PACS VOBIS, PRODI ET RUINI
Il sogno di Enrico Peyretti
DOC-1654. TORINO-ADISTA. Immaginiamo che la Cei sia
"un'assemblea nella quale i vescovi discutono e si confrontano";
immaginiamo che i cattolici italiani pensino con la propria testa e non facciano
"semplicemente come dicono i preti"; immaginiamo che i laici non si
limitino ad identificare il pensiero religioso con i personaggi della gerarchia
cattolica ma provino a osservare e studiare "l'animo serio dei
credenti" e riconoscano l'importanza del dialogo e del confronto sulle
"domande umane universali" come amore, giustizia, violenza, morte…
Immaginiamo infine un altro don Camillo, non quello delle martellanti incursioni
politiche, ma uno che "rilegge e rimedita il vangelo di Gesù col pensiero
alla gente che più soffre e dispera" e trasmette alla società il suo
messaggio d'amore: allora forse anche Peppone, Prodi o qualunque politico
responsabile, "sentendosi incoraggiato e non sostituito", potrebbe
trovare soluzioni possibili a certi problemi come quello delle coppie non
riconosciute, con buona "pacs" di Ruini e Prodi, e della società
italiana.
Sono le fantasie, i sogni, gli auspici di Enrico Peyretti, redattore del Foglio
di Torino, a commento dello scontro sui Pacs, i Patti civili di solidarietà per
regolare lo status giuridico delle coppie di fatto (v. Adista n. 64, 65 e
66/05).
Difficile tener dietro a tutte le incursioni politiche di don Camillo (Ruini).
Difficile pure sentire qualcosa di nuovo nelle rivendicazioni di laicità dello
Stato, della politica, della legislazione. Un gioco che si ripete. Allora, che
fare?
Proviamo a immaginare. Cominciamo dalla Cei. Imma-giniamo che sia un'assemblea
nella quale i vescovi discu-tono, confrontano opinioni, valutazioni, scelte
diverse, e cercano insieme quella che sembra la più giusta e opportuna da
suggerire e proporre alla gente. Sappiamo che la diversità c'è, tra i vescovi,
ma chi la vede? Filtra da sotto le porte chiuse, ma la occultano sotto i
tappeti. Persone non libere di discutere serenamente, o di far sapere che si
discute, difficilmente scelgono bene, difficilmente aiutano l'unità tra i
cattolici sui beni e i valori essenziali, difficilmente danno l'esempio di
cercare, anche nelle difficoltà, concordia e saggezza operativa, che sarebbe,
da chiunque venga, un esempio utile alla mai facile democrazia.
Poi immaginiamo il mondo dei cattolici italiani. Ma qui l'immaginazione mi
sembra meno lontana dalla realtà. In grande parte i cattolici italiani pensano
con la loro testa e coscienza. Magari sbagliano anche (rischio ineliminabile
dalla libertà, rischio riducibile solo con la libertà), per esempio facendosi
influenzare da un diffuso individualismo non cristiano, insensibile alle
infinite vittime dell'ingiustizia mondiale. Molti di loro decidono in politica e
nella vita non perché lo dice Ruini, ma perché così sembra loro più giusto
(ma anche, spesso, più conveniente). Certo, la parte di cattolici che non si
assume responsabilità morali e politiche, e che semplicemente fa come dicono i
preti (i quali, anche loro, pensano e dicono cose diverse, anche diversissime,
per lo più con molta cautela), questa parte c'è, e su di essa fanno molto
conto quasi tutti i partiti, i quali, sotto le dichiarazioni ufficiali, tessono
contatti (e contratti) con chi influenza e orienta questi cattolici.
Quindi immaginiamo il mondo "laico" (nel senso di non cattolico, e per
lo più non religioso) italiano. Qui l'imma-ginazione, il pensiero desiderante
(che è legittima guida al pensiero che constata la realtà), mi presenta una
laicità meno reattiva, meno dipendente. Tale mi sembra ancora il laicismo,
ricalcato storicamente sul clericalismo (e anche viceversa). Quando la cultura
laica tratta il fenomeno religioso individuandolo nei personaggi della gerarchia
cattolica, nei loro proclami e manifestazioni, nelle posizioni più ufficiali e
istituzionali, sbaglia obiettivo, lascia che gli aspetti esteriori e
spettacolari devino la sua attenzione e comprensione delle persone religiose,
con le quali, nella società, i laici hanno pure a che fare. Oso dire che tra i
laici la conoscenza della religione, delle religioni, e della reale vita
religiosa, è, spesso, minore della conoscenza delle culture laiche e della vita
laica tra i credenti. Ciò dipende dall'idea piccina che la religione è roba da
preti e da soggetti ai preti. Da qui la complicità tra gerarchia cattolica e
laicismo nel consegnare solo a persone nominate dai vescovi l'insegnamento della
religione nelle scuole, e la storica (stolida) assenza (ora minore) di studi
religiosi nelle università. Se la cultura laica, che ha intelligenze e mezzi,
osservasse e studiasse, pur senza condividerlo, l'animo personale serio dei
credenti in Dio, dei discepoli di Gesù di Nazareth, se osservasse lo spirito di
chi riconosce che la propria faticosa esistenza, e tutto il drammatico cammino
umano, sono accompagnati da un amore più vivo delle nostre vite precarie, non
troverebbe dei pazzi o dei pavidi (la religione non è tutta patologia!) ma
persone con cui dialogare seriamente, pur con visioni diverse della condizione
umana.
