Io
cattolica voto sì
Il prossimo
referendum su alcuni articoli della legge che regola la procreazione assistita
rappresenta un passaggio delicato e difficile della attuale situazione politica.
Lo rappresenta per sé stesso, perciò che coinvolge di pratica medica, di
attese esistenziali, di ricerca scientifica.
Lo rappresenta in
relazione alla questione del rapporto cattolici-laici, chiesa-politica, dei
rischi di uso politico della religione e di ritorno a steccati ormai
inaccettabili; ma lo rappresenta anche nel giudizio da dare sulle pratiche di
lavoro cui è approdato l' attuale Parlamento, nel corso di un' applicazione del
sistema maggioritario segnata dalla arroganza e perfino dal cinismo. Sono stati
consentiti, come era giusto fare, i ricorsi alle competenze scientifiche, alle
consuete relazioni con i soggetti interessati, ma i loro contributi sono passati
nella totale indifferenza della maggioranza, ferma sulle sue posizioni, così
come è stato respinto ogni tentativo di mediazione su un tema in cui la ricerca
di un punto di vista pubblico condivisibile è più di un dovere per il
legislatore, è un interesse preciso per chiunque voglia far prevalere una etica
comune, rafforzare il sentimento di responsabilità collettiva. L'opposizione
non ha mancato di farlo, ha cercato di farlo con l'ottimo lavoro di Giorgio
Tonini al Senato e quello di Amato in questo ultimi mesi ma nel generale e
irresponsabile sentimento di autosufficienza della maggioranza. Nel giudizio da
dare sulla legge questo dato di un'esperienza parlamentare che rifiuta il
dialogo e il confronto dovrebbe pure essere presente alla coscienza degli
elettori, e in particolare degli elettori cattolici, cui ne viene spesso un po'
retoricamente raccomandato il valore. Preferisco comunque impegnare la mia
coscienza di cattolica su queste raccomandazioni piuttosto che sulle reciproche
chiusure, sui veti e sul richiamo dogmatico in una materia che, checchè se ne
dica, non lo consente più di tanto.
Entrando nel
merito dei quesiti referendari vanno fatte due premesse, riprendendo del resto
un dibattito ormai pluriennale. La prima è sulla necessità di avere una legge,
che la scelta della Consulta di legittimare solo il referendum sugli articoli ha
confermato. In un mondo che si confronta drammaticamente sulla deriva ambientale
dopo secoli di entusiasmo tecnologico, non possono essere sottovalutati gli
interrogativi sull'impatto delle nuove tecnologie della riproduzione, sul futuro
della persona umana come tale, da un punto di vista medico, psicologico,
relazionale, etico, cui bisogna dare risposte serie, il che significa sobrie,
competenti, efficaci.
La seconda
premessa sta nell'invito a essere consapevoli che ogni eccesso di enfasi e di
generico ottimismo sulla fecondazione assistita è probabilmente malposto, fra
difficoltà degli esiti e ritorni di una concezione della maternità troppo
centrata sul legame del sangue. Sulla base dei dati che abbiamo, un approccio
corretto dovrebbe suggerirci in primo luogo di seguire soprattutto vie classiche
alla lotta contro la sterilità crescente e penso insieme alle politiche di
sostegno sociale per ridurre il rinvio della maternità ad età avanzate,
all'accessibilità delle adozioni, al finanziamento di ricerche mediche sulla
sterilità meno invasive e traumatiche di questa.
E' in ragione di
questa consapevolezza che sarebbe stato forse perfino più comprensibile, anche
quando non condivisa, una linea ecclesiale più volta a scoraggiare in radice le
pratiche di fecondazione assistita - certo sul terreno di un magistero morale
rivolto all'autonomia delle coscienze, e impropria sul terreno della
legislazione- e comunque impossibile ormai in relazione al consolidarsi del
fenomeno. Ma ormai la questione è sulla legge e della legge bisogna parlare.
Tre dei quesiti
abrogativi previsti ruotano tutti sulla questione della natura dell'embrione, in
relazione agli articoli che stabiliscono il diritto del concepito, che regolano
il numero degli embrioni prodotti e impiantati, senza tenere conto degli effetti
sulla donna e rischiando gravidanze plurime, a quelli che non consentono
l'indagine preimpianto delle eventuali malattie genetiche dell'embrione e
impongono comunque l'impianto anche di quelli geneticamente predisposti a
malattie, a quelli che vietano la ricerca sugli embrioni, anche quelli
crioconservati e destinati alla distruzione e l'uso delle cellule staminali a
scopo terapeutico; uno riguarda le possibilità della fecondazione eterologa,
cioè col contributo di un donatore esterno alla coppia.
