Alcuni non lo faranno: quelli che lo insultarono quando era vivo e festeggiarono
con lo champagne il suo assassinio, anche se ora sono più prudenti e si
mostrano cittadini accondiscendenti e comprensivi. E siccome sono anche
populisti, se è necessario, andranno a Roma quando lo beatificheranno:
capiscono che Monsignore è amato da molti salvadoregni.
Altri si rallegreranno di celebrare Monsignore anche quest'anno. Lo ricorderanno
con tutto il cuore, parteciperanno all'eucarestia, ai dibattiti, alle
conferenze, ai concerti e alla grande veglia del 2 aprile. Ostenteranno
magliette con la sua effige, appenderanno un manifesto nelle loro case ed
ascolteranno la sua parola attraverso Radio Ysuca. Verranno a centinaia da
fuori, e alla fine saranno migliaia quelli che parteciperanno all'anniversario.
Per non dire quello che potrebbe accadere se si darà un qualche segnale che la
beatificazione potrebbe essere vicina. Tuttavia, nonostante questo, manca una
cosa che vorrei spiegare ricordando quello che è successo dopo la morte e la
resurrezione di Gesù di Nazareth.
I primi cristiani celebravano il suo ricordo con l'eucare-stia e intonavano inni
in suo onore; svilupparono una teologia piena di entusiasmo, iniziarono a
chiamarlo Signore, Figlio di Dio, Principio del Creato e nutrivano la speranza
che sarebbe tornato presto. Però i cristiani più preveggenti videro che questo
"solo" non bastava. Peggio, questo "solo" era pericoloso. E
allora apparve Marco col suo Vangelo. Venne a "molestare" i cristiani
troppo compiacenti, per non parlare dei cristiani che si erano dimenticati di
Gesù, e addirittura lo rinnegavano, come accadeva nella comunità di Corinto,
perché avevano trovato qualcosa di meglio: uno spirito leggero.
Il Vangelo di Marco certamente "celebra" Gesù e lo chiama
"Figlio di Dio", però non mette l'invocazione in bocca a gente
pietosa che attende miracoli, ma in bocca ad un pagano, il centurione romano, e
ai piedi della croce. Lo chiama anche "Messia", ma, quando succede,
Gesù dice alla gente di non dirlo a nessuno. Marco ci dice anche che la fede in
Gesù non fu affatto facile, né per i suoi familiari, né per i discepoli -
specialmente per Pietro - e certamente non lo fu per i teologi e i sacerdoti di
quel tempo. Infine il suo Vangelo termina ex abrupto in Mc 16,8: vicino
alla tomba le donne "ebbero paura e non dissero niente a nessuno". Era
talmente scioccante questo finale che, più tardi, vennero aggiunti alcuni
versetti per ammortizzare lo spavento.
Perché invitare Marco a colazione in questo XXV anniversario? Per imparare una
lezione importante. Non basta la celebrazione né la gioia, anche se sono le
benvenute come un soffio d'aria fresca in mezzo a tante sofferenze della vita.
Neppure basterà l'applauso che risuonerà all'annuncio della sua possibile
beatificazione. E se questo non basta, cos'è che manca? Torniamo a Marco. Quel
Gesù che non è interessato a che lo chiamino Messia è però interessato ad
una cosa: la sequela.
Torniamo a mons. Romero. Celebrarlo significa innanzitutto "seguirlo".
Come farlo? In primo luogo bisogna passare attraverso il cambiamento - o
conversione - attraverso cui è passato lui. In secondo luogo bisogna ri-fare la
sua vita. Entrambe le cose sono difficili, ma necessarie per il Paese e per la
Chiesa - su cui ora ci concentreremo - e recano salvezza. Per quanto riguarda la
"conversione", basta ricordare le seguenti parole:
"Il profeta denuncia anche i peccati interni alla Chiesa. Perché non farlo
se vescovi, papa, sacerdoti, nunzii, religiose, membri dei collegi cattolici
sono esseri umani, e noi esseri umani siamo peccatori e abbiamo bisogno di
qualcuno che ci serva da profeta per chiamarci alla conversione? Sarebbe molto
triste una Chiesa che si sentisse così padrona della verità da rifiutare tutto
il resto. Una Chiesa che condanna solamente, una Chiesa che vede il peccato solo
negli altri e non vede la trave che ha nel suo occhio, non è l'au-tentica
Chiesa di Cristo" (Omelia dell'8 luglio 1979).
E dopo la conversione, la prassi. Non è il momento di esporre in dettaglio
quale deve essere la prassi di una Chiesa fedele a mons. Romero, però possiamo
menzionare gli imput di lucidità, coraggio, fermezza, resistenza e speranza che
ci vengono da lui.
