaller, Carola Meier-Seethaler, dom Tomas Balduino e Anne-Catherine Menétrey), una sorta di tribunale di opinione chiamato ad esaminare le denunce dei lavoratori della Nestlé in Colombia, nell'ambito di un incontro promosso il 29 e il 30 ottobre, a Berna, dalla ong svizzera Multiwatch (che riunisce movimenti sociali, organizzazioni di carattere religioso e forze politiche). "Per la sua negligenza nel garantire la qualità dei suoi prodotti e la protezione dell'ambiente, per la sua politica di smantellamento delle condizioni di lavoro e di ostilità implacabile nei riguardi dei sindacalisti e per i suoi metodi aggressivi in termini di politica economica, Nestlé – è stata la sentenza del Consiglio – oltrepassa ogni limite tollerabile". Completano il quadro, secondo il Consiglio, l'inesistenza di garanzie giuridiche per la protezione dei diritti dei lavoratori e la presenza dei gruppi paramilitari nelle vicinanze delle imprese, che alimenta un clima permanente di violenza, paura, minacce e scontri. A farne le spese, nel 2003, sono stati 175 operai dello stabilimento colombiano Cicolac, a cui la Nestlé aveva estorto la richiesta di dimissioni durante il rinnovo del contratto di lavoro, per rimetterli sotto contratto come lavoratori temporanei, con metà del salario precedente e senza protezione sociale. (claudia fanti)

ADISTA n° 85 del 10.12.2005