Quando Bobbio (soprannominato "il papa laico") parlava della sua
"religiosità" (non religione), consistente nelle grandi domande umane
universali, insopprimibili anche quando non hanno risposta, stabiliva un terreno
di dialogo, di ascolto reciproco, di intesa nella differenza tra credenti in Dio
e non credenti. Che cosa pensiamo sul dolore, sulla speranza, sull'amore, sul
bisogno di giustizia, sulla fragilità e la morte, sulla violenza, sulla colpa,
sul perdono, sulla malvagità, sulla paura, sul desiderio di felicità, sulla
fame di bellezza, e simili interrogativi? Le religioni umane hanno dato alcune
varie risposte, più resistenti nel tempo che non le risposte filosofiche. Ci
sarà in noi un livello spirituale, di intelligenti intuizioni del cuore, più
profondo di quello razionale, pure assolutamente indispensabile? Abbiamo solo,
su quelle domande, sentenze, certezze opposte, dogmi o negazioni, da buttarci
addosso l'un l'altro? Oppure dobbiamo solo lasciarci stordire dalle stupidaggini
potenti del divertimentificio obbligatorio? Non abbiamo invece da darci una mano
umana - e, sì, fraterna - nel dirci con mitezza quali prospettive ci permettono
rispettivamente di vivere e impegnarci ancora nelle difficoltà, nelle
delusioni, senza disperare, senza rassegnarci, senza rinunciare al sogno di una
umanità più umana?
E immagino anche un altro don Camillo. Un vescovo che rilegge e rimedita il
vangelo di Gesù col pensiero alla gente che più soffre e dispera, come appunto
faceva Gesù. Sulla faccenda dei Pacs, per stare all'attualità, non si incarica
di dare direttive legislative, ma ricorda a tutti che è giusto provvedere alle
situazioni umane più difficili, trascurate, magari condannate prima di
comprenderle, bisognose di tutela sociale. Si ricorda di Gesù davanti
all'adultera che stava per essere lapidata da persone molto religiose e
zelan-ti. "Vedete un po' voi - direbbe ai legislatori - voi che vi siete
assunti questo difficile compito di trovare soluzioni concrete e giuste. Tenete
conto anzitutto dei più deboli e indifesi". Poi direbbe a tutti, a
chiunque: "Vogliatevi bene. È questo che salva la vita dall'assurdo e dal
male. E se vi volete bene - pur con la fatica che tutti abbiamo da fare,
umilmente e continuamente, per correggerci e per perdo-narci il nostro poco
amore - sappiate che nel vostro amarvi c'è qualcosa di più grande delle nostre
capacità umane. Io sono un povero portatore della tradizione che viene dalle
parole di vita, dateci da Gesù Cristo, e vi dico, come leggo su una rivista di
coniugi cristiani: "Là dove un uomo e una donna si amano - ma aggiungerei:
dove chiunque si ama - e in questo amore accogliendosi si avviano insieme a far
nascere la propria umanità, là traspare il volto di Dio". E con
l'apostolo Giovanni, vi dico: "Dio nessuno l'ha mai visto: ma se ci amiamo
gli uni gli altri Dio rimane in noi". Il sacramento è questo, il mistero
vivo nel quale entriamo se ci amiamo. Non è una formalità, è molto più che
un rito, anche se questo è bello e aiuta nell'impegnarci insieme e nel pregare
gli uni per gli altri. Posso dirvi: amiamoci tutti, nella società umana giusta,
nelle reti di amicizie, nell'amore di coppia, ciascuno nel modo migliore che può,
assumendoci cura e responsabilità reciproca. Credete e aiutatevi a sperare
nell'amore, che è più grande di noi e ci salva dal cadere nell'egoismo,
nell'indiffe-renza e nell'odio, che sono la morte".
Allora, immagino che Prodi, e qualunque politico responsabile, possa cercare,
provando e riprovando, soluzioni possibili e buone a certi problemi come quello
delle coppie non riconosciute, sentendosi incoraggiato, impegnato, e non
sostituito. E, soprattutto, immagino che nel difficile mestiere di vivere,
sapremmo tutti un po' meglio di ora, darci una mano. Insomma, caro Prodi e caro
Ruini, pacs vobis!
ADISTA 15.10.2005 n° 70