Ho usato la
parola embrione non solo per semplificare (ma gli esperti usano più vocaboli,
da oolite a zigote, da morula a embrioblasto, secondo i tempi della sua
maturazione) ma per confermare il principio irrinunciabile del rispetto
dell'embrione e della sua dignità fin dal concepimento. Significa questo
parificare totalmente il concepito alla persona umana, fin dalle prime ore
dell'incontro fra il gamete maschile e quello femminile? Ciò che conta è che
l'espressione "rispetto dell'embrione" non sia parola vana e generica.
Esso si esprime soprattutto come rispetto dell'unicità del disegno genetico che
lo caratterizza e ne farà una persona ed ha la sua traduzione legislativa
decisiva non contestata nel divieto della clonazione, cioè l'intervento
sull'embrione per produrre individui potenzialmente identici.
In realtà prima
di parlare di "persona" e di rifiutare l'espressione che a me pare più
corretta di "potenzialmente persona", si dovrebbe tenere conto di ciò
che ci dice non la patologia o la terapia della riproduzione ma lo stesso
processo riproduttivo fisiologico normale. Fra il concepimento e l'impianto
nell'utero materno leggo (da incompetente) che solo il 15-20% dei concepiti
vincerà la difficile sfida dell'annidamento nell'utero che apre la via alla sua
crescita, e di questi una certa percentuale porterà a due o più embrioni. Si
può parlare davvero, su queste basi, di tutela pubblica del diritto alla vita,
una tutela che la natura stessa sembra non prendere in considerazione e non ci
consente comunque di esercitare? Una tutela che si scontra con quella che
appare, e provvidenzialmente è, un durissima logica selettiva, severa almeno
quanto la scelta proposta dai medici di non impiantare embrioni malati? La
sacralizzazione dell'embrione in troppe dichiarazioni a me pare più l'effetto
di un tentativo di riaprire il dibattito sulla 194, il che sarebbe anche
proposito lecito, se sereno e non strumentale, ma è comunque in questa forma
concettualmente sbagliato. Da una parte l'aborto di un feto di quattro settimane
presenta comunque una gravità incomparabile con quanto può accadere a un
embrione e non sarà una brutta legge a rendere credibile questa capziosità;
dall'altra paradossalmente una tale tesi riduce la gravità dell' aborto ( non a
caso previsto esplicitamente nella elaborazione della legge come soluzione nel
caso di embrione geneticamente malato) e blocca, come contro reazione, le
riflessioni diffuse che accennano a un approccio più libero e pacato.
Il discorso può
essere più delicato e problematico per la fecondazione eterologa. Ma anche qui
va affrontato sulla base dei fatti. L' aumento della sterilità maschile rende
il ricorso a questa tecnica una condizione obbligata per troppe coppie e il suo
divieto totale un sostanziale svuotamento della logica della legge. E obbliga a
misurarsi razionalmente col disagio che produce in taluni. Sono ridicole le
obiezioni di tipo moralistico che qualcuno ha avanzato ( "Sarebbe come fare
l'amore col postino" ha detto la Mussolini); qui non c'è nessun adulterio
in atto, c'è un progetto d'amore deciso insieme dai due partner, un impegno
solidale, un desiderio condiviso, assimilabile semmai all'adozione. E sarà bene
prevedere nella nuova legge che verrà, che questa predisposizione comune sia
verificata e garantita, che sia vagliata. Sono superabili, attraverso questo
vaglio iniziale e una preparazione adeguata, le obiezioni che temono gli effetti
di un'asimmetria di rapporti fra i coniugi in conseguenza del diverso rapporto
di sangue. Devono poter essere governati, utilizzando le esperienze straniere,
gli equilibri fra la difesa dell'anonimato dei donatori, e il diritto ad essere
informato, se medicalmente necessario, delle sue ascendenze genetiche da parte
del futuro soggetto. Si tratta insomma di sottoporre l'ammissione della
fecondazione eterologa a una verifica, non di proibirla.
Dunque, per
quanto mi riguarda, nella piena fedeltà alla mia coscienza di credente quattro
"si" che sono in realtà cinque; l'ultimo è per la difesa di un ruolo
del Parlamento altro da quello che abbiamo visto in azione, del resto, in questa
legislatura, non solo su questa legge, ma sui fondamenti stessi della
Costituzione Repubblicana.
Ma agli elettori
vorrei dire ancora qualcosa di più sulle altre opzioni. E' stata proposta
autorevolmente agli elettori cattolici la scelta dell'astensione, una scelta in
astratto lecita, prevista, e perfino premiata, dalla legge. Questa scelta è
stata definita da alcuni come un doppio no, e dunque come tale va giudicata e,
se si crede, contrastata. Il "no" significa anche riconferma del
modello di lavoro parlamentare di cui abbiamo parlato all'inizio, della
dittatura della maggioranza, della arroganza e del cinismo. L' elemento di
ambiguità è che in tale modo la somma delle astensioni come "no", di
quelle degli incerti e dubbiosi, di quelle dei pigri o indifferenti, si
sommerebbero con un effetto che non può essere assunto dal legislatore come
un'indicazione per il futuro.