Come seguaci di Monsignore, bisogna dire la verità, non solamente
predicare una dottrina, anche se vera. Allora la verità si converte in denuncia
profetica dei mali che esistono nel Paese, si fanno i nomi dei carnefici e delle
vittime. Sebbene le cose siano un po' cambiate in questi 25 anni, mons. Romero
continua a rimandarci agli ambiti dove campeggia il male: 1) l'idolatria del
denaro, l'oligarchia prima agricola, ora finanziaria; 2) l'idolatria del
potere militare, più latente qui e più manifesta negli Stati Uniti, a cui
occorre aggiungere la spaventosa violenza attuale (da 8 a 10 omicidi al giorno
negli ultimi tempi); 3) la connivenza di alcuni partiti politici con
l'ingiustizia e l'irresponsabilità della maggior parte di loro davanti alla
miseria e alla sofferenza, a cui si va ad aggiungere la corruzione; 4) l'imperialismo
degli Stati Uniti nel commercio, nella nostra politica internazionale e,
soprattutto, negli pseudo valori che esso ci impone: individualismo, successo,
benessere economico; 5) la corruzione dell'amministrazione della giustizia che
ancora non ha chiarito neppure chi uccise Monsignore; 6) i mezzi di
comunicazione con la menzogna, le mezze verità, l'insabbiamento, secondo i
casi; 7) la falsificazione della religione, lo spiritualismo esagerato,
che non è la vita con spirito; l'individualismo alienante, che non è
appropriarsi personalmente della fede; il gregarismo che riempie gli stadi, che
non è la comunità e il sostenersi reciprocamente; l'in-fantilismo del
religioso, che non è la semplicità - come bambini - davanti al mistero di Dio.
Bisogna tornare alla prassi della misericordia, ultimo vestigio del nostro
essere cristiani, e tornare a promuovere la giustizia, la trasformazione delle
strutture. Bisogna recuperare l'opzione per i poveri, sul serio, senza
annacquarla, rischiando per essa, ricordando e onorando coloro che l'hanno
vissuta fino alla fine: i nostri martiri. Bisogna recuperare lo schierarsi di
Dio e del suo Cristo dalla parte dei poveri di questo mondo.
Bisogna recuperare l'evangelizzazione, nel significato primigenio che ha in Gesù:
l'annuncio di una buona novella ai poveri, senza che la novità nei metodi e nel
linguaggio sostituisca l'essenziale. Bisogna annunciare il Regno con credibilità,
senza pensare che ci sono cose più importanti da fare: alcune buone, come la
vita sacramentale; altre ambigue, come gli innumerevoli simposi, feste,
giubilei, anni dedicati a qualcosa, in modo tale che tutto si accumula come se
ci fosse un horror vacui, la paura di lasciare spazi vuoti nel tempo, la
qualcosa finisce col nascondere la buona novella di Gesù. E altre ancora
pericolose, e possono arrivare ad essere peccaminose: proselitismo competitivo,
ricerca di trionfi, tendenza ad sui contributi finanziari dei ricchi di questo
mondo.
Bisogna recuperare e promuovere l'organizzazione del popolo, nella società e
nella Chiesa. Non bisogna tornare agli anni '80, però bisogna tornare
all'intuizione fondamentale: come Chiesa siamo prima di tutto comunità, corpo;
e per influire sulla società, questa comunità deve essere strutturata,
organizzata, relazionata con altre forze sociali. È difficile, però bisogna
per lo meno pensarci e tentarlo.
Cominciamo da qui. Certo in questo noi zoppichiamo, mentre in questo Monsignore
eccelleva, ma non vedo come possiamo celebrarlo senza proporci almeno queste
mete. Soprattutto, però, occorre risvegliare lo spirito della gente. Detto con
le sue parole, bisogna portare vicinanza: "Come mi piace nei piccoli
villaggi umili che la gente e i bambini si accalcano insieme, vengono
insieme" (12 agosto 1979); consolazione: "Per me sono nomi
molto cari: Felipe de Jesús Chacón, 'Polin'. Io li ho pianti veramente"
(15 febbraio 1980); dignità: "Voi siete il divino trapassato"
(19 luglio 1977); gioia: "Con questo popolo non costa nulla essere
un buon pastore" (18 novembre 1979); speranza : "Sono sicuro
che tanto sangue sparso e tanto dolore non saranno stati vani" (27 gennaio
1980). E tutto questo con umiltà: "Credo che il vescovo debba
sempre imparare dal popolo" (9 settembre 1979) e con credibilità:
"Il pastore non vuole sicurezza finché non la danno al suo gregge"
(22 luglio 1979). È la consolazione che nasce dalla compassione, la gioia che
nasce dalla vicinanza e dalla solidarietà, la speranza che nasce dalla
credibilità.
Sappiamo tutti quanto questo sia difficile, però in questo anniversario almeno
non dichiariamolo impossibile, e chiediamo che questa sia la nostra utopia.
Monsignore non ha offerto né offre ricette, però offre cammini, luci, imput.
Molte altre cose si possono dire su come celebrare questo XXV anniversario.
Voglio aggiungerne ancora una, e di questa possono parlare "con autorità"
solo coloro che hanno vissuto situazioni simili a quella di Monsignore. A metà
degli anni Ottanta le madri dei desaparecidos mi chiesero di dire una
messa per ricordare mons. Romero. Quando stavo per uscire di casa, una semplice
lavoratrice della Uca mi disse: "nella messa per Monsignore, si ricordi di
mio figlio". Suo figlio era stato assassinato dai corpi di sicurezza.
Pensare che stava con Monsignore era la sua maggiore consolazione.
Non sappiamo cosa accadrà nei prossimi 25 anni, però ancora oggi c'è molta
gente che il 24 marzo ricorda i propri figli e figlie, i propri coniugi,
genitori, fratelli e sorelle, che furono assassinati. E chiedono a Monsignore
che ora vegli su di loro. Parlano a Monsignore come si parla ad un padre. Forse
gli chiedono favori, miracoli, però penso che non lo facciano perché vedono in
Monsignore un santo che fa miracoli, con dei poteri, ma perché vedono un uomo
buono, qualcuno che li ama veramente. Continua ad essere per loro una buona
novella. Questo accade "di nascosto", ma è la cosa più importante in
questo XXV anniversario.
ADISTA n°22 del 19.3.2005